“Storia di un vecchio” di Laura Veroni


Eccolo il garage del gommista! ​
Il cielo è bianco, compatto, senza una nuvola, foriero di un’imminente nevicata: meglio essere previdenti e montare le gomme da neve. ​Anna accosta e sale con le ruote sul marciapiede. Lancia una rapida occhiata all’interno del garage: c’è solo una persona. Suppone che non dovrà attendere molto per essere servita. ​
Prima di aprire la portiera e scendere, volge lo sguardo allo specchietto retrovisore: una vecchia auto rossa, una Skoda, rallenta dietro di lei. La guida un uomo anziano, dal volto paffuto e rubicondo, la fronte ampia e stempiata. La guarda, si affianca e la supera senza distogliere lo sguardo. L’uomo ha un’espressione mista di sfida e disapprovazione. Sta sicuramente pensando: “Eccola, la solita donna che posteggia sul marciapiede e intralcia il traffico!”. Del resto, non c’era altro posto dove fermarsi! ​
Il vecchio rallenta e sale a sua volta sul marciapiede. ​
Anna scende e si dirige all’interno del garage. ​
Il garagista, un uomo pelato sulla quarantina dalla pelle del viso tutta butterata, ma un sorriso affabile e conquistatore, due occhi azzurrissimi e schietti, le si avvicina e domanda di che cosa abbia bisogno. ​
<<Devo montare le gomme antineve>>. Comunica la giovane donna. <<Può farlo subito o devo lasciarle la macchina?>>. ​
Il garagista le risponde che deve finire prima un lavoro e che dovrà aspettare un po’. ​
Aspetterà. ​
Anna si volta verso l’uscita e nota l’uomo della Skoda che sta entrando nel garage: la sua camminata è ciondolante come quella di un ubriaco e si regge a fatica sulle gambe. ​
Il garagista lo saluta calorosamente. Dal tono confidenziale, Anna deduce che i due devono conoscersi da tempo. Anche il vecchio deve montare le gomme da neve.
La giovane donna e l’uomo anziano aspettano distanti l’uno dall’altra, quasi una distanza di sicurezza, messa in atto da due estranei diffidenti e rivali: a chi tocca per primo? Sono arrivati praticamente insieme! ​
Man mano che i minuti passano, la distanza si accorcia sempre più, finché Anna si ritrova il vecchio vicino. Il vecchio… Anna formula nella mente quel nome con rispettosa consapevolezza di quello che rappresenta ai suoi occhi. Deve avere all’incirca settantacinque/ottant’anni. La sua postura non è statica: anche da fermo continua a ciondolare. Si è trascinato a fatica fino a lei, in cerca di un contatto umano. La guarda. I suoi occhi sono cerulei e annacquati, annacquati di tristezza e di vecchiaia e, forse, di stanchezza. Già, sembra proprio stanco. Dovesse dire di che cosa, Anna non sbaglierebbe dicendo di vivere. Ed ecco che le sue labbra, anch’esse molto mobili (continua a ritrarre il labbro inferiore, lo fa sparire nella bocca, lo morde tra i denti e lo inumidisce con la lingua, con rapidi movimenti), si schiudono in un suono articolato e pronuncia le prime parole di quello che sarà un lungo discorso. ​
Mentre parla, sembra masticare tabacco. ​
“Strano”, pensa Anna, “non attacca col solito discorso del tempo”. ​
Il vecchio inizia, invece, a vomitare il bollettino medico sul proprio stato di salute. ​
<<Ho la flebite>>, dice, forse per giustificare la propria andatura. <<Sembro ubriaco, ma non è così>>. ​
E’ come se le avesse letto nel pensiero. ​
L’estate scorsa è stato operato alla gola e la flebite gli è venuta di conseguenza: sta prendendo un sacco di farmaci. Ha avuto un ictus, cinque anni fa: era sul Gottardo insieme alla moglie, stava guidando e, per poco, non finivano fuori strada. E’ stato operato al cervello. Un anno prima ha subito un intervento al cuore. Le racconta dei suoi tre figli che vivono in Francia e dei nipoti che hanno tutti tra i venti e i venticinque anni: non li vede mai. Gli hanno telefonato la scorsa estate, l’ultima volta. Ha cacciato di casa la moglie, perché, quando lui andava al lavoro, anche di sera, lei usciva a divertirsi. Così dice: <<Faceva troppo la furba>>. Adesso vive solo, in una vecchia casa ristrutturata, nei boschi della Valcuvia: l’aveva sistemata per viverci con la lei e con i figli -<<Ingrati!>>, dice-, prima che lo abbandonassero. Fa freddo, in questi giorni, e la casa non ha riscaldamento. Il vecchio ha sempre utilizzato la legna del bosco da bruciare nella stufa, ma quest’anno, malconcio com’è, non ce la fa ad andare a tagliarla ed è costretto a starsene al freddo. Beve un grappino ogni tanto e un buon bicchiere di vino a pasto. <<Ma non creda che mi ubriachi, anche se tanti, nelle mie condizioni, lo farebbero>>, dice. Gli serve per scaldarsi. <<Io sto bene da solo>>, continua a ripetere. Ma i suoi occhi annacquati tradiscono un’infinita tristezza. ​
<<Pensi>>, continua, <<ho lavorato tutta una vita, mica come si lavora adesso. Ho lavorato anche dodici ore al giorno, a volte quindici. E per che cosa? Ho messo da parte dei soldi e me li hanno mangiati fuori tutti i miei figli e quella furba di mia moglie. Per non parlare dei nipoti! Quelli venivano dal nonno solo a batter cassa, finché ce n’era. E a cosa mi è servito lavorare così tanto? Che cosa mi resta adesso? Nessuno mi cerca più. Non sanno nemmeno che esisto. Ma io sto bene da solo>>. ​
Che tristezza! ​
<<Mi dica Lei>>, prosegue, <<che senso ha vivere? Che vita è la nostra? Me lo dica!>>. Adesso anche gli occhi di Anna sono annacquati. Prova una gran pena per il vecchio e la prova anche per se stessa, per quella che potrà essere un giorno. La prova per tutti i vecchi del mondo, perché tutti i vecchi del mondo sono così: ciondolanti di cuore, con gli occhi annacquati dalla vita, col labbro che scompare triste dentro la bocca, col cuore gonfio d’angoscia e la mente fatta solo di ricordi, senza speranza, senza futuro, solamente in cerca di un contatto umano che ancora gli faccia sentire che sono, esistono, vivono ancora. Nonostante tutto. Ancora.


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