“Un tappo nelle nuvole” di Cynthia Collu


 

Tommaso si stava annoiando. Il sole era già alto e lui cominciava ad aver fame. Quanto ci mettevano, questa volta?
Si ficcò le mani nei pantaloncini da bagno ed esaminò il castello di sabbia davanti a sé. Aveva retto bene durante la notte, solo la merlatura della torre era crollata. Ci cacciò dentro un piede e poi lo sollevò di forza. La torre franò all’istante e i contrafforti del castello caddero miseramente. Tommaso prese un legno e con quello finì di abbattere la costruzione, poi livellò per bene la sabbia; infine si lasciò cadere a terra supino. Allargò le braccia e le ruotò come se stesse nuotando a dorso. Una nube di minuscoli granelli riempì l’aria pungendogli il viso.
Si alzò per esaminare la figura che aveva disegnato per terra. L’angelo non gli era riuscito bene, la testa e il corpo erano troppo esili e un’ala, quella destra, era più piccola, come rattrappita. Tommaso si grattò un gomito poi, con un sospiro, si lasciò cadere di nuovo all’indietro.
Restò immobile a fissare il cielo. Era terso e luminoso come il mare che aveva davanti – solo due nuvole solitarie lo attraversavano. Tommaso seguì con lo sguardo la più lontana. Sembrava promettere bene. Cambiava aspetto con una lentezza esasperante, ma lui non aveva fretta, finché le persiane della sua camera non si fossero aperte aveva tutto il tempo che voleva.
La nuvola era di forma ovale; al centro, uno sprazzo di cielo azzurro premeva per guadagnare spazio. Tommaso socchiuse gli occhi e aspettò. Lentamente la macchia azzurra aumentò di volume, e la nuvola assunse l’aspetto di un cerchio concentrico. Certo, non era un anello perfetto come quelli che formava suo padre col fumo delle sigarette, ma per lui andava bene ugualmente.
Prese dalla tasca una pistola immaginaria e mirò il buco. “Pum!”, sussurrò. “Pum, pum!”
Ripose la pistola nella tasca e aspettò.
La nuvola non si scompose. Tommaso chiuse gli occhi e si figurò di avere tra le mani un tappo immenso. Con quello avrebbe tappato il buco nella nuvola, e la macchia azzurra sarebbe finalmente scomparsa. Certo, se ci fosse stato lì suo padre non avrebbe avuto bisogno del tappo, suo padre era un gran tiratore, avrebbe sparato diritto nel cuore della nuvola, e l’avrebbe dissolta.
Tommaso sbuffò. Si voltò sul ventre per guardare la casa. Le persiane della sua cameretta erano sempre serrate. Per un po’ le osservò cercando di spalancarle con la forza dello sguardo, poi, con un gesto di stizza, tornò a fissare il cielo.
Una volta suo padre aveva estratto la pistola davanti a lui. Con la sigaretta aveva formato un anello di fumo – un cerchio quasi perfetto che si muoveva pigramente verso Tommaso –  poi aveva mirato al cuore dell’anello. “Pum!”, aveva esclamato, e ridendo aveva riposto la pistola nella fondina. Tommaso c’era rimasto male. Aveva sperato che suo padre sparasse, spesso gli sentiva dire che aveva una mira infallibile, che durante una rapina alla banca aveva estratto la pistola e con un colpo solo aveva centrato la gamba del criminale in fuga.
Mise la mano al fianco e accarezzò la pistola, indeciso se provarla ancora contro la nuvola. In quel mentre un rumore lo fece voltare: le imposte della sua camera, con un colpo secco, erano state aperte.
Si alzò e attese. Poco dopo un uomo apparve sulla soglia di casa; era di corporatura minuta, aveva i capelli radi e lo stomaco prominente. Scorse Tommaso e gli fece un cenno di saluto. Tommaso rimase immobile. L’uomo mise una mano in tasca e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne accese una e fece uno sbuffo di fumo.
Pum, pensò Tommaso.
“Ehi, piccolo, vieni qua!”  Tommaso esitò. “Vieni, dài, di che hai paura?“
Tommaso mise un braccio dietro la schiena e si grattò adagio una scapola. Sporse in fuori il ventre e si dondolò sui talloni, in attesa che l’altro rinunciasse a parlargli e se ne andasse.
“Come ti chiami?” continuò l’uomo. Tommaso rifletté se era il caso di dirglielo. Con gli altri non gli era mai capitato di dover intrattenere una conversazione.
“Tommaso”, disse alla fine.
“Tommaso, vieni qui che ho una cosa per te.”
Tommaso pensò che se lo accontentava se ne sarebbe andato via prima. Gli si avvicinò tenendo sempre il ventre ben teso per dimostrargli che non aveva paura di lui.
Da vicino l’uomo era meno antipatico. Gli occhi azzurri sorridevano cordiali, e la faccia piena di rughe era più interessante di una carta geografica. Tommaso alzò il viso, guardandolo dritto negli occhi. L’uomo scoppiò a ridere.
“Tieni, ometto”, disse. Mise una mano in tasca e ne tirò fuori un lecca-lecca gigante a forma di Gatto Silvestro. Tommaso spalancò gli occhi. “Si può mangiare?”, chiese. L’uomo rise ancora. “Si può mangiare tutto. Baffi compresi.”
Finì di fumare e spense la sigaretta sotto i piedi. “Ciao, piccoletto”, disse, “spero di vederti ancora.” Gli strizzò l’occhio e si avviò verso la macchina parcheggiata poco lontano. Era una vettura sportiva, in vernice metallizzata color argento. Tommaso ascoltò il rombo del motore che si avviava, poi osservò l’automobile fare retromarcia e immettersi nello svincolo davanti a casa. La seguì ancora con gli occhi finché non la vide sparire dietro a una curva. Ficcò in tasca Gatto Silvestro ed entrò in casa.
Passò velocemente davanti alla camera matrimoniale. A lui non sarebbe piaciuto dormire in quella stanza; dalla grande finestra si vedevano la macchia mediterranea estendersi a perdita d’occhio e, in lontananza, le montagne con le rocce a forma di scultura. A lui non piacevano le montagne, né le rocce dalla forma inquietante. La sua camera invece dava sulla spiaggia. A lui piaceva addormentarsi con il mare accanto. Anche sua madre voleva stare lì quando doveva incontrarsi con gli uomini. Una volta gli aveva detto che da quella finestra poteva vederlo e segnalargli il momento del rientro ma Tommaso era convinto che anche lei preferisse stare lì per il mare.
La porta del bagno era aperta. La madre si stava rivestendo e gli dava le spalle. Tommaso vide che aveva una calza smagliata, e per un attimo pensò di dirglielo. Poi si allontanò silenziosamente ed entrò nella propria stanza.
Il letto era sfatto, le lenzuola giacevano in parte a terra, in parte ammucchiate accanto al cuscino. Tommaso si avvicinò, considerandole assorto per qualche minuto, poi allungò una mano.
“Che fai? Non toccare!”
La madre era sulla soglia e lo fissava con disgusto.
“Invece di star lì come uno scimunito vieni in cucina a darmi una mano! O forse non hai fame?”
Tommaso alzò gli occhi, trasognato, e per un attimo sembrò considerare anche lei come parte dell’arredo. “Ho tantissima fame, mamma”, disse infine.
“Allora fila subito in cucina”, ribatté la madre.
Si voltò per uscire ma poi cambiò idea. “Il letto te lo sistemo dopo”, disse in fretta.
Alla parola letto il suo tono era cambiato, c’era stato un singulto, quasi un intoppo della lingua, poi la voce si era ammorbidita. Ma a Tommaso non era sfuggito l’inizio di balbuzie.
“Non m’importa”, le rispose. Voleva dirle che a lui non interessava il letto disfatto e la camera in disordine, che tutto andava bene lo stesso, ma la madre fraintese. “Che vuol dire che non t’importa? E invece ti deve importare, devi tenerci all’ordine. Hai sei anni, ormai!”
Si guardò nervosamente in giro poi, dopo un’ultima occhiata alle lenzuola, si allontanò in fretta. Tommaso le trotterellò dietro. Fissava la calza smagliata, indeciso ancora una volta se avvertire la madre. Lei ci teneva moltissimo ad essere in ordine, ma dopo l’accenno di balbuzie Tommaso temeva la sua reazione. Ogni volta che gli uomini lasciavano la casa diventava nervosa, poi, d’un tratto, iniziava a balbettare. Sembrava che la balbuzie le procurasse molta sofferenza, perché improvvisamente diventava cattiva, diceva cose terribili il cui senso in gran parte sfuggiva a Tommaso, ma che lo lasciavano sempre pieno di vergogna.
In cucina aprì il cassetto della credenza e osservò le posate, riflettendo su quante ne doveva prendere. Prima c’era stato quell’uomo, quindi era probabile che il padre non venisse a pranzo; ma la madre non aveva accennato niente al riguardo. Alla fine si risolse a tirare fuori tre forchette e tre coltelli. Li appoggiò sul tavolo, salì su una sedia, aprì lo sportello della credenza e ne estrasse tre piatti, e con quelli tra le mani scese, prestando attenzione a non cadere.
La madre gli gettò un’occhiata di sfuggita.
“Oggi tuo padre non viene a pranzo”, disse. Gli tolse dalla mani un piatto e lo ripose nella credenza. Poi prese forchetta e coltello e velocemente li fece sparire in fondo al cassetto.
Tommaso non replicò. Sperava solo che lei non iniziasse a balbettare.
La madre si fissò la gonna sgualcita e con un gesto nervoso ci passò sopra le mani. Poi si rassettò la maglietta. Mentre si dava un colpetto veloce sui seni arrossì.
“Oggi ti preparo le patatine fritte”, disse senza guardare il figlio, “sei contento?”
Lo sguardo finalmente si fermò su di lui, come a chiederne l’approvazione.

 

Tommaso guardò il cielo. Il sole stava per nascondersi dietro le montagne e presto sarebbe diventato buio. Diede l’ultimo colpo di paletta al castello e si sollevò, esaminando con circospezione la torre. Sembrava solida, avrebbe retto bene durante la notte.
Tese un piede e ne saggiò la resistenza. Sì, poteva andare. Con un sospiro piantò il manico della paletta davanti all’entrata del suo maniero. Sarebbe stata un ottimo baluardo contro gli attacchi del nemico.
Era proprio un bel castello, le finestre della prigione erano costruite con rametti di ginepro, e dieci ossa di seppia correvano lungo la base delle mura, rafforzandole. Tommaso gonfiò il petto. Avrebbe mostrato il suo lavoro al padre, che sarebbe stato orgoglioso di lui.
Prese il secchiello e si avviò verso casa. In quel mentre si accorse che la madre era affacciata alla finestra e che lo stava fissando. Si fermò e si grattò pensieroso una natica, poi fece oscillare il secchiello avanti e indietro. Forse, se glielo avesse chiesto, lei sarebbe uscita ad ammirare la sua opera. La madre distolse lo sguardo e Tommaso si decise a percorrere i pochi metri che lo separavano da casa.
Notò subito che non indossava più le calze smagliate. Si era cambiata anche la gonna e si era raccolta i capelli sulla nuca. Il padre la preferiva così, ma spesso la madre si presentava a tavola senza essersi neanche pettinata. Però, dopo aver incontrato gli uomini, lo accontentava. Si pettinava con cura e si metteva persino un rossetto pallido sulle labbra. Questo consolava Tommaso per aver dovuto lasciare la sua camera a degli estranei.
“Papà ha telefonato che arriverà per cena”, disse d’un tratto la madre continuando a guardare fuori della finestra.
Una pausa.
“Ricordati che non devi dirgli niente del signore che è venuto oggi.”
“Sì”, disse Tommaso.
“E’ un segreto tra noi due, ricorda.”
“Sì”, ripeté Tommaso. Glielo diceva sempre, tutte le volte che gli uomini venivano. Sempre la stessa frase.
Lei sembrò non credergli, perché subito proseguì. “Il lavoro che sto facendo durerà ancora un po’, poi magari riesco a lasciarlo. Ancora un po’, e la finisco. ”
Tommaso questa volta non disse niente.
La madre si girò finalmente a guardarlo. Sembrava spaventata da qualcosa.
“Non dirò niente”, rispose in fretta Tommaso.
Incrociò le dita, le portò alle labbra e con aria solenne le baciò.

Quella notte lo svegliò il pianto della madre. Piangeva a tratti, lamentandosi come un animale ferito. Il padre le parlava con rabbia, a voce bassa, ma nel silenzio ogni parola ingigantiva e arrivava nitida alle orecchie di Tommaso.
“Non mi vuoi più toccare”, diceva la madre, “ti faccio schifo.”
“Smettila. Lo sai che non è per quello.”
“E allora, perché non proviamo?”
“E’ tardi. Voglio dormire.”
“Una volta non mi avresti detto ch’era tardi. Ti faccio schifo.”
“Smettila, sono stanco. Voglio dormire.”
“Sono diventata orribile.”
“Basta. Tu sei fissata.”
“Davvero? Sono sei mesi che non facciamo niente.”
“E’ un periodo così. Può succedere.”
“Solo a te succede.”
“Che vuoi dire?”
“Niente.”
“Che vuoi dire? Parla!”
“Le mie amiche. Ai loro mariti non succede mai.”
“Hai parlato di questo alle tue amiche?”
“No. Ma loro raccontano.”
“Se scopro che hai fatto una cosa simile io ti rovino. Mi capisci? Ti rovino!”
La madre riprese a piangere. Un  mugolio sordo interrotto da brevi singhiozzi. Tommaso si tappò le orecchie. “Smettila“, pensò.
“Allora è perché ho abortito. Dillo che è per quello.”
“Basta.”
“Non ce l’avrei fatta con un altro figlio.”
“Non ti accuso di niente.”
“Tu lo volevi.”
“Non ti ho mai accusata di niente.”
“Dopo l’aborto non mi hai più cercata.”
“Basta. Sono stanco.”
“Sei un vigliacco. Dillo una buona volta che è per quello che non mi cerchi più.”
Il padre non rispose. Tommaso sentì le molle del materasso che cigolavano, lo scatto dell’interruttore, poi l’odore della sigaretta accesa arrivò fino a lui. Immaginò il padre formare un enorme anello di fumo. Prese la pistola al suo fianco e mirò.
“Va bene. Parla, se ne hai voglia. Almeno dopo potrò dormire.”
“Non potevo farcela con un altro figlio.”
“Invece con questo ce la fai.”
“Sei cattivo.”
“Volevi abortire anche di lui.”
“Sei cattivo.”
“Volevi liberarti. Per fortuna Tommaso è qui.”
“Non capisci. E’ orribile vedersi deforme.”
“Tu sei malata.”
“E’ orribile sentire che un altro occupa il tuo corpo.”
“Smettila. Non eri così solo in gravidanza.“
Di nuovo una pausa. Poi il padre disse, “Non ti ho mai visto dargli una carezza.”
La madre non rispose. Ci fu un lungo silenzio, poi il padre riprese.
“Non è solo per l’aborto.”
Ancora silenzio, poi per la seconda volta le molle cigolarono. Tommaso riconobbe il respiro affannato della madre che si alzava. Udì dei suoni attutiti, come pugni dati sul materasso, poi qualcosa sbatté provocando un violento rumore. Un grido. Di nuovo rumori soffocati. Tommaso immaginò i genitori lottare silenziosamente mentre cercavano di colpirsi a vicenda. D’un tratto il padre lanciò una bestemmia. Ci fu una pausa, poi la madre urlò.
Di nuovo silenzio.
Tommaso scese con circospezione dal letto e uscì in corridoio. La camera matrimoniale era proprio davanti alla sua. Rimase immobile a guardare il vano della porta, con le orecchie tese. Dapprima udì solo il battito del suo cuore, poi riconobbe il ticchettio del grande orologio appeso al muro. Fruscii di animali nella macchia. Latrati di cani in lontananza. Nient’altro.
Si allontanò proseguendo sino in cucina. Nel locale c’era pochissima luce, ma lui andò con sicurezza verso una sedia appoggiata contro il muro; sopra, sistemata con cura, c’era la divisa del padre.
Vide subito la pistola; penzolava dallo schienale, all’altezza della giacca. Tommaso si grattò con forza un braccio, poi di scatto allungò la mano.
Sentì le strisce di cuoio sfuggirgli, viscide, e lo spazio tra le sue dita si ridusse, rivelandogli che la custodia era vuota. Si pulì in fretta la mano sudata sui pantaloni. Poi rifletté. Non aveva udito nessuno sparo provenire dalla stanza dei genitori, solo il grido della madre.
Ritornò davanti alla camera matrimoniale e si mise in ascolto. Il silenzio si fondeva monotono con i rumori della casa, ma nessuno di questi gli rivelava la presenza dei genitori. Riprese a sudare, un velo denso e umido gli appiccicò la carne alle mutande, procurandogli fitte di bruciore.
Com’ra la preghiera che gli aveva insegnato la nonna? Era stato un po’ di tempo prima, quando la madre era andata in ospedale e il padre non aveva potuto tenerlo con sé. Corrugò la fronte, nello sforzo di ricordare.
Angelo di Dio, che sei il mio custode… governa e proteggi me…
Udì il cigolio del materasso e la madre che riprendeva a piangere, e d’un tratto il bruciore tra le cosce diventò insopportabile. Si toccò i pantaloni e si accorse di averli fradici di un liquido ancora caldo.
Ai suoi piedi c’era una larga pozza di pipì. Un rivolo si era già incuneato nella fessura di una piastrella e puntava, lento, verso la camera matrimoniale.

 

L’indiano dall’aria feroce precipitò dal letto. “Morte ai visi pallidi”, gridò. Impugnava un tomahawk affilato che lanciò sulla testa di un soldatino in giacca blu. Il viso pallido emise un gemito agghiacciante. “Maledetto pellerossa, non avrai il mio scalpo”, sibilò prima di morire.
“Tommaso”.
La figura della madre si stagliava imponente contro il vano della porta. Teneva le braccia conserte, e con le dita tormentava le maniche della camicia.
“Più tardi viene un signore per darmi un lavoro.”
“Aagh, muoio!” strillò il viso pallido di colpo resuscitato.
“Tommaso, hai capito quello che ti ho detto?”
Il viso pallido si trascinò sul pavimento, prima di finire stecchito col fucile puntato al cielo.
“Tommaso… ”
“Fuori fa caldo”, disse Tommaso.
“Si tratta di un lavoro veloce. Una mezz’oretta e ho finito.”
“Anche ieri sono uscito.”
“Oggi mi sbrigo.”
“No”, disse Tommaso.
La madre impallidì. “Che ti prende, è una cosa importante.”
Tommaso non le rispose. Afferrò l’indiano per il copricapo e lo fece saltellare intorno al cadavere del viso pallido. “Augh! Ora Bufalo zoppo avrà finalmente il tuo scalpo.”
“Da bravo, Tommaso. Si tratta solo di una m-mezzora.”
Tommaso non disse niente. Teneva l’indiano premuto con forza sul soldatino morto, e aspettava.
“Tommaso, guardami in faccia quando ti p-parlo!”
Gli si parò davanti e Tommaso abbassò il capo, aspettandosi  la sberla.
“Smettila”, disse lei “non ti tocco. P-prometto che non ti tocco più.”
Per tutta risposta Tommaso si rannicchiò, proteggendosi la testa con le mani. La madre mandò un grido di rabbia, poi lo colpì. La prima sberla gli urtò di striscio il braccio, la seconda gli prese in pieno la mano con cui si proteggeva la nuca. L’urto lo gettò a terra. La madre gli fu addosso.
Lo sovrastava, enorme, le spalle ampie, i seni pesanti si sollevavano e abbassavano veloci sopra di lui.
“Non sopporto che mi sfidi!”, gli disse con un singhiozzo.
Tommaso avrebbe dovuto dirle “scusami mamma”, era l’unica cosa che aveva sempre funzionato, ma quella volta le parole non uscirono. La madre alzò di nuovo il braccio e lui si morse le labbra per non gridare.
Invece di colpirlo cominciò a strattonarlo. “Mi hai rovinato la vita”, gridò, “da quando sei nato non faccio che litigare con tuo padre. E’ per colpa tua se sono ridotta così!”
Lui non aprì bocca. Se si fosse messo a gridare, o peggio, a piangere, la madre avrebbe perso del tutto il controllo. Quando le succedeva lo picchiava in maniera metodica, sbuffava e tirava colpi, uno sbuffo e un colpo, un altro sbuffo e un altro colpo, a volte si allontanava, faceva un giro su se stessa, poi tornava e lo colpiva, si allontanava ancora, sembrava riflettere, poi gli era di nuovo addosso. Tommaso non aveva paura dei colpi, non erano mai così forti da lasciargli brutti segni. Era lo sguardo della madre che lo terrorizzava. In quei momenti sembrava indifferente.
Il telefono squillò. La madre s’irrigidì, poi uscì correndo dalla stanza.
Lui rimase immobile per qualche istante, poi si mosse alla ricerca del viso pallido. L’aveva perso durante la caduta, mentre il pellerossa lo teneva stretto in pugno. Vide il soldatino poco lontano, il fucile sempre puntato contro il cielo, e lo afferrò. Poi, usandolo a mo’ di sasso, cominciò a picchiare furiosamente l’indiano. “Ti massacro”, disse, “vi massacro tutti.”
Continuò a picchiare finché il fucile di plastica non si ruppe; allora prese l’indiano e lo batté contro il soldatino. Colpiva, allontanava il pellerossa, sbuffava, e di nuovo tornava a colpire. “Cattivo”, disse al viso pallido, “volevi liberarti.”
Si accorse solo allora che la madre era rientrata e lo stava fissando con gli occhi lucidi. “Era tuo padre al telefono”, gli sussurrò. Si tormentò una manica, poi si mise a piangere silenziosamente. “Perdonami”, disse.
Tommaso attese. Quella era una novità che non sapeva come valutare.
“Tu non hai colpa di niente”, continuò la madre. Si sfregò le mani e poi le ficcò nelle tasche della gonna.
“Una volta tuo padre mi portava fuori ogni sera. Andavamo al cinema, a ballare. Poi, con te, non è stato più possibile.”
Agitò una mano nella tasca. “Qui viviamo così isolati”, mormorò.
Alzò di scatto la testa e disse con forza, “Scusami, sono una disgraziata.
Poi lo guardò con occhi strani. “Se vuoi, oggi posso rimandare il lavoro. Posso rimandarlo per sempre.”
“No, non m’importa. Quando tu vuoi, io esco”, rispose in fretta Tommaso.
La madre sbatté appena le palpebre, sembrò considerare con attenzione ogni parola, poi assentì adagio. “Mi sbrigherò presto”, disse debolmente, “e dopo ti preparerò qualcosa di buono. Li vuoi i calamari fritti?”
Tommaso rispose di sì con un cenno del capo.
“Li vuoi. Piacciono tanto anche a tuo padre. Chissà, forse oggi riuscirà a tornare per pranzo.”
Tommaso alzò gli occhi, stupito. E l’uomo?, pensò. Lei sostenne il suo sguardo. “Mi ha appena telefonato che un collega potrebbe dargli il cambio, non lo sa ancora. Forse ci farà una sorpresa.”
Improvvisamente sembrò stanchissima. Si avvicinò alla finestra e guardò il mare. “Com’è calmo, oggi”, disse piano.
Tommaso seguiva ogni suo gesto in silenzio. Quando lei si voltò stettero a lungo a guardarsi senza parlare. Poi la madre tornò a fissare il mare.
“Com’è calmo”, ripeté.

 

La macchina grigio argento arrivò rombando, e Tommaso corse a nascondersi dietro a una duna di sabbia. L’uomo fermò di colpo, poi manovrò per portare l’auto al riparo di un ginepro. Scese e si guardò in giro, infine si avviò velocemente verso la casa.
Tommaso aspettò finché non vide chiudere le imposte della sua stanza, poi si decise a uscire allo scoperto. Il sole era alto e lui aveva molta fame. Quanto era lunga mezz’ora?
Socchiuse gli occhi e cercò le nuvole. Quella mattina ce n’erano parecchie, se era fortunato avrebbe individuato quella giusta. Ne osservò una per qualche minuto, era bianca e rotonda come un batuffolo d’ovatta e forse si sarebbe aperta al centro. Dopo un po’ la nuvola si allungò a un’estremità, assumendo la forma insignificante delle altre.
Tommaso sbuffò e si mise una mano in tasca.  Gatto Silvestro era diventato ormai una poltiglia appiccicosa, i colori si erano mischiati, cancellandogli i lineamenti.  Prese il lecca-lecca dalla parte della cannuccia e andò verso il castello di sabbia; lì, con un colpo deciso, impalò Gatto Silvestro sulla torre. Per un po’ rimase a osservarlo squagliarsi al sole, poi lo colpì. La sostanza molliccia gli rimase incollata alle dita. Con un gesto di disgusto Tommaso cercò di liberarsene ficcando la mano nella torre. La costruzione franò subito. Tommaso trovò il legno abbandonato il giorno prima e colpì ripetutamente il castello. Continuò finché non lo rase completamente al suolo. Alla fine si gettò a terra, spossato, e guardò verso la casa. Le imposte della sua stanza erano sempre chiuse.
Mi sbrigo presto, gli aveva detto la madre.
Ed ecco, nel cielo, finalmente la nuvola giusta. Il buco era spostato in basso e rischiava di dividerla in due, ma Tommaso decise di seguirla con fiducia.
Il richiamo asmatico di un clacson lo fece sobbalzare. Avrebbe riconosciuto quel suono ovunque. Si acquattò il più possibile dietro il mucchio di sabbia e osservò la strada. La macchina del padre era ancora lontana.
Tommaso si voltò a guardare la casa. Se si sbrigava, ce l’avrebbe fatta ad avvertire la madre e l’uomo. L’uomo sarebbe riuscito ad andarsene in tempo.
Si grattò con forza il polpaccio, poi guardò il mare. La madre aveva detto bene. Era davvero calmo. Pareva una lastra di vetro.
Si sdraiò e riprese a osservare la sua nuvola. Il buco si era spostato verso il centro e ora si stava ingrandendo. Ancora un po’ di pazienza e l’anello si sarebbe formato.
Sentì la Fiat fermarsi. Era una vecchia cinquecento di cui il padre andava fiero, ma non appena mollava la frizione il motore non teneva il minimo e si afflosciava, proprio così, a Tommaso sembrava che la macchina si lasciasse cadere sulle gomme con un sospiro.
Udì la portiera sbattere, poi i passi del padre smuovere la ghiaia del sentiero che portava alla casa. Tornò a guardare la nuvola. Ecco, era quasi pronta. Una bella nuvola rotonda col buco al centro. Così l’avrebbe tappata. Avrebbe tappato tutte le nuvole bucate del cielo.
Gli spari arrivarono quasi subito. Due colpi in successione. Tommaso tremò, poi cominciò ad agitare le braccia nella sabbia come un forsennato. Pum!, disse piano, pum, pum! Il fragore assordante gli riecheggiava in testa, monotono, senza fine, e a ogni colpo lui agitava le braccia, sempre di più, sempre di più, smuovendo nugoli di sabbia che offuscavano il cielo e la sua nuvola.
Continuò a smuovere sabbia finché non ci fu più alcun rumore. Poi si alzò.
Questa volta l’angelo gli era riuscito bene, il corpo snello e le gambe diritte, e le grandi ali che riempivano tutto lo spazio, attorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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