"Sinead and Jane" di Christiano Cerasola


sinead and jane

 

Sinead teneva gli occhi socchiusi, il vento le faceva vibrare le folte ciglia, l’aria le sfiorava la testa rasata le raffreddava la nuca, le gelava le mani.

Accovacciata per terra, stringeva le ginocchia al mento, tremava. L’effetto della pasticca stava calando, l’alba taglieggiata dalle nuvole non era carica di buone promesse, il cielo grigio la soffocava, per quel motivo teneva le palpebre serrate. La linearità dei pensieri risucchiata nella spirale della follia.

Le prime persone, intabarrate in pesanti cappotti, le passavano accanto e la osservavano con disprezzo, i loro volti si tendevano in espressioni di sdegno, facce contrite, ghigni sarcastici, sguardi impietosi. Le donne stringevano al petto la loro borsetta, in preda a un atavico condizionamento che la classificava come un reietto, uno scarto, una ladra.

Sinead se ne fregava, aveva in mente altro, tutt’altro.

Pensava a Jane, ai suoi occhi liquidi, al suo volto da bambola. Poche ore prima danzavano felici, inebriate, ubriache. Drogate.

La musica le trafisse come un dardo che attraversa la carne, i sensi sublimati nella follia dell’emozione, le cellule cerebrali soggiogate dalla chimica, la seducente bellezza del pericolo che le attanagliava.

Jane e Sinead si amarono per lo spazio di una sera, come due fiere schiave del loro istinto primordiale. Disinteressate allo spazio, al tempo, vittime di loro stesse, ingiudicabili, incondannabili. Sincere, giovani, pure, belle.

Le fibre dei loro corpi mescolate, dissolute, diluite. Brividi piatti.

L’euforia raggiunse un livello tale da essere insopportabile, nessuna delle due sapeva, entrambi incoscienti e poco lungimiranti che le conseguenze di troppe emozione  si sarebbero, necessariamente, dovute pagare.

Si paga per ciò che non si commette, immaginate per la felicità…

Il prezzo era il distacco, la fuga, la paura.

Il timore della bellezza, il terrore che finisca, la vigliaccheria dell’essere umano, la codardia della giovinezza.

La mente impartì ordini a Sinead, le disse: “ Scappa, fuggi stupida, non restare qui. Che ti può dare lei se non dolore? Vattene via!”

E così fu, Sinead si allontanò da Jane, il distacco fu graduale ma irreversibile. Le luci stroboscopiche confusero la vista, la musica techno disturbò l’udito, l’ecstasy amplificò l’amaro  di quell’addio. Sapore di ruggine, odore di spazzatura, rumore scomposto.

Sinead se ne andò, sospinse le persone, urtò contro la gente, vomitò in un angolo per poi riprendere a scappare. Fuggiva da Jane, da se stessa, da un futuro dai colori pastello, dai milioni di luoghi comuni, di storie già raccontate, di vite già vissute.

Sinead credeva di essere forte, sfoderava il suo egoismo con orgoglio, sovrapponeva alibi e se ne convinceva, era pura anche in questo.

Anche se quel mattino, a pochi metri da quella discoteca, sdraiata sull’asfalto della 42esima strada il pensiero che cautamente ha tenuto sopito, per tutti i suoi ventiquattro anni, le inonda le viscere e risale dal suo inconscio, con la violenza di un conato di vomito, e’ un rigurgito che arriva  fino a farle bruciare i polmoni, la gola e il cuore. L’anima.

L’implacabile verità la assale e la avvolge fino a soffocarla, è difficile ammettere di aver sbagliato, è faticoso abbassare il capo, è umiliante contraddirsi, è inammissibile il fallimento. Soprattutto quando è impossibile tornare indietro.

Sinead si guarda in giro, tiene gli occhi bassi, mesti, allunga la sua mano sul marciapiede freddo e ci batte il palmo della mano provocando un rumore sordo. Rimane così, come una stella filante inutilizzata, dimenticata da un carnevale oramai passato. Ferma.

Salva, ma sconfitta.

 

Drive boy dog boy

Dirty numb angel boy
In the doorway boy
She was a-lipstick boy
She was a-beautiful boy
And tears boy
And all in your inner space boy
You had hands girls boy
And steel boy
You had chemicals boy…

 

Feat.  Trainspotting

 


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