"Un dollaro e cinquanta"di Mirko Giacchetti


 

img_4876

 

I
Se volevi conoscere il Re, allora dovevi passare dal Colonnello. Questa legge di Las Vegas la conosceva Big Sal, come la conosceva ogni altro scommettitore che fosse appena più sobrio di un scorpione ubriaco.
Sal non voleva giocare d’azzardo. Niente corteggiamenti al chiaror di neon per Lady Fortuna, una bambina egoista e capricciosa. Quindi, si era accontentato di truccare la mano, tirando fuori dalla manica un asso di troppo: Al Cicero, proprietario dell’International Hotel e Bravo Ragazzo di New York in trasferta.
In cambio di una lezione a un bordello sulla Desert Street, incapace di comprendere a fondo il significato di amicizia e protezione, Sal aveva chiesto una cortesia, solo un piccolo favore a un amico, nient’altro.
Per quanto fosse efficace la raccomandazione, sapeva che l’ultima parola era di Thomas Andrew Parker, Colonnello onorario della Louisiana e vero clandestino, finto americano. Se quell’avido grassone diceva “no”, allora era “no” e basta.
Sal era un ragazzo di vent’anni, pelle abbronzata, due basette come Elvis comanda e due occhi grigio ferro che sfidavano il giudizio di Tom Parker. Piantò la sua determinazione in quello sguardo strizzato che valutava ogni cosa in dollari, sicuro di riuscire a superare l’ostacolo che il balenottero bianco rappresentava. Appoggiato al bastone, al centro esatto della stanza, l’olandese indossava un completo tre pezzi bianco; abiti che puzzavano di soldi, roba di classe fatta su misura. In testa un cappello sotto cui nascondeva i pochi capelli rimasti e molti chili in più del necessario tendevano il gilet sul ventre. Solitario, un cravattino di pelle precipitava dal colletto della camicia.
Il tanfo del sigaro riempiva la stanza.
“E così, – staccò l’involtino di tabacco dalle labbra- vorresti conoscerlo?”
“Sì, signore” rispose Big Sal.
“No, non sono un signore. Sono il Colonnello Parker, non dimenticartelo mai” puntualizzò, sbattendogli sotto il naso l’indice della mano libera. “Cosa vuoi dal lui, – proseguì – perché dovrebbe vedere uno come te?”
“Colonnello, io non voglio niente!”
“Certo, come è certo che tutti, prima o poi, vogliono qualcosa da lui.” Il Colonnello si voltò e si diresse verso una porta; quella che poteva sembrare l’entrata del cielo, su cui una stella dorata conteneva il nome Elvis.
“E’ occupato, – proseguì – torna più tardi.” Soffiò la frase prima di riattaccarsi al sigaro.
“No, lei non può dirmi no!”
Il Colonnello si voltò a guardarlo, non prima di essersi voltato con una lentezza studiata sin nei minimi dettagli. “Anche se i tuoi amici mafiosi ti hanno fatto arrivare qua, – con la mano spazzolò un inesistente granello di polvere sulla manica della giacca- non dimenticartelo mai: non sei nessuno.”
Sal tirò fuori dalla tasca dei pantaloni due monete. Un dollaro e cinquanta centesimi e le mostrò al Colonnello. “Se queste fossero la sua fortuna, lei quale sceglierebbe?”
“Cosa vuoi?”
Sal ripetè la domanda.
Il Colonnello aspirò dell’altro cancro al gusto tabacco. “Quella da un dollaro” rispose, liberando una nuvola grigia e maleodorante.
Sal fece due passi avanti, afferrò la mano dell’olandese e lasciò cadere le due monete nel palmo sudaticcio.
“Io scelgo sempre il Re.”
Mentre il Colonnello intascava le due monete, Sal scattò verso la porta.
“Ma cosa diavolo hai intenzione di fare?” urlò il Colonnello.
“Prendere da solo la mia fortuna!”
“Fermo lì dove sei.” Nella foga il sigaro precipitò al suolo.
Spalancata la porta, Sal si bloccò quando vide il riflesso nello specchio.
“Cosa sta succedendo?” Elvis aveva parlato.

II
“Allora, vai in camera, prendi una federa dai cuscini, poi torni e metti dentro tutto quello che sembra avere un valore, hai capito?” Andrea parlò, sistemandosi il passamontagna per riuscire a scacciare una ciocca ribelle di capelli. Una virgola bionda e ostinata tra gli occhi celesti.
“Lasciamo perdere, andiamo via,” protestò Matteo.
“No, noi non andiamo via. Devo aprire quella” disse, indicando la cassaforte.
Matteo obbedì, salì le scale ignorando il prurito alla cicatrice sul braccio sinistro. Se l’era fatta scavalcando una recinzione durante il suo primo furto con Matteo. All’epoca, uno squarcio del genere valeva bene una manciata di caramelle. Era il suo campanello d’allarme poiché ogni volta che le cose si mettevano male, o credeva che il tutto volgesse al peggio, quella striscia pallida gli sembrava piena di formiche rosse. Questa volta anche più incazzate del solito.
“Dove eravamo rimasti?” Andrea digitò sei numeri a caso. Il display lampeggiò alcuni secondi, le cifre sparirono e comparve un tre in contemporanea a un rumore che veniva dal piano di sopra.
“Tutto bene?”
Matteo ricomparve. “Guarda cosa ho trovato,” nelle mani aveva una pistola. Calcio in plastica nera zigrinata, tutto il resto di metallo lucido e un’antipatica canna corta. “E’ una Smith & Wesson – disse, indicando la scritta sul lato destro – cosa ne facciamo?”
“Non lo so, ma avrà un valore, quindi noi la rubiamo! Dov’era?”
“Sotto il cuscino. Forse il tizio che abita qui, non dorme sonni tranquilli.”
“E’ carica?”
Matteo la puntò verso il soffitto e guardò attraverso il tamburo.
“Sembra di sì” rispose.
“Come, sembra di sì?”
“Che ne so e poi mica dobbiamo usarla, – la pistola sparì nella federa – l’hai aperta quella?”
“No, cazzo. Rimangono solo tre tentativi.” Andrea si portò le mani ai fianchi e inclinò la testa per osservare la cassaforte da un’angolatura diversa.
“Lascia perdere, andiamocene.”
“Troviamo una villa vuota e noi cosa facciamo? Entriamo, portiamo via l’argenteria e lasciamo perdere la cassaforte? Ma siamo due cazzo di principianti?”
“E dai, secondo me qui finisce male!” disse Matteo, grattandosi la cicatrice.

III
“Per vedermi hai dato al Colonnello un dollaro e cinquanta? Valgo così poco?” Elvis lisciò con entrambe le mani il costume di pelle bianca, prima di accomodandosi sulla poltrona. Il camerino era grande il doppio della topaia in cui Sal aveva messo le tende giù a Cheyenne Ave, vicino a quell’aeroporto con tutti quei dannati aerei ronzanti. Ma all’International il lusso era reale e si poteva dimenticare di essere in un’oasi fatta di luci e inganni nel bel mezzo del deserto.
“No. Lei vale tutto l’oro del mondo, al Colonnello ho solo chiesto di scegliere la sua fortuna.”
Elvis guardò Big Sal.
“Le monete erano la fortuna. Il Colonnello ha scelto, ma io gli ho dato più di quello che voleva.”
“Hai dato a Tom più di quanto desiderasse? Complimenti, sino a ora sei l’unico a esserci riuscito. Come ti chiami ragazzo?”
“Salvatore Grosso. A Vegas tutti mi chiamano Big Sal.”
“Italiano?”
“Sì.”
“It’s Now or Never… O Sole Mio… – canticchiò Elvis – è una bella canzone, ma secondo te ho fatto bene a cantarla?”
“Tu lo chiedi a me? Quando la canti l’Italia intera ti ringrazia.”
“Ragazzo hai stile e mi piaci, ma non pensare che io non abbia mai dubbi. Magari un giorno pianto tutto e sparisco nel nulla…”
“Ma tu sei Elvis.”
“E tu sei Salvatore. Io non ho scelto di essere Elvis.” Il Re si alza e passa ancora una volta le due mani sul costume. “Con uno di questi sudi peggio di un maiale all’inferno, ne vuoi un po’?” Una bottiglia di Wild Turkey sbuca dal cassetto della specchiera. “Qualche anno fa, Frank mi ha spiegato che per scaldare la voce è utile, ma io ho il sospetto che lo faccia solo perché ama la bottiglia, comunque…” Svita il tappo e ne fa sparire più o meno due bicchieri.
“Essere Elvis potrebbe anche essere la mia fortuna, o forse no, – prosegue – il Colonnello ha il suo dollaro e cinquanta e ognuno alla fine ha la sua. Ora che tu hai incontrato la tua, sei soddisfatto?”

Elvis si alzò, appoggiò una mano sulla spalla di Big Sal. “Ricorda – proseguì- non mentire. Il Re capisce quando uno racconta bugie.”
“Sì, sono soddisfatto.”
Elvis socchiuse gli occhi e si avvicinò al volto di Big Sal.
“No, non menti” disse, scuotendo il capo.
Big Sal rimase senza fiato.
Elvis aprì la porta del camerino.
“Tom, per favore, porta la macchina fotografica.”
Il Colonnello entrò nel camerino. Guardò con disprezzo Big Sal.
Elvis mise il braccio sinistro sulle spalle di Sal.
“Dite: Cheese.” Il Colonnello scattò la foto.
“Passa a prenderla tra un paio di giorni. Ora devo andare.”
Elvis gli porse la mano.
“Mafioso di merda” sussurrò il Colonnello.
“Dai Tom, sii gentile, per come ti ha fatto fesso, il ragazzo potrebbe essere uno di noi, uno dei Memphis Mafia.”

IV
“Secondo te quanto può valere una foto di Elvis con autografo ?” chiese Matteo.
“E cosa ne so. Perché questa domanda?” rispose Andrea, guardando la cassaforte.
“Andrea!”
“Ma sei scemo? Ti ho detto di non chiamarmi per nome. Perché ci siamo messi un passamontagna? Tanto valeva venire qui e dire: salve, siamo…”.
“Abbiamo un problema.” Matteo iniziò a tremare.
“Ma che cazzo… Che problema abbiamo?”
“Stiamo rubando a casa di Big Sal.”
“Cosa, sei sicuro che questa sia casa sua?”
“Qui, sulla foto c’è scritto il suo nome.”
Andrea scoppiò a ridere.
“Cazzo. Vuoi dire che noi stiamo rubando a casa di Big, sonoilfottutopadroneditutto, Sal?”
“Meglio andare via e pregare che non ci trovi mai.”
“Ma tu stai scherzando, prendi quella foto e tutto il resto. Allora lì dentro, – disse indicando la cassaforte – ci sono un sacco di soldi.”
“Lasciamo perdere” insistette Matteo.
“Cosa sappiamo di Big Sal?”.
“Che ci ammazza, poi ci ammazza ancora e alla fine ci ammazza una terza volta” rispose Matteo.
“No, non quello. Non ci becca, non ci ammazza. Semplice, no? Se gli piace tanto ‘sto Elvis, vorrai mica che c’entra con la cassaforte?”
“Non lo so.” Matteo prese in mano la cornice.
“Accendi il pc. Vai su Wikipedia e cerchiamo un indizio, per aprire il tesoro” Andrea pronunciò l’ultima parola sibilando come Gollum.
Matteo fissava la cornice.
“Fai vedere, – la prese e la osservò – doveva avere due palle quadre ‘sto Elvis se andava in giro vestito così, senza sentirsi ridicolo.” Restituì la foto e aggiunse: “fatti da parte, ci penso io” disse Andrea accendendo il pc.
Matteo lasciò cadere la foto nella federa del cuscino e gettò altri oggetti presi a caso sulla scrivania.
“Non è strano che la casa di Big Sal sia incustodita?”
“Conosci qualche idiota che ruberebbe a casa sua?” chiese Andrea, digitando Elvis Presley su Google.

V
Franco era seduto al tavolino, leggeva l’Anticristo di Nietzsche e sorseggiava una spremuta di arance rosse, mentre gli altri clienti giocavano ai videopoker. Imprecavano e schiaffeggiavano i tasti invocando la giusta combinazione.
Infastidito dal baccano, Franco si avvicinò agli scommettitori. “Potreste evitare di urlare? Grazie.”
Il tizio più vicino non distolse lo sguardo dal monitor, continuava a martellare i pulsanti. Prese una decina di euro dal bicchiere sullo sgabello a fianco, senza distrarsi. “Questo è un bar, se vuoi leggere, vai in biblioteca” disse, tirando un pugno quando apparì la combinazione quasi vincente.
Franco sorrise. Il tizio fece scivolare altre monete e rivolse al vicino un “adesso paga.”
La mano destra riprese a tormentare l’aggeggio videoludico.
“Scusi, ma devo insistere. Ha ragione quando dice che questo è un bar, ma nulla mi vieta di leggere.”
Il tizio affidò altre monete alla mangiasoldi e guardò Franco mentre con la mano batteva il codice morse per contattare la fortuna.
“Senti, professore, non vedi che sono occupato?”
Tornò a guardare il monitor sghignazzando soddisfatto.
Un paio di colpi ancora e inserì un’altra generosa manciata di monete.
“Lei conosce la differenza tra nichilismo attivo e passivo? Ho una mia teoria…” Franco fu interrotto da un gesto del tizio.
“Non mi interessa e vedi di andartene a fare in culo.”
“Il nichilismo passivo – proseguì Franco – è ciò che la rende schiavo di questo videopoker. Lei subisce quel vuoto di valori che disgrega la sua esistenza.” Franco mise una mano tra il volto del tizio e il monitor per attirare l’attenzione.
“Ma che cazzo.. Se ti ascolto, torni a leggere?”
Franco ritirò la mano, poi annuì.
“Bene professore, allora continua.” Il tizio aveva svuotato il bicchiere e si mise a sbirciare dentro il portafogli.
“Lei è un nichilista passivo. Dentro di sé sente che i valori con cui è cresciuto non hanno più significato, ma vi si aggrappa con ostinazione, nella speranza che un giorno risorgano. Lei nutre questo guscio vuoto – Franco indicò il videopoker- aspettando che compia il miracolo, ma mi dia retta, lasci perdere tutto e si decida a forgiare da solo i suoi valori.”
Il tizio fece una smorfia.
“Io sono un nichilista attivo” disse Franco.
Un piccolo gioco di magia: la pistola comparve nella sua mano e il tizio si ritrovò a terra.
“Almeno non sia maleducato. Ascolti le persone, potrebbe meravigliarsi per quello che dicono.”
Il videogiocatore aveva gli occhi sbarrati, anche se sdraiato teneva le mani alzate sulla testa. Gli altri giocatori sparirono più in fretta di tutte le monete spese.
Il cellulare nella tasca di Franco suonò. “Pronto?” rispose, tenendo sotto tiro il nichilista passivo. “Capisco, arrivo subito.” Chiuse la conversazione, ritirò il cellulare e si guardò attorno. Abbassò la pistola e tese una mano al tizio.
“Si goda la vita, lasci perdere tutto questo e crei i suoi valori.”

VI
“Pronto, mercatino dell’usato,” rispose Marika al telefono.
Stefano osservò i due ragazzi. Spostò la sigaretta sul lato sinistro della bocca.
“Trenta euro per tutta questa merda, per la pistola al massimo settanta.”
Andrea e Matteo si guardarono.
“Solo?” Andrea incrociò le braccia.
“Al telefono, è per te” urlò Marika dall’ufficio.
“Arrivo,– disse Stefano- questa roba è rubata, non puoi contrattare.”
Stefano oltrepassò il bancone, entrò nell’ufficio e prese la cornetta.
“Pronto? Mi scusi. Ero distante.” Stefano chiuse gli occhi e rimase in silenzio.
“Fa il duro, ma vedrai che cede” disse Andrea, dando una gomitata a Matteo.
“Lascia perdere, andiamo via.” Matteo prese alcuni oggetti dal bancone mentre la cicatrice lo tormentava.
“Sì, cosa manca?” Stefano prese una biro e iniziò a scrivere su un block notes.
“Hai visto Marika? Ha due tette che non ti dico. Io me la farei sino a svenire.” Andrea mandò un bacio in direzione della ragazza.
“Davvero? Ho capito, non si preoccupi.” Stefano ripose la cornetta.
Appena si voltò, Marika sorrise ad Andrea.
“Visto, è mia, vedrai che me la faccio.”
“Ne voglio duemila e cinquecento. Non mi faccio derubare e poi l’hai visto l’anello, quello da solo vale tutto il negozio.” Un cerchio d’oro su cui, raccolti a forma di ferro di cavallo, una serie infinita di quelli che anche un cieco avrebbe scambiato per diamanti.
Stefano sorrise, aspirò una boccata di fumo e spense la sigaretta.
“Scusa, ma devo controllare una cosa.” Si posizionò davanti al pc.
Osservò per alcuni minuti il monitor. Guardò Andrea e poi rise.
“Perché ridi?”
Stefano prese la Smith & Wesson dal bancone e la puntò contro i due.
“Sentite, non è che avete anche una foto autografata di Elvis?”
Matteo svenne.

VII
Al secondo squillo Franco accostò la macchina al marciapiede. Spinse il pulsante del vivavoce sul volante. “Vai da Stefano e portami quei due coglioni, – la voce di Big Sal fece tremare tutto l’abitacolo – ma prima fagli male, torturali, squartali, scuoiali, ma non ammazzarli, quello no. Portameli qua e li ammazzo io quei due figli di puttana!”
“Stefano. Ok, vado” rispose Franco.
“Portameli vivi, ma assicurati che soffrano.”
“Va bene.”
“No, non va bene un cazzo. Quei due stronzi hanno qualcosa di mio, quando avrai finito con loro, mi dovranno pregare di ucciderli. Sparagli al ginocchio, staccagli una mano e falli soffrire, poi portameli.”
“Va bene.”
La comunicazione s’interruppe. Franco si tolse la cintura di sicurezza e scese dall’automobile. Aprì il bagagliaio per controllare se avesse qualche telo di plastica, non voleva sporcarlo di sangue.
Tornò nell’abitacolo, prese il cellulare e selezionò il numero di Stefano.
“Pronto? Sì, lo so, sto arrivando. Hai fatto bene. Volevo chiederti, hai un telo di plastica, una cosa tipo: tre metri per tre? Sì, mi serve così grosso. No, non basta, devo metterlo doppio. Ok, arrivo.”
Franco guardò l’orologio.
Avviò il motore, si rimise la cintura e guardò nello specchietto. Dopo un paio di deviazioni, parcheggiò l’auto davanti alla ferramenta Porello & Figlio.
Dopo una rapida spesa, giunse alla cassa.
“Per cosa le servono?” chiese il commesso, doveva essere Porello figlio, quello indicato nell’insegna.
“Una serra” rispose Franco.
“Allora va bene la plastica trasparente, così lascia filtrare i raggi del sole, però la corda non è indicata per legarla ai pali, dovrebbe prendere del fil di ferro, quello fine.”
“C’è l’ho, grazie. La corda e l’accetta mi servono per tagliare la legna e fissarla al trattore.”
“Le serve anche della rete anti grandine, per il resto dell’orto?”
“No, al momento no.”
“Si ricordi di tendere bene la plastica e non lasci superfici piane, altrimenti si deposita l’acqua.”
Franco annuì e attese il resto dei cento euro.
“Papà, hai visto quello, –urlò non appena Franco uscì dal negozio – secondo me la serra non riesce a farla, vedrai che torna.”

VII
“Vedi – Stefano girò il monitor verso Franco – Quando Big Sal è tornato a casa, li ha beccati per questo.” Il profilo facebook di Andrea era in bella mostra.
“Vuoi dirmi che hanno messo una foto dell’anello su facebook e poi hanno lasciato connesso il computer?”
“Sì, se lo saranno dimenticati.”
“Due idioti,” sentenziò.
“Nemmeno un’ora ed erano qui a tentare di vendermi quell’anello.”
“Dove sono?”
“Di là,” Stefano fece un cenno verso il bagno.
“Prima di portarli via, dovrei fare una chiacchierata con loro. Hai un posto tranquillo?” chiese Franco.
“L’ufficio?”
Franco diede un’occhiata e salutò Marika.
“No, non va bene. Qualcosa di più tranquillo?”
“Il magazzino?”
“Sì, meglio e, se possibile, non vorrei essere disturbato.”
“Capito. Qui c’è tutto quello che avevano. – Stefano tolse gli oggetti dalla federa, depositandoli sul bancone – la pistola, l’anello, un tagliacarte e una cornice d’argento.”
“Non è che sai dov’è finita la foto?”
Stefano scosse la testa.
Franco ripose con cura gli oggetti. “Ora dove sono?”
Stefano fece un cenno verso la porta del bagno.
“Ok, andiamo a prenderli,” disse sfilando la pistola dall’ascella sinistra.
“Bella, è una Beretta, vero?” chiese Stefano osservando l’arma.
“Sì, non mi fido di nessun’altra al mondo.” Mostrò il ferro e sorrise.
Quando la porta si aprì, Andrea sollevò le braccia all’altezza del viso per difendersi. Matteo giaceva a terra immobile, privo di sensi.
“Bene, volete precedermi nel magazzino?” Indicò la direzione con un cenno.
“E’ svenuto” disse Andrea.
“Ho visto. Trascinalo.”
Andrea sollevò l’amico per le ascelle e ne valutò il peso. Giunto alla porta del magazzino spinse il maniglione antipanico con il fondoschiena, attento a non mollare la presa. “Non riesco ad aprirla,” disse Andrea.
“Stefano, per favore, aiutalo.”

VIII
“E’ a casa sua,” urlava Matteo, dopo essere stato riportato nel mondo dei coscienti e spronato a rispondere con un proiettile nella rotula. Il sangue iniziava a imbrattare il pavimento.
Si aprì la porta e comparve Stefano. “Ma che cazzo stai facendo? Me li ammazzi qui? Vai da un’altra parte.”
Matteo continuava a urlare per il dolore.
Franco sparò anche al ginocchio di Andrea, tanto per non dare l’impressione di fare preferenze.
Le urla riempivano la stanza.
“Per favore, fate silenzio. – disse rivolto ai due – No, non te li ammazzo qui. Io Devo solo fare quello che Sal vuole.”
Matteo smise di urlare non appena perse i sensi e divenne più bianco di un fantasma.
“Nel bagagliaio della mia macchina ci sono un’accetta e un po’ di corda, me li vai a prendere, per favore?” Franco fece tintinnare le chiavi, attirando l’attenzione di Stefano.
“Questo pensavate fosse il vostro plusvalore? – chiese mostrando l’anello – Vendendolo credevate di riprendervi ciò che vi spettava?”
Andrea gemeva senza esagerare, spargeva un po’ di lacrime e continuava a premere la mano sulla ferita.
“Hai mai letto Marx? No? Avresti dovuto. Ti avrebbe tenuto lontano dai guai e tu saresti diventato un vero rivoluzionario, con tanto di coscienza di classe e non un qualunque ladro come ce ne sono tanti.”
Franco rimise l’anello nella federa. “Fammi indovinare, la combinazione della cassaforte era la data di nascita di Elvis, non è vero?”
Andrea smise di piangere.
“Fai vedere, – continuò Franco – brutta ferita, davvero brutta. Pensavate di trovarci dei soldi, invece c’era solo questo. Tu non sai quanto Big Sal ci tiene all’anello.”
Stefano ricomparve nella stanza.
“Devi farlo qui? C’è già troppo sangue.”
“Non preoccuparti. Sal sarà riconoscente. Ora legali e passami l’accetta.”

IX
Le piastrelle lucide, lo scolo al centro del pavimento il lavandino poco distante dall’armadietto dei disinfettanti. Tutto nella stanza era stato studiato per ammazzare la gente con il maggior spreco di sangue, senza che il ripulire l’ambiente diventasse un incubo per un’intera squadra di pulizie.
Andrea e Matteo erano seduti su delle sedie in ferro a cui mancava la seduta. Imbavagliati e legati, più che altro per fare scena.
Big Sal camminava a piccoli passi stringendo la Smith & Wesson. Gli anni non lo avevano nemmeno sfiorato, sembrava essere eterno. Niente più ciuffo e basette, ma un taglio a spazzola color metallo.
Guardò la corda attorno al polso destro di Andrea.
“Perché quella?”
“Perdevano troppo sangue, potevano morire” rispose Franco.
“La foto?”
“A casa di quello.”
Franco indicò Andrea.
“Trovala. Poi ammazza le famiglie di questi due.”
“Svegliali.”
Per tutto il sangue perso, i due ormai erano solo esemplari di ragazzi bianchi sbiaditi. I blue jeans sporchi di ogni liquido biologico e Matteo aveva la maglietta chiazzata di vomito. Sul suo braccio non si vedeva più la cicatrice, era bianca come tutto il resto.
Franco li schiaffeggiò.
“State per morire, brutti figli di puttana” urlò Big Sal.
I due erano l’espressione del terrore.
“Pensavate di riuscire a prendere il mio anello e le mie cose, ma non ci siete riusciti e sapete perché? Credevate di essere fortunati. Invece siete solo stupidi.”
Big Sal sputò in faccia a entrambi.
“Lo vedi quello?” disse ad Andrea, indicando Franco.
Andrea fissava Matteo.
“Guardami!” Sal lo schiaffeggiò.
Andrea cercò di concentrarsi su Big Sal.
“Lui, che vi ha ridotto così, ora va a sistemare le vostre famiglie.”
Due colpi e la storia dei ragazzi era finita. Sal diede la pistola a Franco e osservò il suo anello. Faceva bella mostra di sé sul mignolo della mano sinistra del capo.

X
Elvis guardava Big Sal. La foto di loro due assieme era appoggiata sul tavolo.
“Sei stato fortunato. Hai fregato il Colonnello e sei arrivato dove volevi” disse Elvis.
“La fortuna l’ho lasciata nelle mani del Colonnello.”
Elvis sorrise. Scrisse una dedica sulla foto.
Tu sei la tua fortuna. All’amico Big Sal.
“Grazie Sal. Mi hai fatto capire perché ho scelto di essere Elvis” e si sfilò l’anello porgendolo al ragazzo.
“Cosa? Non posso, davvero.”
“Prendilo ragazzo e ricordati sempre di sceglierti la tua fortuna.”

XI
Porello figlio, ancora seduto alla cassa, appena vide Franco lo accolse con un sorriso, poi disse: “già di ritorno? Ha dimenticato qualcosa?”
“No, vorrei solo un altro telo di plastica. Sa, dovrei fare un’altra serra, una ancora più grande.”
“Quanto più grande?”
“Molto più grande.”


Lascia un commento