"Un doloroso distacco" di Amalia Lilla Pezzi



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La rivedo ancora nitidamente quella tavola apparecchiata nella nostra stanza da pranzo, coi piatti colmi di tagliatelle al ragù e noi tre, la mamma e noi bambine, lì ammutolite, ad ascoltare dalla voce del babbo l’incredibile notizia dell’ultima ora: dovevamo lasciare entro breve tempo Alfonsine per trasferirci a Massa Lombarda dove mio padre avrebbe diretto la locale Agenzia del Credito Romagnolo.
Dal tono di voce si capiva che era angosciato, pover’uomo, nel darci quella notizia e lo divenne certamente ancora di più quando tutte e tre, la mamma, mia sorella ed io, cominciammo a piangere disperate; ognuna di noi esprimeva fra le lacrime le proprie perplessità:
– Mio Dio, un altro trasloco! Poveri i miei mobili! E quanta fatica mi costerà….- si disperava mia madre
– Non vogliamo lasciare le nostre amiche e la nostra scuola! – protestavamo in coro mia sorelle ed io
– Proprio adesso che avevamo sistemato così bene la nostra casa! Ricominciava la mamma con voce lamentosa
Ed io singhiozzando:
– Ma come faremo a lasciare il cortile e la Signora Maria…………
– E la Cenza e la Delfina …-.faceva eco mia sorella, citando due delle sue più care amiche.
Mentre noi tre ci lasciavamo sopraffare dall’angoscia, le tagliatelle cominciavano ovviamente a raffreddarsi, solo il babbo che, dopo aver scaricato sulle nostre spalle il fardello del trasferimento, aveva ritrovato il suo consueto appetito, si sedette a tavola, rassegnato a sorbirsi tutte le nostre lamentele, ma non a rinunciare a quella formidabile e promettente pasta asciutta.
Più tardi, andandosene, ci raccomandò di non far parola con nessuno su quanto ci aveva detto, poiché la notizia non era ancora ufficiale.
Già……ma era come proibire all’acqua di un torrente montano di precipitare a valle, o ad un fuoco di propagarsi in un campo cosparso di paglia. Così appena mio padre fu uscito, mia madre, seguita da noi bambine, si precipitò su dalla signora Maria, nostra buona amica, a riferirle “in gran segreto” la triste notizia; e giù altre lacrime a cui si unirono anche quelle della buona signora.
Più tardi, quando mi recai alla dottrina dalle suore, la Superiora, notando i miei occhi inverosimilmente gonfi e il mio viso atteggiato ad una grande tristezza, mi chiese ovviamente che cosa mi fosse successo.
A quella premurosa domanda scoppiai di nuova in lacrime fra lo stupore di tutte le mie amiche che dovettero attendere pazientemente che io mi calmassi, prima di venire a conoscenza di ciò che tanto mi addolorava.
La Superiora mi strinse a sé, consolandomi con buone parole; alcune amiche, quelle che conoscevo meglio, mi espressero il loro rincrescimento con uno sguardo triste che ben si addiceva alla circostanza.
La loro sollecitudine e quella della buona Superiora mi commosse a tal punto che ancora una volta mi misi a versare lacrime come una vite tagliata.
Le sentivo scendere dagli occhi, calde e copiose come mai mi era capitato, mi inumidivano le gote arrossate raggiungendo perfino la gola; altre mi si intrufolavano fra le labbra, lasciandomi uno sgradevole sapore di sale; non avevo mai saputo che le lacrime fossero salate!
Ma quante altre nuove cose appresi in quel giorno lontano: imparai ad apprezzare le parole di conforto che in certi momenti fanno così bene al cuore dolente, imparai a cogliere negli sguardi impietositi del prossimo un affetto sincero che, se anche non rimedia il male che ti affligge, ti fa per lo meno sentire meno sola; imparai a conoscere il dolore, quello che ti fa sentire smarrita e disperata senza un sicuro punto di riferimento, quello che ti lacera dentro e che sembra non doverti lasciare più, ma conobbi anche l’importanza della famiglia unita nella gioia e nel dolore, in seno alla quale si trova sempre un porto sicuro dove rifugiarsi durante la tempesta; imparai infine che i segreti non si possono mantenere a lungo, quando si è in troppi a conoscerli, prova ne sia che non più tardi di quella sera tutta Alfonsine, o per lo meno quella parte che ci conosceva e ci voleva bene, già sapeva della nostra imminente partenza.
Nei giorni successivi, al dolore iniziale subentrò in me una rassegnata malinconia che da allora è riemersa dal profondo del mio cuore ogni volta che nella vita ho incontrato momenti dolorosi. Sempre le stesse reazioni di allora: singhiozzi e lacrime a non finire, poi ecco giungere lei: la lieve malinconia, delicata come un’ala di farfalla, irremovibile padrona del mio cuore.
E così, giorno dopo giorno, ci preparammo gradualmente a quel distacco, ma non per questo meno dolorosamente. Guardavo i luoghi e le persone con occhi diversi, con una particolare attenzione, giustificata dal comprensibile desiderio di imprimermi nella mente i colori, le luci, le strade, i volti e le voci dei miei compaesani. Fino all’ultimo continuai a sperare che quell’attesa fosse solo un brutto sogno, tanto mi pareva improbabile che potessimo girare le spalle a tutto e a tutti per ricominciare altrove la nostra vita.
Anche se mio padre prese servizio quasi subito nella nuova sede di Massa Lombarda, dove si recava ogni giorno in treno, noi prolungammo di qualche mese la nostra permanenza ad Alfonsine per via della scuola. Ma a giugno dovemmo proprio togliere le tende. Fu deciso che noi bambine restassimo qualche giorno ancora, ospiti d’amici, per dar tempo a nostra madre di sistemare con calma il nuovo appartamento.
Vidi sostare a lungo davanti al palazzo del Credito Romagnolo un grosso automezzo su cui vennero caricati tutti i nostri mobili e i nostri indumenti; a noi quattro invece toccò caricare nei nostri cuori tutti i ricordi di quegli anni sereni e irripetibili e il peso, vi assicuro, non era di certo lieve.

Io non vivo più nel mio paese natale, lo lasciai all’età di dieci anni e per molto tempo non lo rividi. Gli impegni, la famiglia non mi lasciavano il tempo nemmeno per una breve visita alle poche amicizie rimaste. Qualche anno fa però sentii improvvisamente un richiamo giungermi da quei luoghi e, pur sapendo in cuor mio che avrei sofferto alla vista degli inevitabili cambiamenti avvenuti in quegli anni, decisi di ritornare là dove era iniziata lamia vita. Ecco, in breve, come si svolse quel tenero incontro.
E’ un caldo tramonto, non afoso però; una brezza gradevole si insinua sotto il porticato del palazzo che io, da circa mezz’ora, sto osservando col cuore un po’ in subbuglio e con gli occhi velati dal pianto che mi sforzo di trattenere e che gli occhiali da sole nascondono con discrezione allo sguardo curioso di qualche passante. Nessuno mi conosce, eppure qui, in questo paese, fra i muri di questa casa sono nata e cresciuta, ho mosso i primi passi, ho imparato a leggere e a scrivere, ho conosciuto il piacere del gioco, delle prime corse con le amiche nelle calde sere d’estate, ho assistito curiosa e stupita all’alternarsi delle stagioni dietro quei vetri lassù, al primo piano, dove la mia famiglia abitava.
Qui, in questo paese, è cominciata la mia vita, si è svolta e conclusa la mia meravigliosa infanzia. Mi chiedo se non sia un miracolo che proprio questa casa sia stata risparmiata dalla guerra, mentre tutti gli altri edifici qui intorno furono fatti saltare: la Chiesa, le scuole, i bei palazzi che circondavano la grande piazza… nulla fu risparmiato! Anche le case hanno un loro destino; questa, “la mia casa” è uscita indenne dalla guerra e ancora oggi si stenta a credere che abbia già superato gli ottant’anni. E’ come una vecchia signora che nasconde sapientemente i segni del tempo sotto un discreto velo di cipria. E’ stata ridipinta di recente e si vede; le alte finestre, racchiuse in bianche cornici, spiccano sul color rosso bruno della facciata; ai miei tempi il palazzo era di un rosa più tenue e i candidi ornamenti, che incorniciavano le finestre, parevano di panna montata. Il porticato, dall’aria solenne, mi ha vista pedalare incerta sul mio primo triciclo, anche le piastrelle grigie del pavimento sono le stesse di allora, su cui si posarono i miei piedini di bimba , su cui sperimentai i primi ruzzoloni e le prime ginocchiate di cui, in quegli anni, portavo in permanenza segni ben evidenti. Resto lì, sospesa fra sogno e realtà, appoggiata ad una colonna come se aspettassi qualcuno; ed ecco arrivare dal fondo del porticato, su di un cigolante triciclo, una bambina di circa cinque anni; pedala con energia poi, nell’ultimo tratto, rallenta e si ferma proprio davanti a me. Mi guarda con la sfrontata curiosità dei bambini e mi sorride, come se mi conoscesse da tempo: “Chi cerchi?” mi chiede.
“Nessuno” dico io.

“Allora cosa fai qui?”
“Guardo questa casa, rispondo, ci sono nata, sai?”
“Anch’io ci sono nata e ci abito anche”
Ci osserviamo in silenzio. E’ una bambina graziosa; il vestitino bianco con le corte maniche a frappetta le conferisce un’aria innocente e pulita; i corti capelli castani le coprono appena le orecchie e la frangetta spettinata per la corsa lascia intravedere la fronte un po’ sudata.
“Come ti chiami?” le chiedo a bassa voce, cercando di non manifestare la mia commozione.
“Lilla” mi risponde.
“E’ un bel nome, dico, Lilla è il nome di un colore, lo sai?”
“Anche di un fiore, puntualizza la bambina, i lillà sono bellissimi fiori profumati, me l’ha detto la mia mamma.”
“E tu come ti chiami?” chiede la piccola.
Non le rispondo, se tentassi di farlo, scoppierei in lacrime, rischiando di spezzare l’incantesimo, ma già l’immagine sta svanendo e io faccio appena in tempo a leggere su quel visetto un’espressione di attesa per una risposta che non le è stata data.
Adesso lascio scorrere le lacrime liberamente, non mi importa se qualcuno mi vede; piango per quella bimba che mi ha lasciata e per questa donna che ancora s’illude di rivivere sotto il porticato della casa natale un istante della sua infanzia perduta.

 


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