“Un quadretto di zucchero” di Fabrizio Borgio


La malinconia della domenica sera possedeva lo stesso inganno della luce dei tramonti d’ottobre, abbagliava fino alle lacrime pur allungando sulla terra le ombre più scure.
Identico moto aveva spinto Giorgio Martinengo a mettersi di buona lena, con quel passo da collina che generazioni di contadini avevano sviluppato per arrampicarsi sulle coste ripide e scollinare dal Cornajàss, attraversare con un certo rischio la strada comunale che delimitava l’ambiguo confine tra Costigliole e Castagnole e risalire, osservando con inevitabile occhio professionale, la teoria di vigne da poco ripulite dal rapulè di fine vendemmia. I contorni dei bricchi erano neri come i profili di un teatrino d’ombre cinesi, il cielo si striava in lingue di fuoco, il Re di Pietra svettava sempre. E ovunque. Casa.
Stava bene dappertutto, Giorgio, cittadino del mondo, ma figlio, sempre figlio di quelle terre. Irrimediabilmente. E, più si fermava, più le radici affondavano; anche per quello sentiva l’esigenza periodica di viaggiare, per ricordarsi che oltre c’erano i rami protesi al cielo, alla luce.
Risalendo verso Sant’Anna, le ombre sempre più lunghe, distinse un capannello fermo sul ciglio della strada. Tre persone concentrate su un punto che digradava lungo la riva; l’unica donna del trio, vecchia e curva, stringeva un voluminoso mazzo di fiori.
Giorgio infilò le mani nelle tasche dei calzoni e rallentò il passo salutando: “Ciarea, neh.”
Il più giovane, un uomo magro sulla quarantina, rispose con un cenno, poi sollevò del tutto lo sguardo, che s’allargò. . “Ciao, Martinengo.”
“Ciao, Giacomo.”
Giorgio si fermò. Giacomo aveva usato un tono basso e grave, da funerale.
“Cousa l’è capità?” Già era fuori dalle dinamiche e dalla vita pubblica di Castagnole, figurarsi da quelle del paese vicino.
Giacomo scrollò le spalle, il classico gesto che imponeva di ridimensionare ogni cosa nel nome della discrezione.
“L’è mòrt ‘l’me nöno, Luìs.”
Giorgio annuì senza aggiungere altro, mosse un passo sul ciglio e guardò giù, verso la vigna. Il terreno era franato lungo la riva del bricco e diversi pali giacevano abbattuti e spezzati disegnando un tratto disastrato che rovinava la geometrica precisione del filare. Ricordò la notizia che aveva sentito giorni prima alla radio, mentre guidava lungo la tangenziale per Alba. Un classico di quelle terre: vecchi vignaioli caparbi che non lascerebbero la loro terra per nessuna ragione concepibile, acciaccati, rigidi, ma attaccati a ogni singola pianta della vigna in una simbiosi che, se interrotta, avrebbe portato alla loro fine. Quell’ultimo giro sul trattore, quella pendenza che conoscevano da decenni e da decenni avevano sfidato, fino a che la legge di gravità aveva avuto la meglio sulla loro pervicacia.
Ribaltato e travolto.
Giacomo sospirò. Giorgio si allontanò dal ciglio, mormorò le condoglianze alla vedova che, infine, lanciò il mazzo di fiori verso il luogo dell’incidente.
Il terzo presente non aveva fiatato: un monsü robusto, vestito alla vecchia maniera, che si era limitato a rimettersi il bonèt in testa e che, come gli altri ebbero ripreso a camminare, si affiancò alla vedova prendendola per un braccio.
In un muto gioco di ruoli, i ‘giovani’ distanziarono i vecchi con un passo più vivace e Giacomo iniziò a parlare con Giorgio con più agio; intanto, la sera aveva ricoperto del tutto i bricchi e i lampioni si erano sostituiti ai barbagli del tramonto. L’aria andava raffreddandosi.
“Novantün’ anï,” specificò l’uomo. Giorgio annuì. La resilienza di chi popolava quelle terre era nota e sembrava avanzare di pari passo con una longevità scolpita da durezza e fatica. Non era la più piacevole delle ricette per calcare il più a lungo possibile la terra ospitante, ma sembrava funzionare.
“È pure un’annata difficile,” rincarò Giacomo, che vendeva uva all’azienda della famiglia di Giorgio da diversi anni, da quando aveva lasciato il posto in FIAT, stufo di altalenarsi tra cassa integrazione e ferie forzate e aveva deciso di ritornare alle vigne dei nonni e metterci mano per cercare di rivitalizzare un’attività che sembrava destinata a svanire con i suoi vecchi proprietari.
“Troppo caldo e troppo secco,” osservò Giorgio. Anche l’aria che soffiava dalle Alpi sembrava mutata negli ultimi tempi, meno frizzante, meno sana. Annusando l’imbrunire aveva la sensazione di sentire la polvere che la brezza sollevava in un impalpabile lamento dai terreni spaccati dall’estate.
“Non si dava pace, il nöno.” Giacomo parlava con il dolore rassegnato di chi aveva accettato l’inevitabile. “Sempre in vigna, a tutte le ore. Già una volta aveva rischiato ün’acidènt a girare tra i filari all’una del pomeriggio, un colpo di calore, piciu che non era altro… E, tre giorni fa, l’incidente.”
“Rübatà,” concluse Giorgio.
“Rübatà szù d’la rivä,” precisò l’amico.
“Vìntmilä euro ‘d’tratòr,” aggiunse il monsü alle loro spalle.
“Ëh, sì…” lo liquidò Giacomo, poi si avvicinò a Giorgio e gli sussurrò: ” ‘L’më barba…” come per giustificarsi. Lo zio. Giorgio annuì mentre gli ritornava alla memoria la struttura familiare del conoscente. Il padre di Giacomo se l’era portato via un infarto mentre stava in cantina, passando così il testimone al fratello, un uomo burbero e infelice che non si era mai sposato e continuava a vivere con la madre. Una vita che sembrava scolpita dalle vicende di un secolo passato. La vigna, il vino, il dovere di figlio devoto alla madre, la messa la domenica. Giorgio sentiva tristezza infinita al solo pensiero di un’esistenza così circoscritta, chiusa e povera. I soldi sembravano l’unico piacere sensuale nella vita di quell’uomo.
Accompagnarono i vecchi alla cascina, Giorgio rinnovò le condoglianze e all’improvviso la vedova parve averlo riconosciuto del tutto: ” Ah, ma l’è monsü Martineng!”
“Sòn mi,” confermò. La donna insistette per offrirgli qualcosa e, suo malgrado, accettò l’invito.
Lo ospitò nel tinello. I mobili erano massicci pezzi di arte povera che avrebbero fatto la gioia di un purista dell’arredo tradizionale, strideva un divano a tre posti ricoperto da un plaid e l’enorme televisore ultrapiatto da 42” appeso al muro che divideva il tinello dalla cucina. Il barba di Giacomo si accomiatò salendo al piano di sopra, mentre la nonna metteva su il caffè. Parlava di come l’azienda della famiglia di Giorgio li avesse aiutati e intanto tirava fuori il servizio buono piazzandolo sopra un grosso vassoio di legno. Giacomo la raggiunse in cucina e Giorgio rimase seduto al tavolo a guardarsi intorno. Era una casa di alpini, sopra al camino c’era una collezione di gagliardetti dei raduni nazionali e territoriali, sulla credenza una parata di foto dei familiari che avevano militato, con la penna nera a svettare sui loro copricapi. Riconobbe una foto giovanile del nonno di Giacomo. Un ragazzo dal volto magro e ossuto, serio, in uniforme, con un mitra MAB imbracciato con marziale orgoglio. La foto era stata scattata all’aperto, in un campo spianato con dei filari d’alberi sullo sfondo; dietro il giovane alcuni contenitori lunghi, cilindrici e una chiazza bianca ai suoi piedi. Si alzò per studiare meglio il ritratto. Il bianco apparteneva alla seta del paracadute afflosciato al suolo. Immaginò fossero aiuti lanciati dagli alleati durante la guerra partigiana.
Giacomo e la nonna arrivarono; il nipote posò il vassoio, mentre l’anziana recuperava la caffettiera e riempiva le tazzine. Giorgio si sedette e cercò con lo sguardo lo zucchero di canna. Notò delle barrette color sacchetto del pane con le scritte in inglese, ne prelevò una e la soppesò. Non ne aveva mai viste in quel formato.
“È bianco,” lo anticipò Giacomo. “Ne abbiamo una caterva di scorta.”
“Pace,” rispose Giorgio evitando di dolcificare il suo caffè.
Chiacchierarono ancora un po’ del tempo asciutto, della pioggia che si faceva attendere senza arrivare, della vendemmia problematica per il gran caldo e la poca acqua, degli acini piccoli e poco polposi. I cambiamenti climatici stavano disorientando quella terra ubertosa. Infine, Giorgio annunciò che doveva andare, dal momento che se ne era venuto a piedi dal Cornajàss, e che col buio calato
era meglio che si sbrigasse a tornare. Giacomo gli offrì un passaggio che l’investigatore accettò.
“Come mai una caterva di zucchero?” domandò a Giacomo mentre il SUV arrancava verso Castagnole.
“Boh. Da più che mi ricordo non ho mai visto i miei nonni senza zucchero…”
“Scorte per la cantina?”
“Ma non solo. Sempre quelle barrette marroni…” sorrise a un ricordo improvviso. “Dovevi vedere quando ci si metteva tutti a rompere questo zucchero pressato nei sigilìn, pesare e aggiungere, un lavoro assurdo.”
Giorgio estrasse la barretta che aveva trattenuto fino a infilarsela nel taschino della camicia, uscendo. SUGAR recava scritto su un lato, dietro una sigla alfanumerica, null’altro. Inarcò le sopracciglia e la mise via. Il SUV si arrampicò fino al Cornajàss, Giacomo lo ringraziò per la vicinanza e ripartì mentre Giorgio si richiudeva la porta alle spalle.
Più tardi si recò nello studio. Rilesse un rapporto da inoltrare l’indomani a un cliente di Bra, salvò il lavoro su PC e si alzò per versarsi due dita di grappa di monovitigno di Nebbiolo per digerire le uova che si era preparato per cena, tornò alla scrivania e provò a fare una breve ricerca su internet riguardo il mondo dello zucchero.
Il sottobosco dei collezionisti era eccentrico e variegato. I collezionisti di bustine si dividevano in glicofili, ovvero coloro che collezionavano le bustine integre, contenenti ancora lo zucchero, e periglicofili, dove l’oggetto della loro ossessione si riduceva all’involucro. L’utilizzo e la diffusione delle bustine di zucchero era segnalato all’inizio del XX secolo, ma per lo zucchero pressato bisognava attendere la seconda guerra mondiale, riducendo così il campo della ricerca. Sospirò grattandosi la nuca. Provò a scorrere centinaia di immagini più o meno pertinenti variando chiave di ricerca e azzardando ricerche correlate che lo portarono più lontano di quanto avesse bisogno. Infine, col telefono, scattò una foto alla barretta e la condivise su un forum di appassionati. Dopo di ché spense il PC e si ritirò in lettura.
Giorni dopo, una sera che Giorgio stava dedicando alle sue ricerche in rete, ricevette un’email in risposta alla foto . Gli scriveva un monsü di Carmagnola appassionato di militaria, il quale gli spiegava che aveva idea di aver riconosciuto l’oggetto in questione, ma che avrebbe preferito esaminarlo di persona. Se non aveva impegni, la prossima domenica sarebbe stato presente col suo banco al mercato antiquario di Nizza Monferrato. Giorgio confermò.
Domenica mattina, piazza Garibaldi a Nizza Monferrato era affollata dall’eterogenea e curiosa umanità dei mercatini. Un sole ancora caldo in maniera rabbiosa abbagliava i banchi posticci adorni di bandiere e vecchi mobili, cassettiere e insegne di ferro battuto, appendini abbigliati da vestiti retrò, uniformi sbiadite, una parata di militaria varia, dal surplus russo e italiano a qualche cimelio ereditato dal nonno cavaliere di Vittorio Veneto fino alle massicce esposizioni di libri e dischi stipati nelle scatole delle banane saccheggiate ai supermercati. Giorgio aveva parcheggiato il Rover sullo spiazzo dell’U2 di via Fiume e si era recato a piedi infilandosi tra attempate pendole e servizi di piatti dai disegni psichedelici. Pochi trattavano. I piazzisti se ne stavano seduti all’ombra parlando col vicino in uno scambio di informazioni costante e particolareggiato. Mercati, acquirenti, scambi.
Il monsü carmagnolese gli aveva scritto che era piazzato vicino al Foro Boario con la sua esposizione di militaria della II Guerra mondiale. Lo riconobbe senza averlo mai visto. Un tizio robusto con bermuda mimetici, Doc Marten’s ai piedi e Ray-Ban a goccia, una folta barba sale e pepe e un codino ottenuto mantenendo caparbio i pochi capelli che aveva alla lunghezza sufficiente per legarli. Non si erano scambiati i nomi, perciò quando si avvicinò al personaggio in questione lo appellò col nickname che usava nel forum: “Patton61?”
L’altro si volse con un elmetto sotto al braccio; sul bicipite Giorgio distinse tatuata l’aquila degli alpini. Gli tese la mano: “Sugarcuriosity.”
“Oh, piacere.” Piazzò l’elmetto su una testa di polistirolo, in compagnia di altri copricapi, batté una manata sul cocuzzolo e glielo descrisse con orgoglio: “Bello, neh? Un M1 americano originale, sottoguscio in teflon, l’Uno rosso della divisione è sbiadito, ma distinguibile.”
“S’è fatto lo sbarco in Normandia?”
“Probabile, chi me l’ha venduto aveva il nonno che per sottrarsi alla prigionia americana in nord Africa aveva accettato di arruolarsi con gli alleati e da lì l’avevano spedito dritto a Omaha beach.”
“Sopravvissuto?” Giorgio si era infilato le mani in tasca e, sporto in avanti, esaminava l’elmetto, in apparenza integro.
“Colpi non ne ha presi,” concluse Patton61.
“Ecco qua,” tagliò corto Giorgio, estrasse la barretta dal taschino della camicia e la mostrò al collezionista. Patton61 si frugò nelle molteplici tasche della cacciatora fino a scovare una lente d’ingrandimento con la quale scrutò la bustina, annuiva piano tra sé, a labbra serrate.
“Oh sì, è zucchero pressato facente parte delle razioni K statunitensi. In produzione e distribuzione fino al 1944 con qualcosa come cento milioni di razioni.”
“Capito…”
“Volevi venderla? Ha un suo interesse collezionistico. Certo, se avevi il pacco completo era un altro discorso, ma un cinque euro te li posso dare.”
“Andata.”
Si strinsero la mano.
Rientrando da Nizza decise di ripassare a Costigliole. C’era un traffico confuso, come tutte le domeniche mattina, grazie al mercato in piazza Medici del Vascello. Sistemò il fuoristrada sullo spiazzo antistante il cimitero e raggiunse via Roma, dalla quale poteva vedere il castello imperare sul paese. Una piccola folla di turisti si stava accalcando sotto i portici che introducevano alla cantina dei vini per un tour degustativo. Poco prima, sull’altro lato della strada c’era la piccola sede della sezione costigliolese della Croce Rossa, l’ambulanza parcheggiata confermava la presenza dell’equipaggio di turno. Giorgio si avvicinò. Due soccorritori chiacchieravano appoggiati alla transenna che delimitava il marciapiede davanti alla sede. Uno lo conosceva per averci avuto a che fare durante un paio di emergenze.
“Ciao, Luca,” lo salutò. L’altro inarcò le sopracciglia dalla sorpresa e ricambiò con calore: “Oh! Giorgio, Giorgio Martinengo.”
“Come stai?”
“Di turno.”
“Tanto per cambiare.”
“Sei venuto a prendere del vino buono?”
“Ti vendo il nostro, se vuoi quello buono.”
“Ma compri anche da noi…”
“E certo.”
“Bravo ragazzo.”
“Avevo una curiosità e mi chiedevo se potevi aiutarmi a togliermela dalla testa.”
“Dimmi.”
“Andiamo dentro…”
Si lasciarono la confusione del paese chiudendo la porta a vetri. Luca andò a prendere posto dietro la scrivania del centralino e nella discrezione della sede rimase in attesa.
“Ho saputo che il nonno di Giacomo è morto in un incidente,” iniziò Giorgio.
Luca annuì: “Eh, sempre stato un testa di cazzo, il vecchio Luìs, sai com’è, no?”
“Lo so, lo so… quanti ce ne sono rimasti così?”
“Troppi.”
Martinengo annuì, poi chiese a bruciapelo: “Com’è morto?”
“Frattura cervicale. Ribaltandosi col trattore c’è rimasto sotto.”
“Un classico.”
“Già, un classico…”
“L’hai tirato fuori tu?”
“Sì, ero di turno con i due Beppe e Guido. Alpha era arrivata poco dopo di noi; il medico aveva constatato il decesso, così l’abbiamo sfilato da sotto il trattore, coricato in barella e coperto.”
Giorgio si figurò la scena mentre si distraeva dal resto. Luìs che arrancava, la mascella serrata, lo sguardo severo e determinato, il trattore che affrontava la riva. Una vita a muoversi su e giù per quel bricco, a curare, sorvegliare, respirare la vigna a tutte le ore, tutti i giorni, in ogni stagione… perché cascarci quella volta? Il fato, il destino? Una distrazione? Pensò d’un tratto che la sua deformazione professionale tendeva a viziare la visione del mondo in un’ottica intrisa di malafede; pensò che forse era ora che la smettesse di lasciarsi sommergere dalle brutture dell’umanità. Se ne sarebbe tornato sul Cornajàss, avrebbe messo su l’acqua per i ravioli al plìn freschi che aveva intenzione di comprare e si sarebbe bevuto un po’ di Dolcetto, per cambiare, e poi un pigro e profondo sonnellino pomeridiano. Ecco che cosa avrebbe fatto.
Si alzò salutando Luca. Gli strinse la mano e si avviò fuori.
“Mi sa che non aveva neanche fatto colazione, quell’ insensato di Luìs,” gli disse sull’onda di un ricordo estemporaneo. “In bocca aveva una zolletta di zucchero.”
Giorgio si raggelò sulla soglia.
Non andò a comprare i ravioli, saltò sul Rover e risalì fino alla cascina di Luìs. Fu accolto dall’abbaiare isterico di un tabuj color nocciola; il cagnetto tremava, ringhiava, avanzava di un passo e arretrava di due. Giorgio pensò per un momento che non gli sarebbe dispiaciuto avere accanto la presenza granitica di Buscafusco, ma il collega irregolare chissà dov’era. Fermò il fuoristrada nella còrt, scese chinandosi verso la bestia che abbassò le orecchie e lo annusò, diffidente; nello stesso momento uscì Giacomo che richiamò il tabuj, Giorgio si rialzò salutandolo e scusandosi per il disturbo, Giacomo minimizzò.
“Volevo sapere quando gli fate il funerale,” s’inventò.
“A giorni. Dopo il via della magistratura.”
“Giüst…” Poi si fece confidenziale, abbassò la voce a un sussurro e indicò un cenno verso la cascina: “E la vedova? Come sta?”
Giacomo scrollò le spalle, infilò le mani nelle tasche dei jeans e passeggiò allontanandosi dalle finestre, verso la rimessa dei trattori. Sotto, l’ombra era quasi fredda e da un grosso tamagnòn si avvertiva un intenso profumo di mosto.
“Il nonno non era una bella persona,” gli disse.
Giorgio lo ricordava burbero, di poche parole e con una luce ostile negli occhi, che non era una novità da quelle parti.
Giacomo sospirò: “Voglio dire, a volte un incidente può essere una benedizione per gli altri…”
“Ah sì, neh…”
“Anzi, Luìs l’ëra pröpi gräm. Un marito padrone, padre padrone e nonno padrone. Lui comandava e basta, veniva prima la vigna poi lui, tutto il resto in secondo piano.”
“Un uomo dei suoi tempi.”
“Arrogante e prepotente.”
“Quindi si litigava spesso e volentieri.”
Giorgio si ritrovò a pensare a suo padre e scosse il capo in un gesto sconsolato.
“E il giorno dell’incidente?” gliela buttò lì sforzandosi di non apparire troppo insinuante; Giacomo sollevò le spalle. “Eh! Con nonna e col barba, sempre questioni, sempre… Quella mattina perché non aveva sentito la sveglia e si era alzato tardi. Odiava saltare la colazione.”
E il barba si fece vivo sbucando non udito da dietro il portone: “Cousa jè?”
“Niente, niente,” cercò di liquidarlo Giacomo, ma Giorgio non riuscì a reprimere l’istinto: “Às parlava ‘d’Luìs…”
L’altro scosse il capo fissando il suolo sotto i suoi piedi. “Ï mòrt sòn mòrt,” sentenziò.
La durezza di un figlio verso il padre testimoniava come il tempo a volte scorresse in maniera differente fra i bricchi. Giorgio annuì, incrociò le braccia sul petto e chiuse la visita: “Una roba…”
“Eh?” Giacomo stava accompagnando lo zio verso la casa padronale.
“Mangiava molto zucchero Luìs?”
“Schersa nèn! L’erä diabetic!” gli rispose il barba.
Invece di rincasare, Giorgio tornò in paese. Attraversando via Roma riconobbe il maresciallo della stazione di Costigliole che stava chiacchierando con Luca davanti alla sede della Croce Rossa, maledisse di non avere un parcheggio a portata di mano e rallentò fino a fermarsi davanti ai due. “Scusatemi, parcheggio e arrivo, devo parlarvi,” annunciò urlando dal finestrino abbassato del passeggero. Il maresciallo gli indirizzò un’occhiata perplessa e annuì. Dietro, un SUV strombazzò per pretendere il passaggio negatogli in quei pochi secondi di parole. Giorgio sollevò la mano in segno di scuse e ripartì. Riuscì a infilarsi in un posto sotto piazza Medici grazie alla partenza di una Volvo station wagon e risalì la strada raggiungendo Luca e il carabiniere.
“Mi scusi, maresciallo,” anticipò stringendogli la mano.
“Il nostro occhio privato…” lo appellò l’altro. “Chiacchiere professionali?”
“Curiosità professionali,” precisò Giorgio. “L’incidente di Luìs… ve ne siete occupati voi?”
“Eh! Povero Luìs…Sì, noi.”
“E chi era il magistrato di turno?”
“Il dottor Leto, perché?”
“Ero curioso di sapere se ha disposto un’autopsia.”
“Qualcuno l’ha ingaggiata, Martinengo?”
“Veramente no…”
“Sbirro una volta, sbirro per sempre,” citò il maresciallo, sorridendogli.
“Certi tarli scaveranno sempre in testa,” ammise Martinengo.
Infine, i ravioli al plìn se li mangiò comunque, fermandosi al ristorante davanti alla Croce Rossa. Se li gustò con una bottiglia di barbera di rito, respirando l’atmosfera casalinga e la serenità tipica del locale, dopo, tornò a casa e telefonò alla dottoressa Temperino.
“Buona domenica, Martinengo” lo salutò il magistrato. “A cosa devo il piacere ?” c’era una velata ironia costante nel tono della donna, sottolineata dal leggero accento siciliano che anni di permanenza in Piemonte non avevano intaccato.
“Dottoressa… solo il piacere di sentirla e una curiosità da togliermi” ammise Giorgio.
Lei ridacchiò. “Direi soprattutto la seconda.”
“Cinquanta e cinquanta, giuro.”
“Va bene, spari.”
“Leto, un suo collega, lo conosce?”
“Certo che lo conosco.”
“Bene. Era magistrato di turno giorni fa, quando c’è stato un incidente mortale dalle mie parti. Mi chiedevo se riusciva a farmi sapere qualcosa di più a riguardo. Il morto era parente stretto di conoscenti…”
“Leto… posso informarmi, il collega credo che abbia un certo debole per me, sa?”
“Lo posso capire.”
Lei ridacchiò. “Le faccio sapere.”
“Gliene sono grato.”
Non si fece neanche la pennichella, quel pomeriggio. Scollinò ritornando a Costigliole, parcheggiò in una semideserta piazza Scotti e si recò nel vicino centro anziani dal quale poteva udire il vociare degli avventori impegnati in molteplici discussioni. Il nome glielo aveva suggerito Giacomo che, in qualche strana circonvoluzione di pensieri, gli aveva scritto un messaggio dove gli suggeriva di parlare con un certo Giuliano Mondo, che aveva fatto il partigiano assieme a Luìs. Giorgio non sapeva se Giacomo avesse alla fine pensato qualcosa di simile a quello che gli stava frullando per la testa, ma era certo che la segnalazione si incastrava alla perfezione nell’idea che gli si stava delineando in mente.
Entrando incappò in un tavolo animato da un’accesa partita a carte. Gli uomini discutevano, battevano manate sonore sul ripiano e ridevano; il suo arrivo passò del tutto inosservato finché non si decise ad approcciare un signore dalle guance rubizze che si era appena alzato per lasciare il gioco.
“Sì, c’è Giuliano,” fece e gli indicò un omone pelato col naso aquilino, seduto in disparte a leggere una rivista. Giorgio lo raggiunse e si presentò, l’altro grugnì un assenso, posò la rivista e, intrecciando le braccia sul petto, lo fissò in attesa.
“Mi sto interessando alle storie partigiane di casa nostra,” spiegò Giorgio sedendoglisi vicino.
“Ce n’è da contare…”
“Ecco. In particolare mi interessava sapere come funzionava la logistica dei reparti partigiani…”
“Logistica?”
“Sì, gli approvvigionamenti, armi, munizioni, equipaggiamento…”
“Oh, sant’arrangiati! Tenevi l’uniforme se venivi dall’esercito, altrimenti i vestiti per la caccia o quel che avevi, mangiare si mangiava quando capitava e grazie alla pietà dei contadini e se non c’era la pietà ce lo si prendeva, ché a pancia vuota mica si combatte… si rubava anche ai nemici e poi c’erano gli aiuti degli alleati.”
“Come?”
“Avio lanci. Periodicamente passavano degli aerei e, se non li abbattevano, ci lanciavano dei siluri di metallo pieni di roba: razioni, armi, munizioni, generi di prima necessità. Qua i partigiani avevano un campo vicino a Isola.”
Giorgio prese appunti, poi posò l’agenda sulle ginocchia, si fece circospetto e sussurrò: “Zucchero?”
L’altro gli indirizzò uno sguardo sornione. “Valeva,” rispose.
“Quindi?”
L’altro sbuffò guardandosi attorno, si piegò verso Giorgio: “Dove vuole arrivare?”
“A Luìs.”
“Un’altra storia per sputtanare la guerra partigiana?”
“No no no. Nessun intento negativo, mi serve per capire perchè Luìs si è messo a mangiare cubetti di zucchero col suo diabete, ammazzandosi. ”
L’altro abbassò gli occhi, scosse il capo.
“Era una testa di cazzo, ma era furbo. Tutti noi della compagnia lo sapevamo che il carico mancante se lo era preso lui. Tre contenitori interi tutti di zucchero. Una stranezza. Secondo me aveva fatto un accordo sottobanco con l’interprete, che era un ragazzo di Alba che parlava l’inglese come gli inglesi ed era quello che manteneva i contatti radio. Di solito mandavano razioni, pacchi di razioni K, e dentro c’era anche lo zucchero in barrette pressate. Mai visto un carico solo di barrette.”
“Mercato nero?” suggerì Giorgio.
“Ah, sicür! Però soldi alla causa ne aveva dati.”
“Un modo per pulirsi la coscienza?”
“Sì.”
Ritenne che non ci fosse altro da chiedere e la risposta ermetica di Mondo fu il suggello alla fine della conversazione; lo ringraziò e lasciò di corsa il centro anziani deciso ad andare a trovare la vedova.
Risaliva verso Santa Margherita quando la Temperino lo chiamò. Inserì il vivavoce , lusingato dalla pronta risposta.
“Ho voluto subito togliermi il pensiero, Martinengo” lo informò la donna.
“Certo che sono un bel tormento, dottoressa” ammise lui, calcando un tono colpevole che sotto sotto sentiva sul serio. “Un bel giorno mi lascerà perdere” aggiunse. Decise di mettere la freccia e fermarsi sul ciglio della strada per parlare senza distrazioni.
“Per lasciare devo prima prendere, Martinengo,” rispose lei. “Comunque, ho dovuto fare il primo passo e chiamare Leto, sono stata sul generico, altrimenti chissà che cosa si metteva in testa; il nostro magistrato ha aperto un fascicolo contro ignoti e ha disposto un’autopsia senza incidente probatorio. Dovrebbe avere i responsi a inizio settimana. Contento?”
“Come ogni volta che la sento,” le disse, le labbra gli si incurvarono in un sorriso soddisfatto e subito ritornarono orizzontali. “Il soccorritore che è intervenuto per primo sul luogo dell’incidente mi ha riferito che il medico aveva confermato il decesso per frattura della cervicale…”
“Ma? Ormai la conosco, Martinengo, c’è qualcosa che non le torna e mi diventa inquieto come un adolescente in amore.”
“Faccia sognare ancora una volta il dottor Leto e domani gli chieda i risultati dell’autopsia, sono quasi del tutto certo che avranno riscontrato qualche elemento che testimonierà le conseguenze di un coma iperglicemico.”
“Prendo nota,” rispose la Temperino.
“Ci risentiamo,” la salutò Giorgio rimettendo in moto.
Stava per immettersi sulla strada, quando una Punto dei Carabinieri passò a velocità sostenuta. “Touché”, pensò mentre seguiva la pattuglia.
Sospirò. Il petto gonfio d’ansia mentre si avvicinava alla cascina di Luìs.
Il cellulare suonò ancora. La Temperino. Giorgio accostò in vista della cascina, i Carabinieri erano entrati in cortile.
“Pronto.”
“Martinengo, lei ha la fortuna degli sfacciati.”
“Gli sfacciati non hanno fortuna: sono sfacciati,” rispose scendendo dal Rover.
“Le va solo bene perché sono abile a eludere gli agganci,” lo rimproverò. “Leto voleva passare dal caffè alla cena, per queste informazioni.”
“E come ha svicolato?”
Ridacchiò sorniona: “Non lo saprà mai.”
“Non importa,” scrollò le spalle e si fermò sull’ingresso, davanti al cancello di ferro battuto.
“Non so come, ma aveva ragione, Martinengo…”
Udì un frusciare di carta.
“Dunque, hanno eseguito l’autopsia in settimana e il patologo ha riscontrato delle irregolarità analizzando le urine residue. Ph elevato e presenza di glicati. Elementi compatibili con uno stato comatoso iperglicemico. Perciò la nostra vittima ha avuto l’incidente per un malore…”
“Provocato,” aggiunse Giorgio
“Mi dovrà spiegare, una volta o l’altra.”
Giorgio sorrise: “Una volta. Mi scusa? Richiamo stasera.”
“Chiamo io quando posso,” ribatté lei.
“Naturalmente,” chiuse Giorgio. Chissà quando l’avrebbe risentita.
C’era un carabiniere in attesa nella còrt, guardava il cellulare appoggiato all’auto di servizio. Sollevò lo sguardo appena lo sentì arrivare e Martinengo gli indirizzò un saluto, il militare ricambiò e con un cenno del capo gl’indicò la casa padronale: “Il maresciallo è dentro.”
“Ah.”
“Non è una visita di cortesia.”
“Lo immaginavo.”
“Lo desiderava?”
“Veramente volevo parlare con la vedova.”
Il carabiniere lanciò un occhio alla casa: “Non so come la prenderà il maresciallo.”
“Mi conosce e non disturbo mai.”
Il militare lo accompagnò fino all’uscio, bussò piano e aprì. Giorgio entrò.
Il maresciallo era seduto nel tinello, davanti a lui c’era tutta la famiglia ; quando si voltò e lo riconobbe, sorrise scuotendo la testa: “Lo sapevo che arrivava, Martinengo.”
“Sbirro una volta, sbirro sempre,” lo citò. Infilò le mani in tasca e rimase in disparte, mentre il maresciallo proseguiva: “Dicevo che, secondo gli inquirenti, c’è qualcosa che non quadra nell’incidente.”
Giacomo e lo zio tacevano, il primo con sbalordimento, l’altro con gli occhi fissi sul ripiano del tavolo; dietro di loro, seduta in un’immobilità caparbia, la vedova, la mascella serrata.
“Luigi aveva il diabete, abbiamo sentito il suo medico curante, doveva stare alla larga da ogni granello di zucchero che poteva incrociare sulla sua strada, eppure, quando è arrivata l’ambulanza i soccorritori gli hanno trovato la bocca piena,” proseguì il sottufficiale. La voce era calma, ferma. Giacomo aveva la bocca socchiusa dallo sbalordimento, suo zio non aveva mosso un solo muscolo del volto.
“Ammetterete che è strano, no?” incalzò il maresciallo senza mutare la voce.
“Era goloso fino alla stupidità,” disse Giacomo. “Tenevamo tutto sotto chiave, non posso credere che si sia procurato delle zollette. La scorta della guerra è ancora giù, in cantina, dentro quei siluri che lanciavano dagli aerei…”
Il carabiniere annuì. “Ecco. Proprio perché avevate tutte queste precauzioni io mi chiedo: ma come cazzo ha fatto a riempirsi di zollette e andare a lavorare?”
“Avete ancora i contenitori in cantina?” domandò all’improvviso Giorgio. Aveva una cosa in testa che non riusciva a incastrare come voleva. Guardò Giacomo: “Me li fai vedere? Posso, maresciallo?” Il sottufficiale lo guardò come si guardava un bambino noioso e gli fece un cenno per toglierselo di torno.
I due uomini si alzarono e lasciarono il tinello.
Giacomo lo portò dietro la scala dell’ingresso, aprì una porticina e accese fioche luci a incandescenza. I gradini erano ripidi, di pietra grezza, l’alito fresco della cantina accarezzava con un tocco vago, ma ben presente. Gli fece strada senza parlare, scendendo fino in fondo e addentrandosi tra le volte di mòn rossi e pieni in una specie di labirinto rannicchiato sotto la cascina. Oltre una sala che presentava uno schieramento impeccabile di barriques c’erano i contenitori, tre siluri scuri appoggiati ai basamenti delle botti e chiusi con robusti lucchetti. Giacomo frugò nei jeans, estrasse un mazzo di chiavi e li aprì uno dopo l’altro, mostrandogli le scatole dell’esercito statunitense sistemate sul fondo. Giorgio pescò un cubetto, lo esaminò trovandolo identico a quello che si era portato via una settimana prima. Lo posò di nuovo e inspirò forte.
“Fate confessare il barba, neh?”
“Cosa dici?”
“Bel sangue freddo, ma si capisce lo stesso che si sta preparando…”
“Non scherzare su queste cose, Martinengo.”
“E chi scherza? Tuo zio ha l’espressione di uno che deve andare al patibolo. Confesserà lui che ha preso le zollette e ‘se l’è dimenticate’ sul tavolo in cucina. Luìs aveva fretta ed era incazzato nero perché si era alzato tardi, dato che la sveglia non aveva suonato, neh?”
“Succede…”
“Specie quando si vuole.”
“Tu…”
“Io cosa? Avete detto tutto voi: a volte un incidente può essere una benedizione. L’incidente non arrivava e allora tanto vale dare una mano.”
Giacomo si strinse nelle braccia, torvo, le labbra serrate.
“Per cosa? La terra, l’azienda, era già tutto tuo… oh!” Giorgio si azzittì, guardò fisso Giacomo e le due lacrime che gli stavano rotolando sulle guance.
“Aspetta… Non era una tua idea, neh? E nemmeno del barba…”
L’altro scosse forte la testa.
“Lei?”
Annuì strizzando gli occhi.
“Lei…” ripetè Giorgio in un sussurro. Una misura che si era colmata dopo una vita, una sopportazione che aveva raggiunto l’apice proprio quando la parabola dell’esistenza stava tramontando: si era davvero tutti figli di Caino, alla fine.
Emersero dalla cantina quando il maresciallo si stava alzando. Il barba aspettava con una borsa in mano, fermo come uno scolaretto terrorizzato dal primo giorno di scuola, l’altro carabiniere al suo fianco. La vecchia non si era schiodata dalla sedia, immobile nel corpo, nello sguardo e nella mente. Giorgio la fissò. Provò a immaginarsi come tanta durezza si fosse calcificata attorno al suo cuore, a quale fredda accettazione sapesse giungere, osservando il figlio che stavano arrestando. Il maresciallo si bloccò sull’uscio e corrugò la fronte: “Martinengo?”
Giorgio diede una pacca a Giacomo che tirò su col naso.
“Il mio amico avrebbe ancora qualcosa da dire sulla faccenda” disse l’investigatore.
Giorgio ripensò spesso al destino di quella famiglia. Odio e sofferenza si erano spalmati lungo tre generazioni fino a un epilogo che, sebbene agli occhi della legge si riassumeva in un omicidio, negli occhi dei coinvolti era infine una forma estrema di autodifesa. Il mondo di Giacomo era entrato in una sorta di loop dal quale era davvero arduo affrancarsi, non dopo aver fatto una precisa scelta di vita. Il nonno, con la sua fortuna costruita sullo zucchero di guerra, continuava a essere un demone che estendeva la propria autorità su tutto: familiari e terra. Il silente accordo aveva trovato implicita approvazione fino a costruire una trappola intessuta nel quotidiano. La sveglia che non era suonata per tempo, la rabbia del vecchio per il ritardo, la solita, estenuante lite con la consorte, col figlio, col nipote. Lo zucchero lasciato in vista sul tavolo. Il resto era normale decorso fino al provvidenziale incidente. C’era un senso di agghiacciante logica e comprensione in Martinengo, man mano che ricostruiva quella piccola immensa tragedia di collina e la difficoltà a collocare, ancora una volta, quel che era giusto e quel che era sbagliato nel quadro dell’esistenza.


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