"Terzo incomodo" di Nicoletta Retteghieri (Draky Rett)


 

Paese duro, paese solitario. Paese angosciante. Paese perfetto.
Attraversavo la piazza quasi deserta. La piazza che sarebbe dovuta essere il cuore palpitante del paese. Che ne sembrava invece la tomba.
Il bar era sempre là. Senza insegna, arredamento formica-plastica-metallo. Anni Sessanta mai tramontati. In quell’angolo solo stirati, trascinati, spiaccicati, incollati là come un manifesto sbiadito e semi-accartocciato dimenticato da secoli sul muro di una fabbrica dismessa.
Ma io volevo entrare in quel bar.
Avevo passato giorni, nel pomeriggio, a guardarlo. Appostato dall’altra parte della piazza, seduto su una panchina utile solo per i vecchi vicino al capolinea. Mi prendevano per un mezzo barbone, nel migliore dei casi per uno squinternato. Ma non m’importava. Parlavo poco, volevo solo guardare aspettando il momento.
Naturalmente guardare lei.
Lei, che mi aveva strappato i pensieri solo con cenni del capo platinato. Cenni che faceva ai clienti. Non percepivo le parole, ma chi se ne frega.
Vedevo la bocca ben disegnata, coperta da un rossetto lucido e dal rosso urlante.
So che descrivendola così potrebbe dare l’idea che fosse una donna volgare. Ma aveva un che di delicato, non chiedetemi cosa. Forse l’ondeggiare gentile delle sue mani. Sembravano disegnare danze impossibili da dietro al bancone.
Non conoscevo il suo nome, non sapevo nulla di lei. Ma non l’avevo mai vista dare particolare confidenza a nessun uomo. Quindi doveva essere sola. Per forza doveva.
Avrei voluto seguirla quando chiudeva il bar, vedere dove abitava. Ma non potevo. Dovevo rientrare.
Mi aspettava la casa circondariale poco distante, dove dovevo finire di scontare la mia pena. Una brutta, vecchia storia. Una coltellata di troppo in risposta a qualche parola di troppo.
Ma non mancava molto. Il momento era vicino. Non sapevo niente di lei, ma sapevo che in quel momento lei mi avrebbe seguito. Sarebbe stata mia.

Ieri finalmente le porte si sono aperte, il debito è stato saldato.
Indossavo il vestito meno squallido ed un dopobarba scadente, ne ero consapevole. Ma questo non avrebbe fermato la storia fra noi due.
Erano le otto di sera, il paese era più morto che mai.
Quando entrai nel bar, c’erano solo tre vecchi seduti ad un tavolino. Maneggiavano le solite carte unte da bar. Intorno a loro un vago lezzo di pelle non lavata, di radi e sporchi capelli forforosi. Una radio trasmetteva notizie sul traffico stradale.
Lei mi sorrise piano, in attesa della mia richiesta.
Scioccamente, rimasi interdetto, perché a forza di desiderarla non avevo pensato che forse era meglio prendere qualcosa, prima di arrivare al punto. E io non sapevo cosa.
Lei sembrò capire il mio imbarazzo e suggerì:
“Vuole un bianco amaro? Lo facciamo bene, qui.”
Annuii, pensando che il bianco amaro era qualcosa di seppellito nei miei ricordi e che solo in quel momento era riaffiorato. Non ne ricordavo il sapore. La ragazza cominciò a prepararlo e, guardandola, capii che non avrei saputo darle un’età. Poteva avere venticinque anni portati male o quarantacinque portati bene. Decisi per trentacinque, tanto per non sbagliarmi.
Nonostante tutte le ipotesi e prove mentali che avevo fatto per cominciare un discorso, venni fuori con una frase che non so perché pronunciai. Sembrava presa dal repertorio di un poeta vecchio e malato.
“Come può esistere l’amore in un posto come questo?”
Eppure lei non mi guardò come se fossi uno strano, né sembrò sorpresa, anche se ero sicuro che nessuno l’avesse mai apostrofata come avevo fatto io. Sorrise più di prima e vidi che tra i denti incisivi aveva una leggera fessura.
“L’amore non ha posti particolari, il suo posto è sempre dentro, per questo lo puoi trovare dovunque”.
Mi colpì, più che la risposta stessa, il fatto che mi avesse dato del tu. E seppi che da quel momento avrei potuto chiederle ogni cosa. Ogni cosa. C’era un qualcosa di impossibile e di grande tra noi. Ma non chiedetemi perché.
Dopo mezz’ora a parlare eravamo virtualmente una cosa sola. I vecchi se n’erano andati, indifferenti ai nostri riti di reciproco corteggiamento. Io e lei eravamo d’accordo di andare da lei alle nove, quando avrebbe chiuso il locale. Uscii non per un motivo preciso, per mezz’ora appena avrei anche potuto aspettare lì con lei che chiudesse. No, lo feci solo per provare più emozione.
E infatti mi sentii mancare il cuore quando, seduto sulla panchina di fronte, la vidi chiudere le luci, la porta e tirare giù la serranda. Rimasi impietrito sulla panchina. Lei mi venne incontro con una vaporosa gonna a fiori a completare la camicetta bianca traforata stile cassetto della nonna. Aveva un paio di ballerine rosse ai piccoli piedi.
Mi prese per mano e mi condusse a piedi poco distante, fino a una casetta con giardino che aveva un che di triste, come lei.
Entrammo. Mi sentii nudo prima del tempo per essermi presentato senza fiori, senza vino e senza cioccolatini. Ma le avevo raccontato di me, di chi ero o meglio, di chi ero stato. Non avevo molti mezzi, era ovvio. Ma lei aveva capito e sorriso di nuovo. Questa era un’altra cosa che mi era piaciuta. E che mi aveva convinto ancora di più di quello che c’era fra noi.
Il vino lo prese lei e lo versò in due gotti di vetraccio, facendomi accomodare su un divano floreale stinto. Anche in quella casa il tempo sembrava essersi fermato.
Lei si sedette accanto a me. Non disse nulla, ma mi offrì la bocca morbida. Io risposi al bacio, scoprendo con piacere di non essermi dimenticato come si faceva a baciare. Ma al tempo stesso mi stavo chiedendo se avrei anche ricordato come si faceva l’amore. No, non era questo che mi preoccupava, in realtà. Era la paura di avere troppa foga. Quella di uno che non ha una donna da tempo. Anche se di giorno mi era consentito uscire dal carcere, non avevo più fatto l’amore con nessuna. Avete capito bene, ho detto “fatto l’amore”, e non “scopato”. Perché volevo amare di nuovo una donna, non semplicemente possederla. Sarò all’antica anch’io. Adatto a quel bar e a quella casa.
Capivo che lei voleva che la toccassi e le mie mani si persero a sfiorare delicatamente i capezzoli che sembravano più duri dei bottoni di madreperla della camicetta. Lei mi interruppe solo per togliersi la camicia e il reggiseno in pizzo sintetico. Aveva i capezzoli chiari e ben delineati su due seni ancora sodi. Abbassai mentalmente l’età a trent’anni. I. L’amavo, oh se l’amavo, e la volevo. L’erezione stava diventando dolorosa e, dopo essermi tolto la camicia, feci scivolare le mani sull’elastico della gonna.
Ma lei mi trattenne.
Non era possibile. Ero sicuro che volesse anche lei andare fino in fondo, cosa stava succedendo? Mi accorsi che piangeva, trattenendo le mani sulla gonnellona sparsa attorno a lei. Mi implorò dicendo che non poteva farlo. Le chiesi il perché, ma non voleva dirmelo. Disse che non poteva dirmelo. Ma la donna che amavo non poteva avere segreti per me, anche se terribili. L’avrei amata in qualunque caso, ne ero sicura. E per questo le scostai a forza le mani e le tirai giù la gonna.

Qualcuno verrà pure a prendermi, prima o poi. Ma, qualunque cosa si dica di me, io so che quel che ho fatto, l’ho fatto per amore. Nient’altro che per amore. Lei non poteva vivere così, e sono sicuro che il suo sguardo mi diceva di insistere, mentre le tenevo stretta la gola tra le mani. Se mi chiederanno cosa ricordo, dirò tutto. Dirò che il corpo sussultava come per un orgasmo impazzito. Dirò anche che c’era quel paio di piccole gambe che le uscivano dalla pancia e che si scuotevano insieme col resto. Le gambe del gemello mai nato, che nessuno aveva mai potuto asportare. Che sembravano avere una vita propria.
Perché l’ho fatto? Che domande, non mi piace farlo in tre.


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