“Sistemai la palla sul dischetto” di Rocco Ballacchino


 


Sistemai con cura la palla sul dischetto, lanciai uno sguardo determinato verso il portiere avversario, percorsi, con apparente disinvoltura, lo spazio che andava dal punto di battuta sino al limite dell’area di rigore, e mi posizionai attendendo il fischio dell’arbitro.
Quel sibilo tardò però a partire a causa delle insistenti proteste degli avversari che circondavano l’arbitro, formando un capannello di cui il direttore di gara si liberò dispensando una serie di cartellini gialli.
Fu il chiavistello che gli permise di fuggire da quell’aggressivo e ululante assedio.
In quegli attimi di attesa ebbi modo di notare, tra gli spettatori assiepati sugli spalti, la figura di mio padre, teso e concentrato come se fosse lui stesso di fronte a quel pallone, lui che m’invitava, serrando i pugni, a non avere esitazioni di fronte a quella massima punizione.
Mi aveva cresciuto a pane e calcio, raccomandandomi di non provare mai pietà per il portiere avversario, quello doveva essere un sentimento sconosciuto per un bomber di razza, cinico e spietato come un tiratore scelto, che non può permettersi di fallire il bersaglio.
Da quando ero poco più che lattante e avevo iniziato a correre dietro un pallone per gioco, quell’uomo mi aveva seguito, pedinato, scrutato con grande partecipazione emotiva.
Sognava un figlio immortalato nell’album delle figurine Panini, con addosso la maglia di una delle squadre di serie A o, nel peggiori dei casi, della serie cadetta.
Un figlio di cui conservare con orgoglio i ritagli di giornale, in cui si narravano le sue mitiche imprese in campionato o, addirittura, nelle affascinanti sfide serali delle coppe europee.
La sua restava comunque un’ambizione discreta e intima, coltivata in privato e mai offerta a orecchie alcune.
L’atteggiamento di mia madre era diverso, forse dettato da alcune esperienze personali che l’avevano profondamente segnata.
Si era ormai radicata in lei una congenita vena di pessimismo, che la portava a non illudersi sulla mia possibile affermazione nell’universo pallonaro, anche se avevo dimostrato, ed erano in molti a dirlo, capacità tecniche superiori alla media.
Lei mi seguiva negli studi con severità e rigore persino eccessivi e se le apparivo svogliato era capace d’inscenare furiose litigate con mio padre, colpevole di incoraggiare la mia giornaliera fuga verso quel magico prato che profumava di erba e tacchetti, di vittorie e sconfitte, di sogni e delusioni.
Nonostante ciò, il pallone restava il mio amico più fidato e anche mia madre, nelle partite in cui risultavo decisivo, provava una mai svelata soddisfazione per quel figlio con il calcio nel sangue.
D’altronde la sua collaborazione era assolutamente fondamentale, soprattutto nelle non rare occasioni in cui il nostro bagno veniva invaso dalla mia divisa lercia e, soprattutto nel periodo invernale, totalmente infangata.
Tra le piastrelle bianche di quel piccolo bagno l’aria sapeva di sudore e fatica, di corse e scivolate, di tackle e dribbling.
Anche a rischio di apparire presuntuoso, devo ammettere che promettevo veramente bene: ero il capocannoniere della squadra del mio piccolo paese da qualche stagione, il che equivaleva a essere uno dei personaggi più in vista all’interno di quella variopinta collettività.
Soltanto il sindaco, il parroco o il barista potevano vantare il mio stesso livello di popolarità, anche se i gol sono gol e il loro fascino resta assolutamente inarrivabile.
Durante la settimana che precedeva la sfida domenicale, gli incontri con le persone per strada erano caratterizzati da vigorosi incitamenti: pacche sulle spalle e coloriti incoraggiamenti, in in cui mi invitavano a compiere il mio dovere di bomber senza badare alla classifica, più o meno derelitta, degli avversari.
C’erano accese rivalità con squadre di alcuni paesi limitrofi che si trascinavano da decenni e che trasformavano quella sfida in qualcosa di più di una semplice partita di calcio.
A volte i commercianti mi promettevano succulenti premi in natura per le mie performance sportive e in più di un’occasione mi era capitato di rientrare a casa, dopo la partita, con il borsone colmo di salami caserecci, bottiglie di nettare rosso, formaggi stagionati e frutta appena colta.
Di tutto quel ben di Dio rinunciavo soltanto al vino ma era una mancanza a cui rimediava, con immenso piacere mio padre, barricandosi dietro il banale pretesto di brindare ripetutamente ai miei successi sportivi.
Anche mio fratellino si vantava con gli amici per la prestigiosa parentela  e scommetteva la propria merenda sul numero di gol che avrei realizzato durante il campionato.
Quella volta la palla continuava a danzare nervosamente sul dischetto e fui costretto a tornare sui miei passi per sistemarla nuovamente.
I secondi cominciavano ad apparirmi interminabili, anche se ero ormai avvezzo alle emozioni forti e alle responsabilità da prendermi in spalla, una zavorra appesantita dalle speranze dei miei compagni che se ne stavano, con le gambe tremanti, sparsi su tutto il terreno di gioco.
Attendevano l’esito di quel calcio di rigore come fiori disseminati su un prato, alcuni non guardavano mentre altri si affidavano a gesti scaramantici, che non avrebbero mai e poi mai mutato un destino affidato alla precisione del mio piede destro.
Era scontato che fossi io ad assumermi quell’incombenza, dato che a volte raccoglievo da solo i meriti per una realizzazione che era soprattutto il frutto di un affiatato gioco di squadra; un assist resta un gesto nobile, ma non avrà mai la stessa enfasi di un gol, rimanendo sempre un fratello minore sfortunato e adombrato da un fratello maggiore di successo.
Sospingere il pallone oltre la linea bianca della porta era spesso un gioco da ragazzi, ma nasceva dal lavoro altrui: dal sacrificio dei mediani spaccapolmoni, dal rinvio deciso del portiere, dall’intraprendenza dell’ala destra, dalla creatività del fantasista, dalla verticalizzazione azzeccata del regista.
In quell’attesa, simile a una ripresa rallentata, ebbi modo di scorgere la presenza della mia ragazza ai bordi del campo.
Se ne stava aggrappata alla rete di protezione che separava i giocatori dagli spettatori, con il corpo infreddolito a causa della bassissima temperatura di quei  primi giorni di febbraio.
Ci eravamo fidanzati pochi mesi prima e, anche se me l’avesse anticipato una sfera magica, non avrei mai creduto al fatto che quella ragazza sarebbe diventata mia moglie e la premurosa madre dei miei figli.
Quando si è così giovani le storie d’amore nascono quasi per caso e all’inizio è facile sottovalutare il peso che un incontro potrà rivestire nel proseguo dell’esistenza di un uomo.
Durante quegli anni di vita ad alta percentuale di calcio, Francesca ebbe la pazienza di sopportarmi anche nelle occasioni in cui le preferii l’ennesimo e forse inutile allenamento supplementare.
Quel rapporto veniva però messo in crisi nelle occasioni in cui, presente con il corpo, ero mentalmente latitante; perso nei miei pensieri che vagavano tra la maglia azzurra della nazionale e gli ingaggi fantamiliardari della serie A.
Non sopportavo il suo sguardo che scandagliava tutti i miei movimenti, ma più probabilmente m’infastidiva la sua incomprensione per la sacralità di quel momento, a differenza degli altri spettatori che schiumavano di rabbia e attendevano impazienti di festeggiare quella realizzazione.
Per lei ero soprattutto un bel ragazzo in calzoncini corti che si divertiva tirando due calci a un pallone nella squadra del suo paese,  nulla di più.
In fondo non ero nient’altro che quello, con la mente però annebbiata da troppe illusioni che mi avevano fatto smarrire le coordinale del buon senso, riferimenti importanti che, fortunatamente, ritrovai in seguito.
Stava per partire la mia rincorsa quando il portiere avversario mise in atto la consueta tattica psicologica utilizzata da tutti i custodi della porta.
Mi venne incontro e disse all’arbitro che il pallone non era sistemato correttamente al centro del dischetto, una millimetrica irregolarità che lo sguardo laser del numero uno aveva individuato al solo scopo di accrescere il mio nervosismo.
Mi ero abituato, sin dai tempi delle giovanili, a quelle sceneggiate, piccoli stratagemmi che ti insegnano gli allenatori o che si imparano osservando i grandi campioni in televisione.
Nonostante la mia innata freddezza iniziai a spazientirmi, forse perché sapevo che quella non era una partita come le altre e quel rigore, a pochi minuti dal termine dei novanta minuti di gioco, non avrebbe deciso solo quel match ma avrebbe potuto influire anche sul mio destino di calciatore e di uomo.
Pochi minuti prima dell’inizio dell’incontro avevo saputo, grazie al mio allenatore, che sarebbe stato presente in tribuna un osservatore appartenente a un blasonato club della massima serie.
Non era difficile immaginare l’identità del giocatore sotto osservazione…
Non so come feci a rimanere in piedi dopo quella notizia; avevo atteso quel giorno da sempre e le gambe iniziarono a tremarmi con un ritmo indiavolato che faticai a domare.
Quando ripresi a respirare regolarmente, mi imposi di restare calmo. Avrei dovuto disputare quel match con la consueta determinazione, senza farmi condizionare da una notizia in grado di turbare la mia serenità mentale.
Nei minuti in cui rimasi tra le mura bianco sporco dello spogliatoio, sfilarono davanti ai miei occhi i fotogrammi di tutti i miei idoli con le loro diverse casacche, i titoli su sfondo rosa del giornale, i taccuini affamati dei giornalisti, le facce invidiose di chi non era arrivato a una spanna del cielo.
Fino quel calcio di rigore avevo disputato una buona partita. Mi ero reso più volte pericoloso in contropiede e avevo sgobbato per irrobustire il centrocampo in chiara difficoltà.
Era una partita equilibrata, di quelle decise da un singolo episodio, non potevo permettermi di giostrare solo nella metà campo avversaria perché c’era bisogno di dare una mano ai miei compagni, soprattutto sui calci piazzati.
Lo 0 a 0 appariva una soluzione inevitabile fino a quell’incredibile chance dagli undici metri.
Segnare in quell’occasione significava molto, forse troppo, soprattutto per l’impressione che avrei fornito all’osservatore, mi avrebbe attribuito doti di freddezza e cinismo nelle relazioni che avrebbe sottoposto ai suoi superiori.
Quasi inatteso arrivò il fischio del direttore di gara.
Un sibilo che è rimasto intrappolato nella mia memoria e che riesumo di tanto in tanto.
Partii con una rincorsa decisa.
Volevo spiazzare il portiere ed evitare una rischiosa soluzione di potenza.
Mi sarei avvalso di una collaudata finta di corpo. “Portiere da una parte e palla dall’altra”, era un’espressione che sin da bambino mi aveva affascinato perché racchiudeva in sé, oltre la sconfitta del nemico, la sensazione d’impotenza che doveva invadere l’animo del portiere.
Giunsi sul pallone con il fiato degli avversari sul collo. Erano pronti a gettarsi su un’eventuale ribattuta.
Quell’ipotesi però svanì nel momento in cui il portiere subì, tuffandosi nella direzione sbagliata, la mia umiliante finta. Calciai dalla parte ormai sguarnita da ogni possibile protezione, ma la sfera magica s’infranse contro il palo prima di rotolare fuori dal terreno di gioco.
Immobile e incredulo, dopo quell’errore, osservai gli avversari esultare, urlare e applaudire.
Mi sentii improvvisamente svuotato d’ogni energia psicofisica.
Ero sotto choc e guardai verso la tribuna per scorgere la figura di mio padre. In quegli istanti di sconforto, circondato dagli incoraggiamenti dei miei compagni, cercai il suo sguardo tra le altre facce che distinguevo con difficoltà.
Il sorriso consolatore con cui quell’uomo accolse quel disperato S.O.S. è una tra le cose che non dimenticherò mai.
Da lui mi sarei aspettato qualche colorita imprecazione oppure una fuga con la coda tra le gambe verso casa, ma trovai invece riparo in quell’espressione di solidarietà in cui il padre ebbe la meglio sul tifoso e l’amore per un figlio neutralizzò la foga dettata dall’agonismo.
Al fischio finale provai maggiore soddisfazione per quell’inatteso gesto d’affetto rispetto all’amarezza per tutto ciò che era sfumato.
Non arrivai mai a giocare né in seria A, ma nemmeno in serie B, anche se quell’osservatore pluridecorato affermò che quel rigore non avrebbe influito sul suo giudizio.
Resta in me, immagino sia comprensibile, la sterile curiosità di sapere come sarebbero andate le cose se quel pallone fosse finito in fondo al sacco.
Una venatura di rimpianto attraversa ogni tanto il mio animo anche se di quella giornata non dimenticherò mai l’immagine, sempre viva nella mia mente, di un padre che, mettendo da parte tutto il proprio egoismo, consola suo figlio per un umanissimo errore.


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