"Sognando al meglio" di Carlo Frilli


 

 

“E dai, non rompere e datti una mossa! Vestiti, passo a prenderti per le nove.”

Non ci conosciamo da tanto con Marco, ma quando usa questo tono, riesce sempre a convincermi. Eppure la serata era di quelle fredde e un po’ umide,  che già mi figuravo sul divano con il telecomando che cade dalla mano, insieme alle palpebre.

“Chissà che posto è quello! Speriamo almeno che non sia la solita discoteca zeppa di pivelli…” Gioco l’ultima carta per vedere la reazione, ma non credo neanche per un attimo che questo lo dissuaderà dal presentarsi sotto casa mia alle nove in punto.

“Tranquillo e sbrigati. A dopo pantofolaio!”

Chiudo la comunicazione con uno sbuffo pensando un “che palle!” grosso come una casa. E poi mi viene in mente che non so neppure se ho una camicia decente e stirata da mettermi. Spengo la tv, mentre il gatto mi guarda insospettito dal mio movimento. Forse si aspettava di vedermi buttato sul divano accanto a lui, o forse semplicemente non pensa a nulla e mi tiene d’occhio come una spia aliena.

I gatti mi sanno di spie aliene da sempre, sono troppo atipici come animali. Mi desto dalle mie cazzate di pensieri e vado in camera dritto verso l’armadio. Una camicia sulla gruccia in effetti c’è, è blu scura e di sicuro piena di peli felini. La prendo per darle un’occhiata prima di  indossarla. Meno pelosa di quanto pensassi e tutto sommato nemmeno troppo stropicciata. La lascio sul letto soddisfatto e vado a darmi una bella rinfrescata in bagno. Non si sa mai, le serate con Marco possono diventare tristi o allegre,  come le sbornie,  e anche se stasera non ho il migliore dei miei umori addosso, cerco lo stesso di essere positivo.

Anche lo specchio riflette quest’immagine di me poco convinta, ma fingo di vedere la parte passabile. Faccio una smorfia e mi metto a ridere. Basta poco per rimettermi in sesto. L’acqua fredda in faccia e sotto le ascelle fa il resto.

Ritorno in camera zampettando nudo come un verme, infreddolito ma pulito e facendo “brrr brrr” con la bocca.

Accendo la luce e con orrore scopro Romeo sulla mia camicia quasi immacolata!

“Cazzo Romeooo! Scendi giù e vai di là! Ma proprio sulla mia camicia dovevi metterti a dormire coglionazzo di  un gatto!”.

Piglio la camicia dal colletto come avessi preso il gatto per la colottola e la esamino per bene. E’ piena di peli grigio-bianchi.

“E adesso ?” chiedo al nessuno che non mi ascolta, tanto per cambiare.

Mi viene in mente la tecnica che usava mia madre. Vado quindi in bagno e metto le mani sotto l’acqua. Poi le passo facendo come delle carezze sulla camicia, ma alla fine dell’operazione i peli sembrano rimasti quasi tutti e in compenso la camicia è zuppa.

“Bene!” esclamo esasperato.

E’ tardi e tra meno di mezz’ora Marco suonerà prima il clacson e poi il citofono. Decido quindi, strozzando un’imprecazione, di infilarmi lo stesso la camicia pelosa e di metterci semmai sopra un maglioncino. Come non detto, siamo punto a capo, anche quelli sono parecchio pelosi, ma scegliendone uno chiaro posso cavarmela.

Perfetto, può andare, il maglione beige mi ha dato una mano. Infilo la giacca e dopo aver preso anche gli spiccioli dal porta oggetti sulla mensola, mi chiudo la porta alle spalle e giro la chiave due o tre volte nella toppa, per essere sicuro che non esca il gatto e non entrino rogne.

Marco non c’è ancora e fuori fa freddo, minaccia pioggia. Ho smesso di fumare,  altrimenti adesso una sigaretta ci starebbe bene.

Eccolo, quasi puntuale, con la musica che si sente dai finestrini chiusi. Entro e abbasso a volume normale “I was made for lovin’ you baby”.

Marco mi guarda male, lo guardo male anch’io, poi gli occhi mi sorridono e rialzando il volume mi lascio coinvolgere da questo strepitoso pezzo dei Kiss.

Buona musica, un po’ di riscaldamento, quattro chiacchiere e tappa in autostrada per un caffè, direzione basso Piemonte.

Arriviamo  in un posto nell’alessandrino che non avevo mai visto prima. Anche Marco non sembra esperto della zona e tra nebbia e cinghiali ci ritroviamo più volte a sbagliare strada.

Poi, finalmente il cartello che cercavamo da più di un’ora: Il Castello.

“Dove mi hai portato dal conte Dracula?”

Esce dalla macchina posteggiata sullo sterrato, si sgranchisce la schiena e fa uscire dalla bocca una nuvoletta di vapore densa.

“Hai portato qualche testa d’aglio?” se la ride mentre si avvicina ad un cespuglio per fare una generosa pisciata.

Alcune fiaccole illuminano il vialetto d’entrata. Si intravede la cinta muraria del castello che rimane sul cucuzzolo di una collinetta. Il posto è davvero strano e suggestivo, la musica che arriva è decisamente meno invitante di quella ascoltata in macchina.

Appena entrati il rosso ovatta i nostri pensieri, paghiamo il biglietto a una donna slavata e triste. I suoi occhi sembrano spenti.

Marco mi fa un cenno indicandomi la strada per un enorme salone, dove la confusione spegne le voci e accende la voglia di bere. Siamo già davanti al bancone per la nostra prima consumazione.

“Beh? Cosa ne pensi? Non è una figata di posto?”

Bisogna urlarsi nelle orecchie per riuscire a sentirsi, la gente intorno fa lo stesso; molti ballano nelle maniere più strane.

“Bello, ma chi te lo ha consigliato?”

“Frank!”

“Chi?”

“Frankestein!” balla e se la ride mentre lo guardo e scuoto la testa.

Ho preso il mio bicchiere e girandomi mi ritrovo faccia a faccia con una ragazza dai tratti orientali. Ci scontriamo appena, ma quel tanto che basta per farmi percepire il suo profumo e rovesciarci addosso l’intruglio liquido.

“Scusa!” le dico.

Lei non mi risponde ma mi sorride, forse è straniera. A guardarla meglio non è neppure orientale, ma il vestitino  e i capelli lisci e corvini con frangetta mi hanno tratto in inganno.

“Gran gnocca! Provaci no?” mi appoggia una mano sulla spalla e con l’altra alza il bicchiere per fare un brindisi.

“Cin…alle belle gnocche!” ce la ridiamo, in fondo siamo qui per divertirci e non pensare.

La luce si spegne e tutto si fa buio. La musica s’interrompe bruscamente. Si sentono tante voci aggrovigliate l’una all’altra, come serpenti in un pozzo.

Qualche led rosso, un accendino, un telefono illumina i volti di alcuni collegati a facebook, nient’altro.

Intravedo una luce fioca che porta a uno scalone che prima non avevo notato. La musica riprende e le luci tornano, tutto sembra di nuovo fagocitato dal rumore e dalle stroboscopiche.

Faccio in tempo a vedere la ragazza “non orientale” salire le scale e guardarsi indietro. Mi vede e sorride. Che faccio?

Marco è sparito, mi guardo intorno ma non riesco a vederlo. Dove cazzo è andato?

Lo cerco dal bancone, osservo al di là della calca di gente che mi mura la visuale. Impreco in gola.

Mi ritrovo ai piedi della scalinata, c’è una catenella di delimitazione, nessun buttafuori nei paraggi però,  quindi scavalco e salgo.

Ogni scalino che faccio mi chiedo tra me e me se continuare o se invece tornare indietro. Continuo.

Arrivo in cima. Tappeto rosso, armature a fare da guardia ad antichi muri spessi e freddi. Il corridoio è appena illuminato e, sia a destra che a sinistra,  ci sono a intervalli regolari delle porte chiuse, tranne una.

“Marco…sei qui?” Mi accorgo che ho il battito accellerato e la voce incerta. Il bicchiere semi vuoto è sempre nella mia mano destra. Lo svuoto in un sorso e lo appoggio per terra,  prima di spingere appena la porta che lascia intravedere una luce blu.

Infilo la testa, non si vede granché, ma lei la vedo eccome: è sdraiata su un fianco sopra al  letto e mi sorride ancora.

“Oh scusa, non volevo rompere, cercavo il mio amico…”

“Vieni, ti aspettavo”.

Butto un’occhiata indietro come un perfetto cretino farebbe non credendo alle proprie orecchie.

“Chiudi la porta” la “non orientale” insiste.

Mi ha stregato, reagisco come un automa e, chiudendo la porta, la sento muoversi facendo cigolare il letto.

Si è tolta il vestitino rosso e nero con disegni made in China. E’ nuda, meravigliosa, bianca e sempre sorridente, con un rossetto marcato sulle labbra, che mette ancor più in risalto il suo pallore e la sua bellezza.

Mi avvicino e sento ancora più forte il mio cuore e il suo profumo. Mi siedo sul letto e sono suo, le mie dita fredde sulla sua pelle, le sue labbra sembrano affamate, mi lascio andare e mi tuffo in quel mare,  divenuto prima mosso e poi in burrasca.

Ho perso i sensi, forse. Sono sul letto, nudo e infreddolito. Chissà quanto tempo sono stato lì. Lei non c’è  più e mentre mi rivesto intravedo dalle ante chiuse della finestra un riverbero, dev’essere l’alba.

In giro non c’è più nessuno, ma da fuori sento delle voci e trovo Marco seduto su un gradino muschioso nel giardino davanti all’entrata del castello.

“Ma dove ti eri cacciato?”esclamo vedendolo.

Mi guarda come se fosse appena atterrato su questo pianeta. E’ spettinato, camicia  fuori dai pantaloni e aria stanca.

Osservo lui e vedo me, stravolto, stropicciato e un po’ brillo, pur avendo bevuto una sola consumazione.

“Mi sono perso e poi non ricordo. E tu?” schicca via una sigaretta dopo averla fumata sino al filtro, aspettandosi  una risposta qualunque.

“Ho fatto un sogno, credo…dove sono tutti e che ore sono?”

“Vieni, seguimi”.

Ci muoviamo verso l’uscita. Passiamo sopra un ponte di legno e ci ritroviamo  fuori dalle cinta del castello, che intorno ha un largo fossato con acqua putrida, lattine e bottiglie; forse abitato solo

da qualche rana ubriaca.

Non ho ancora capito cosa sia davvero successo questa notte. So che dopo aver fatto il giro del fossato ci siamo fermati ad osservare una cinquantina di persone sconvolte, ognuna intenta in un’attività diversa. Alcuni si rincorrevano ridendo, altri  sdraiati, svenuti o dormienti sul prato verde,  risaltavano per la loro pelle bianca. Gruppetti in piedi si reggevano su gambe instabili.

Occhi spenti come quelli della cassiera, occhi spenti, come i nostri.

“Andiamo a casa. Ce la fai a guidare?”

“Sì, direi di sì. Al primo bar ci prendiamo qualche caffè e una brioche”.

Il piazzale è quasi deserto e la macchina rossa di Marco sembra stonare in tutto questo vuoto.

Mi giro e la vedo mentre sale in macchina. Il vestito rosso e nero, la frangetta, il rossetto, capelli in ordine, pare pronta per un’altra serata. Alza il viso prima di entrare in macchina e mi sorride da lontano. Alzo la mano aperta e la riabbasso.

“Andiamo?” Marco pregusta già la colazione, ha ripreso colorito e probabilmente anch’io.

Mi siedo e mi guardo nello specchietto.

“Che abbiamo preso? Mi hai messo qualcosa nel bicchiere?”

Mi guarda come un marziano che tenta di tradurre la mia lingua, poi gira la chiave e mette in moto.

“Non dire cazzate!”

La “non orientale” non c’è più nel piazzale, si vede che la sua macchina è già partita. Giro la testa a destra e a sinistra, poi Marco accende la musica a un volume stranamente normale.

“Sogni di rock’n’roll” esce dalle casse lentamente,  riempiendo l’auto e le nostre menti.

Finestrini socchiusi e forse si è trattato solo di un sogno o di tanti sogni tutti assieme.

Ha ragione Ligabue, sognando al meglio, guai a chi ci sveglia.


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