“The big frecc” di Paola Varalli


 

Quella sera c’era in ballo la faccenda del cinema.
Nicolino mi aveva telefonato al lavoro nel pomeriggio: “E’ una sorpresa”- aveva detto- stasera andiamo a vedere un film che ti piacerà un sacco, ci troviamo alle dieci sotto casa mia, a dopo, bacio, ciao”
Nevicava da quattro giorni. Milano non era più Milano. Era una città in panne. Le strade soffici, gli autobus fermi, i cornicioni pieni di neve che cadevano sui marciapiedi: tutto sembrava irreale, come se avessero immerso un ingranaggio industriale in un enorme mastello di ovatta. Questo dopo averlo pucciato nello zucchero filato.
Era l’inverno dell’ottantacinque, io avevo una Mini Cooper verde pisello e la leggerezza dei trent’anni. E quella sera c’era in ballo questa cosa del cinema.
Con tutta quella neve, ci voleva almeno un’ora per arrivare in centro.
Alle nove in punto uscii di casa con giacca a vento, berretto di lana e guanti. La Mini verde pisello, nascosta sotto venti centimetri di neve, indossava già le catene da un paio di giorni, senza le quali non si riusciva a circolare. Nevicava forte, fiocchi spessi e farinosi. Piazza Gerusalemme era deserta e magnifica. Montai veloce, tirai giù il cappuccio pieno di neve, girai la chiave e avviai il motore, dietro apparve un gran fumo bianco.
Schiacciai la levetta del tergicristallo.
Funzionava. Buon segno, poiché è una cosa che, su una vecchia Mini, non va sempre data per scontata.
Acceleravo a colpetti, per riscaldare tutto per bene, quando un paio di ombre, materializzatesi dal nulla, si avvicinarono all’auto e una mano aprì la portiera dalla mia parte.
Questi sono i momenti in cui ti dici: “Ma che pirla! Col buio mi chiudo sempre dentro, perché stasera no?”
Perché la frettolosa Milano, capoluogo del frettoloso Nord, con la neve, diventa più buona e riscopre il suo lato umano: la gente scende a spingere gli autobus bloccati sui cavalcavia e tutti danno passaggi a tutti, e questo stava avvenendo più o meno ogni giorno da quando era cominciato tutto quel casino che aveva fatto fermare mezza città.
Ecco, appunto, un passaggio!
La voce che lo chiedeva non mi piaceva e, quando alzai lo sguardo, la faccia mi piacque ancora meno.
Naso grosso in mezzo ad occhi maligni: Un balordo.  Aveva la classica faccia da delinquente o forse da mafioso, ma con una vena di stupidità.
Lo so, non bisogna farsi ingannare dalle apparenze, ma il mio istinto ha sempre funzionato bene, e stavolta mi suggeriva pericolo.
Il tipo, con la mano sulla maniglia della mia portiera, rabbrividiva in un cappottino striminzito e tirava su col naso: “Dai, dacci un passaggio, siamo rimasti a piedi e non sappiamo come andare a Bresso”
Io inghiottii saliva.
“Bresso? Scusate, ma sto andando in centro! Vi giuro, ho dato passaggi a mezza Milano oggi (era vero) ma ho un appuntamento e rischio di arrivare in ritardo. Chiedete a qualcun altro (sguardo rapido in giro: steppa siberiana desertica) io proprio non posso.”
Sorrisino forzato.
Non li avevo convinti per nulla.
Il tipo col nasone fece un cenno con la testa al suo compare, un ragazzo sulla ventina, con i capelli a spazzola e un sacchetto giallo del supermercato nella mano sinistra.
Il giovane trafficò un attimo nel sacchetto. Ne estrasse una pistola tipo far west, una di quelle a tamburo e me la puntò dritta addosso.
“Adesso ce lo dai il passaggio, stronzetta?”

                                               
Nicolino Cappellini  faceva il musicista.
Studiava al conservatorio e dava lezioni di piano. Occupazione che non gli fruttava abbastanza per farlo andare a vivere per conto suo.
Così viveva ancora con i suoi, che abitavano in una grande casa, in centro.
Quella sera, verso le nove, Nicolino Cappellini si trovava nella sua stanza, dove un dodicenne benvestito titillava i tasti del pianoforte con scarsa abilità e poca voglia. Il “maestro” ascoltava guardando fuori, dalla finestra.
Ogni tanto correggeva: “ No guarda, Piersilvio, quello è un si bemolle.”
La neve scendeva copiosa e formava un disegno luminoso intorno al lampione. Ogni fiocco volteggiava nella luce, poi toccava terra, lì si univa agli altri, nel mantello luccicante, e poneva fine, di colpo, alla sua individualità.
 I suoni nella stanza, invece, non brillavano per niente, anzi erano privi di calore, di anima, non si libravano fluttuando nell’aria, ma cadevano al suolo con un tonfo sordo:
“Questo ragazzino è negato!”
Eppure era da un po’ che studiava pianoforte.
Nicolino Cappellini appoggiò la fronte al vetro freddo. Dilemma esistenziale: “Parlo con la madre e le dico di mandarlo a cavallo?” (così salvo l’umanità, ma perdo dei soldi).
“Continuo ad insistere fino ad ottenere un pianista mediocre e faccio di questo rampollo un eterno frustrato?” (guadagno, ma mi rattristo).
Bussarono alla porta.
“Nicolino? Avete finito? C’è la mamma di Piersilvio, è venuta a prenderlo”
La provvidenziale voce del genitore!
 “ Al dilemma penseremo poi, ora mi ficco sotto la doccia, che stasera si va al cinema!”
 

A volte la prima cosa che si fa, d’istinto, è davvero la più stupida. Vedendo una pistola puntata contro di me, reagii da idiota: “Ma dai, non fare il cretino!” E spostai la canna di lato con le mani guantate.
Il tipo avrebbe potuto sparare, ma non lo fece.
Io avrei potuto accorgermi che la rivoltella era di plastica, o forse che era vera, ma avevo i guanti.
I due balordi salirono in macchina, Nasone mi spintonò sul sedile del passeggero e si mise al posto di guida, Capelli-a-Spazzola si sistemò dietro, tenendo la pistola bene in vista e puntata contro la mia testa ricciolina.
Ecco, adesso erano proprio tutti cazzi miei.
Nasone girò a destra in Via Lomazzo e poi a sinistra in via Paolo Sarpi. Guidava come un matto, nonostante la neve e le catene. Io stavo sul sedile del passeggero e cercavo di pensare a cosa fare:
-Salto giù al primo incrocio (brava, così magari ti fai male seriamente e questi due si fottono pure la macchina).
-Non scendo e provo a parlarci (sì, e se oltre al passaggio si prendono anche qualche altra libertà?).
“Non preoccuparti, che non siamo i tipi che violentano le donne, – fece Nasone- anzi, dacci il tuo indirizzo che domani ti mandiamo diecimila lire per la benzina. (Ma leggeva nel pensiero?)
“Sai, siamo appena usciti da San Vittore e abbiamo fatto un colpo, non sapevamo come tornare a casa”.
Il fatto che non fossi stata rapita da due violentatori, ma “solo”da una coppia di rapinatori, sfigati e non automuniti, non sto a dire quanto mi tranquillizzò.
Intanto continuava a nevicare.
I fiocchi scendevano copiosi su strade, marciapiedi, aiuole e semafori. Nevicava su piazza Baiamonti, nevicava sul ponte di via Farini, nevicava su via Ugo Bassi.
Nasone seguitava a guidare come un forsennato, sbandava pericolosamente, rasentando le auto ferme a lato dei marciapiedi. Ad un certo punto sperai addirittura che avesse un incidente: così, magari ci saremmo dovuti fermare. Questo prima di trovarci in estrema periferia…
Decisi d’istinto di buttarla sul ridere:
“Ragazzi, ma proprio me dovevate dirottare? Adesso il mio fidanzato si starà chiedendo perché non arrivo. E comincerà a preoccuparsi. E telefonerà a mezza Milano. Ma poi… io cosa vi ho fatto? Perché proprio io? E… ddai… io dico che è di plastica… quella pistola lì!”
“No, no carina, è una rivoltella vera e ne abbiamo altre, vuoi vederle?” fece Nasone con voce strascicata e, rivolto a Capelli-a-Spazzola, senza aspettare risposta: “Tienila sotto tiro, ce l’hai il colpo in canna?”
Colpo in canna? Fu qui che mi si accese una lampadina.
Nicolino Cappellini (il fidanzato preoccupato) canterellava sotto la doccia “ Alle Menchen werden Brud…” <
Rumore di sapone che cade.
Smise di cantare. Chinandosi a raccogliere la saponetta si guardò la cicatrice che aveva sullo stinco, e sorrise. Si ricordò del volo che avevano fatto, quando
lei aveva voluto guidare la sua moto. Era contento di vederla.
 Gettò un’occhiata all’orologio appeso vicino allo specchio, proprio a lato del lavabo: “Merda! Le nove e mezzo! E tardi!”
Allungò  un braccio fuori dalla tenda, prese l’accappatoio e andò diretto in cucina, a trafficare nel frigorifero.
                                         

 Va detto che io di armi capisco poco, uno perchè non le ho mai amate e due perché sono pacifista. Però mio padre faceva il tiro a segno al poligono e andava anche a caccia, quindi, qualcosa da lui dovevo pure aver imparato. Così decisi che uno che parla di colpo in canna, riferendosi ad una rivoltella a tamburo, deve capirne poco, di pistole.
Due balordi della mutua, ecco chi erano, i miei rapitori.
Intanto le luci della città si facevano via via più rade, passammo l’ospedale di Niguarda e la Mini continuò la corsa verso la periferia. Io sempre più rigida, rivettata al sedile,
Nasone guidava in modo più tranquillo, sembrava, ora, meno teso. Forse era l’avvicinamento alla loro meta, forse andavano davvero a casa?
Chissenefrega. Non lo volevo sapere.
Fatto è che se ne uscì con: “Ehi, guarda che questa qui è brava, mi piace, non fa l’isterica, non grida, non rompe, domani le mandiamo i soldi del passaggio.”
“ Sì, sì… okkey”, fece quello dietro, mettendosi contemporaneamente in tasca il mio portafogli che trovò nella mia borsa, abbandonata sul mio sedile posteriore. Così, almeno, aveva i soldi da mandarmi. Domani.
Rimasi ferma, imbullonata al sedile, era finita.
Passaggio a Mano Armata si chiamava.
E adesso era finito.
Finito. Andati.
Avevo conservato fino a lì una freddezza che non mi conoscevo, ma quando scesero dalla Mini, crollò la tensione: lo stomaco incominciò a salire verso la gola con violenza, soffocavo dalla paura. Saliva esaurita. Vomito.
Mi sentivo di merda e presi, senza un motivo sensato, a frugare sotto ai sedili, per vedere se mi avevano lasciato una bomba sulla macchina!
Evidentemente non c’era nessuna bomba, ed io, lentamente, mi misi alla guida e mi diressi verso casa del Nicolino, verso il centro e verso la salvezza.
Arrivai in via Lanzone che era quasi mezzanotte. Lui stava là, vicino al portone con l’ombrello in mano, sotto tutta quella neve. Mi vide e mi investì: “ Ma dove cazzo sei stata? Lo sai che sono quasi due ore che ti aspetto? Sono mezzo congelato e il cinema, a quest’ora, è andato a farsi fottere.”
“Sono io che ho rischiato di andare a farmi fottere.”
“In che senso?”
Guardai la sua bella faccia preoccupata, poi mi persi a fissare un punto nel vuoto, oltre le sue scarpe bagnate, un attimo.
Lui mi osservava, non capiva. Gli strinsi un polso. “Andiamo su, se mi dai qualcosa da bere, ti racconto una storia”
Poi suo padre chiamò Polizia e Carabinieri.
Dopo verbali, stupore e grappini la casa tornò vuota. Ci ficcammo sotto il piumone del suo letto singolo e ce ne stemmo al caldo.
“Nicolino?”
“Dimmi”
“C’è una cosa che ti devo chiedere”
“Cosa?”
“Ma che film è che dovevamo andare a vedere?


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