"Ultimo tango al Bodega. Milano, 1984. Un'indagine del maggiore Gunther Sander" di Ippolito Edmondo Ferrario


Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati.
Bertold Brecht

 

Capitolo Primo
Milano, ottobre 1984

– Da quanto tempo è lì? – chiese il francese con un’espressione vagamente inorridita.
– Da ieri notte. Stamattina quando ho aperto era già qui – rispose il gigante congolese che ogni mattina alle 11 apriva il locale.
Non era la prima volta che trovava il suo principale in condizioni pietose.
Il biondo afferrò da uno dei tavolini un cestello del ghiaccio. Al suo interno c’era solo acqua. Tolse la bottiglia di Don Pérignon del 1969 vuota. La osservò compiaciuto. Quello era davvero un gran bel bere.
Quasi divertito versò l’acqua sulla faccia dell’uomo che giaceva a terra, rannicchiato sulla moquette color verde scuro in mezzo ai gusci delle arachidi. In mano teneva ancora la bottiglia di Pernod dalla sera precedente.
La doccia improvvisata ottenne l’effetto desiderato. Gunther si destò di soprassalto. Imprecò mentre cercava di ripararsi il viso.
Poco dopo si ritrovò a vomitare sul pavimento parte del Pernod misto al Gin ingurgitati ore prima.
Pur essendo un bevitore allenato, aveva esagerato. Era stata una di quelle notti in cui gli spettri del passato non gli avevano dato pace. Il solo modo che conosceva per eluderli era lo stato euforia e poi di totale annebbiamento indotto dall’alcol. Aveva atteso che se ne andassero tutti i clienti e il personale. Aveva salutato tutti ed era rimasto lì, solo, a bere.
L’idea di tornare a casa lo opprimeva. Aveva messo su un disco. Amava la musica Jazz, in particolare Artie Shaw, il “re” del clarinetto. Sulle note di Begin the Beguine aveva iniziato a naufragare per l’ennesima volta nei ricordi e a bere.
Quello stordimento totale era un’abitudine che si ripeteva con cadenza settimanale.
Il francese nel vedere l’amico di un tempo ridotto in quello stato pietoso provò un moto di compassione.
Non trovò parole di conforto. Quelle non sarebbero servite.
– Alzati, maggiore Sander! Sei indegno. Se tuo figlio ti vedesse proverebbe pena per te – lo provocò Albert senza rimorsi. Era il solo modo per farlo reagire.
Fece un cenno a Katanga. Il congolese lo aiutò a metterlo in piedi afferrandolo per un braccio.
Era come cercare di movimentare un cadavere in preda al rigor mortis.
Il biondo e il congolese non andarono troppo per il sottile. Lo misero a sedere in qualche modo su un divanetto.
Gunther ruggì per la rabbia. Le parole del francese lo avevano raggiunto dritto al cuore come una pugnalata. Cercò di allontanare i due con un gesto violento delle mani. Sembrava brancolare nel buio. Per poco non cadde in avanti. Non fece in tempo a dire una sola delle minacce di morte all’indirizzo di Albert che un rigurgito di vomito gli uscì dalla bocca. Le parole gli morirono in gola. Sboccò brutalmente insozzando il pavimento.
-Merde, merde! – ringhiò il francese accorgendosi che il vomito aveva sporcato le sue scarpe di coccodrillo. Il congolese più fortunato di lui non trattenne le risate. La situazione aveva un che di tragicomico.
A quel punto, perfettamente coordinati, Katanga e Albert abbrancarono Gunther e lo trascinarono come un sacco verso la toilette. Lui intuì le loro intenzioni mentre lo portavano via a peso morto. Tentò di opporsi, ma non ne aveva le forze. Le sue scarpe lasciarono solchi nella moquette verde scuro del locale. Non smetteva di vomitare.
-E’ pure ingrassato – constatò il francese mentre la voce gli si strozzava per lo sforzo.
Giunti nei bagni lo issarono fino al lavandino. Lì il francese si prese la vendetta per le scarpe. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e premette la testa di Gunther sotto il getto. Anche Katanga lo aiutò nel tenerlo fermo, certo che non ci fosse altro modo.
Le altre volte che il congolese aveva trovato Gunther ubriaco aspettava che rinvenisse da solo. In genere succedeva dopo alcune ore, nel primo pomeriggio. A quel punto Katanga aveva già ripulito tutto il locale e gli serviva un caffè lungo e nero. Gunther lo beveva sempre in silenzio mentre i postumi della sbornia lentamente si attenuavano. Poi mandava Katanga in farmacia a prendergli il digestivo Antonetto che Gunther considerava un elisir per ogni male. Ogni volta che lo prendeva gli veniva in mente Nicola Arigliano e i suoi sketch a Carosello che iniziavano con la frase: “Un vero uomo non discute: scommette”.
Dopo alcuni secondi di quella doccia forzata Gunther riuscì a liberarsi dalla morsa dei due “aguzzini”.
– Toglietemi le mani di dosso, pezzi di merda! Adesso vi ammazzo – sbraitò barcollando e portando la mano alla cintola dove teneva infilata una Colt 1911 in calibro 45.
Katanga si paralizzò per il terrore. Sapeva che Gunther in un eccesso d’ira come quello l’avrebbe usata. Il francese invece rimase impassibile. Scosse la testa in segno di disapprovazione, ma non si scompose. Aveva sangue freddo e conosceva il crucco meglio di chiunque altro. In Congo erano diventati fratelli di sangue.
Gunther afferrò l’arma. Fece per scarrellare e mettere il colpi in canna. La testa prese a girargli come una trottola. Nonostante le intenzioni omicide si ritrovò sul pavimento del bagno. Era in balia dei due uomini.
Il francese senza fatica gli sfilò di mano la 45 e se la infilò nel giaccone di pelle che indossava. Fece un cenno al nero invocando ancora il suo aiuto. Spinsero Gunther nuovamente con la testa sotto l’acqua fredda. Il trattamento fu più lungo del primo, nonostante le rimostranze del bestione e i suoi tentativi di sottrarsi.
Ci vollero diversi minuti, secondo il metro di giudizio del francese. Poi il trattamento fu sospeso. Albert allentò la presa e porse all’amico un pezzo di carta usa e getta per asciugarsi. Gunther lo prese stizzito e si asciugò la testa e la faccia.
Albert fece segno a Katanga di seguirlo fuori dal bagno. Lasciarono che Gunther si desse una sistemata.
Il francese si accomodò al bancone di legno scuro su uno degli sgabelli.
-Vuoi un caffè – gli domandò Katanga.
– No, il caffè ce lo andiamo a prendere qui fuori. Quest’aria viziata comincia a darmi il voltastomaco – rispose Albert, che sentiva il bisogno di uscire dal locale e di rivedere la luce del sole o quasi. Era una giornata di nebbia, e una cappa bianca e spessa era calata su Milano con una consistenza quasi palpabile.
Il francese si rammaricò di aver abbandonato la Costa Azzurra con i suoi venti gradi costanti, il clima mite e le tiepide giornate di sole.
Dopo una decina di minuti Gunther fece la sua comparsa.
Si avvicinò ad Albert. Lui gli restituì la pistola. Il crucco senza dire una parola la ripose nella sua fondina.
Il francese, ora che l’amico sembrava essersi ripreso, si avviò verso l’uscita.
Gunther biascicò un vaffanculo. Poi, volente o nolente, fu costretto a indossare il suo cappotto di montone shearling con l’interno in pelo bianco e a trascinarsi dietro ad Albert. Risalirono la stretta scala che dal cortile del palazzo permetteva di accedere al locale che era due piani sotto rispetto alla strada. Uscirono dal portone e si ritrovarono in via Amedei.
– Avete un clima di merda qui a Milano – commentò Albert fiutando la nebbia come un segugio e inorridendo per quella cappa umida che sembrava entrarti nelle ossa.
– E allora te ne dovevi stare in Francia – mormorò Gunther seguendolo infastidito lungo lo stretto marciapiede. Raggiunsero piazza Sant’Alessandro e si rifugiarono in un vecchio bar, il Cantuccio, che a quell’ora era invaso dall’odore dei caffè e delle brioche. Si sedettero ad un tavolo nella sala interna, non prima di aver ordinato due doppi. Albert allungò il caffè dell’amico con dell’acqua bollente.
Questa sbobba ti rimetterà in piedi. Sembra il caffè che ci preparava Aldo Prina a Bukavu – disse il francese ricordando l’addetto alla mensa e ai viveri del Gruppo Parà Cobra. Aldo era un mulatto che morì in modo orribile, massacrato a Léopoldville durante la cosiddetta rivolta dei mercenari.
Era l’8 luglio del 1967. Quando avvenne lui e Gunther erano già rientrati in Europa.

***

Franco, il barista del Cantuccio, che conosceva le abitudini di Gunther si mostrò quasi perplesso nel non versargli il solito Whisky. Allo stesso tempo ne fu contento. Non amava vedere i propri clienti annegare i loro problemi nel bicchiere, specie se di primo mattino.
– Come cazzo hai fatto a ridurti così? Sembri un maiale. E puzzi pure come un maiale…- osservò Albert ghignando.
-Se sei venuto a farmi la morale puoi tornare da quel buco di culo di città dove abiti. Anzi, scommetto che ti sei fatto vivo perché sei nella merda – biascicò Gunther specchiandosi nella tazza nera e fumante. Si stropicciò gli occhi verdi e tristi.
– Devo starmene per un po’ a Milano finché non si calmano le acque.
– E non sapendo dove andare sei venuto da me. Così nella merda trascini pure me. Io sono pulito adesso – ironizzò Gunther riacquistando lentamente la sua lucidità.
– Stai tranquillo che non avrai problemi. Due o tre settimane e me ne torno a Nizza – lo tranquillizzò Albert.
-Che cosa hai rapinato?
– Una banca. Un lavoro pulito, ho fatto tutto da solo. Ma è meglio che me ne stia alla larga dalla Francia per un po’.
Gunther sorrise, ma non disse nulla.
Albert era rimasto lo stesso di sempre. Per lui il tempo non sembrava essere passato, e non solo per l’aspetto fisico. Magro, naso aquilino, profilo tipicamente francese, alto e ossuto, Albert ingannava il prossimo. Non gli avresti dato una cicca a vederlo. In realtà era pazzo come un cavallo, un vero temerario. In Congo per un periodo aveva fatto da guardaspalle allo stesso Bob Denard, il loro comandante.
Tra i ricordi di Gunther riaffiorò l’immagine di Albert dritto sulla jeep mentre puntava la mitragliatrice montata sul cassone posteriore, il mezzo lanciato a tutta velocità sulla pista verso i ribelli che dalla “brousse” sparavano sul mezzo. Albert stava dritto e sparava con freddezza, senza mostrare paura, mentre le pallottole gli fischiavano intorno.
– Che c’è bestione? Vorresti tornare nel giro, ma non hai il coraggio per farlo? Eppure eri bravo….- lo provocò Albert.
Gunther tornò al presente.
– Non voglio fare quella vita del cazzo che tu continui a fare. Sai che prima o poi finirai male – disse il tedesco.
– E’ vero, mon ami. Ma non mi pare che tu te la stia passando meglio di me. Magari le apparenze ingannano. Io credo tu abbia visto tempi migliori – disse Albert tirando fuori dal giaccone un pacchetto di sigarette. Ne offrì una a Gunther che la prese.
– Sì. Ma quei tempi non torneranno. E andare a ripulire una banca non mi farà stare meglio – tagliò corto infastidito.
– Non marceremo più come eravamo avvezzi, la nostra folle schiera non esiste più. Ricordi? – disse Gunther citando la celebre frase tratta dal libro “I proscritti” di Ernst Von Salomon.
Poi si concentrò sul caffè fumante e lo sorseggiò amaro.
Per un po’ i due uomini rimasero in silenzio a scrutarsi, ognuno asserragliato nei propri pensieri. Albert ripensava al Congo, al periodo della fratellanza d’armi, della condivisione di un mondo che non sarebbe più tornato, del sogno dello stato libero del Katanga.
La frase che Gunther amava citare racchiudeva tutta la malinconia e la nostalgia per ciò che era stato e non sarebbe più tornato. Ma dietro a quel pessimismo esistenziale si nascondeva altro. Albert lo sapeva, visto che poco prima aveva infierito a parole in una ferita che l’amico non era stato in grado di guarire.
Gunther pensava solo a Florian, al suo petit Florian e a quel maledetto giorno che aveva cambiato per sempre la sua vita.
– Quindi devo tornarmene in Francia o mi dai ospitalità? – gli domandò il francese cercando di distogliere Gunther dalla tristezza che gli affiorava in viso.
-Avrei voglia di ammazzarti. E non è detto che non lo faccia…- ringhiò il tedesco alzando gli occhi dalla tazza. I suoi occhi brillavano. Ricacciò giù il nodo alla gola che gli impediva di parlare.
-Quindi?- lo incalzò Albert.
– Due settimane al massimo e poi te ne torni da dove sei venuto. Ma non piantarmi casini.
– Ti sono in debito – disse Albert sincero aprendosi in un largo sorriso.
Era certo che Gunther non gli avrebbe rifiutato il suo aiuto. Non lo aveva mai fatto in anni.
– Sì, ma risparmiami la sceneggiata – tagliò corto il tedesco che non amava quel genere di esternazioni.
Rimasero in silenzio altri minuti.
Intorno a loro il locale si animava di clienti senza sosta, per lo più impiegati dei vicini uffici, studenti universitari dell’Università Statale, bancari che con sicurezza svisceravano previsioni sulla borsa e prospettive di guadagno, uomini d’affari in doppio petto. Un mondo estraneo a Gunther e ad Albert che faceva da sfondo al loro incontro. Per un attimo, nell’osservarli, il tedesco pensò che forse Albert avesse ragione. Rapinare una banca, portare via dei soldi a quegli strozzini in doppiopetto non gli avrebbe fatto male. Ma poi allontanò la tentazione.
– Davvero credi ancora di poter avere una vita normale come quelli? Io non riesco. Non sono tagliato per un posto da impiegato, ufficio, casa, una moglie, le rate. Non fa per me. Voglio rimanere quello che sono fino alla fine – commentò il francese sintonizzandosi con le riflessioni di Gunther.
– Fino a quando non finirai dentro. O ammazzato. La fine è sempre quella. Alla legge della strada nessuno sfugge – sentenziò Gunther assaporando la sua Gitanes. Erano le stesse sigarette che fumavano in Congo.

***
– Dove hai parcheggiato?- si informò Gunther che desiderava cambiare discorso.
Non era in vena di analisi introspettive. Quelle già le faceva ogni giorno con la bottiglia di Pernod, quando l’ultimo cliente del Bodega se ne andava e lui rimaneva solo.
– Qui dietro. Devo recuperare le mie cose che ho lasciato in macchina.
Gunther si frugò nelle tasche. Lasciò sul tavolo le lire per pagare i caffè.
– Usciamo da qui. Ti accompagno – fece il tedesco alzandosi in piedi e facendosi largo tra gli avventori. Seppur appesantito dagli anni e dall’inattività fisica, Gunther aveva il portamento del soldato.
Sfiorava il metro e novanta per un peso di più di cento chili. Spalle larghe e collo taurino gli conferivano un aspetto marziale. Aveva la mascella pronunciata, una bocca larga e pochi capelli biondo cenere tagliati a spazzola. I suoi occhi chiari sembravano perennemente velati da un’espressione di malinconica. La strana coppia si allontanò dalla piazza. Presero la stretta via Zebedia con le sue botteghe e l’odore del fornaio vicino che sfornava pizze e focacce. Sembrava un angolo di medioevo sopravvissuto alla modernità. Albert fece cenno a Gunther di aspettarlo. Si infilò dentro la panetteria. Gunther sorrise. Sapeva che Albert andava ghiotto della pizza alta al taglio. In Francia diceva che quella che chiamavano pizza era immangiabile e se lo diceva lui che era francese c’era da crederci. Poco dopo Albert ricomparve con due tranci avvolti nella carta lucida e pronti per essere gustati.
-Tieni e mangiala. Assorbe quella merda che ti sei bevuto ieri sera.
Gunther la prese. Nonostante la mancanza di appetito diede un morso. Era ancora calda. Proseguirono fino a Corso Italia. Albert si avvicinò ad una Mercedes 240 diesel bianca. Aprì il bagagliaio. Dentro c’erano due borse di pelle.
Gunther lo guardò perplesso.
– Non vorrai farmi credere che sono tutti vestiti?
– Certo che no. Ho dietro i ferri del mestiere-
Gunther aprì la cerniera per un pezzetto, tanto per dare un’occhiata e richiuse subito.
– Ho solo una Skorpion, due revolver e un po’ di confetti. A Nizza ho lasciato la roba pesante. Ho anche due bombe a mano. Se ti serve te le regalo – fece Albert serio.
– Tu sei sciroccato. Con quella roba lì non esci più di galera – disse Gunther meditando sul da farsi.
– La macchina almeno è pulita o la devi far sparire? – proseguì il tedesco sbuffando.
– E’ pulita. Per chi mi hai preso? E’ di un amico, tutta regolare. Ho perfino un’ assicurazione mon ami.
– Allora siamo a posto – ironizzò Gunther.
– Il problema è il set di pentole che ti porti dietro. Non le voglio nel mio appartamento. Le sistemeremo in un solaio.
Albert annuì. Non aveva scelta. Richiusero il baule della macchina.
– Andiamo. Ti lascio a casa e poi me ne torno qui. Ho delle cose da sbrigare – disse Gunther.
Sopra di loro il cielo plumbeo della città non prometteva sprazzi, ma un grigiore uniforme, piatto, senza profondità.

 


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