“Una famiglia” di Alessandro Reali


Richiuse il bagagliaio della vecchia Fiat Punto rossa. Appoggiò un attimo a terra le buste della spesa, guardò verso l’alto, la finestra della stanza dove riposava Rosa, sua moglie, e cercò nella tasca della giacca le chiavi.
Abitavano in quella casa da 23 anni, esattamente un anno prima che nascesse il loro unico figlio, Riccardo.
Aveva appena fatto la spesa alle Torrette, il supermercato sulla via Vigentina, a pochi minuti d’auto dalla loro abitazione. Era entrato, fornito di carrello, mentre iniziava a piovere. Un’acquetta d’aprile pungente e quasi piacevole. Era uscito mentre il sole faceva capolino tra cumuli argentei di nuvole corsare, grazie alle quali, il parco della Vernavola, poco distante, aveva assunto quei colori umidi, tra il verde acceso e il verde cupo, che gli piacevano tanto.
Mario Colli aveva sessantaquattro anni. Era in pensione, dopo una vita trascorsa a lavorare in banca. Prima a Mortara e poi a Pavia, la sua città. Gli ultimi sei anni, per la precisione, aveva lavorato nella filiale dell’Intesa nei pressi di piazza della Minerva.
S’asciugò il sudore con il dorso della mano. Raccolse le buste e si avviò verso l’atrio della palazzina, notando, con rammarico, gli escrementi di un cane proprio sotto al primo gradino. Che desolazione, pensò arrancando, ingobbito, col suo uno e settantasette per sessanta chili, praticamente uno stelo di uomo culminante con il volto, segaligno, affilato, caratterizzato dal naso adunco.
Rosa, sua moglie, doveva essere a letto. Da quando le avevano diagnostocato il tumore al seno trascorreva la maggior parte del suo tempo sdraiata. Le terapie l’affaticavano, diceva, con ragione, anche se, dentro di sé, Mario Colli, sospettava che la donna trovasse una specie di consolazione nel nuovo ruolo di vittima in cui l’aveva precipitata la brutta malattia. Anche se il professor Tarcisio Primi, del policlinico San Matteo, li aveva, per quel che si può, tranquillizzati. Grazie alle cure la donna sarebbe ritornata, nel giro di sei mesi, a vivere come prima. L’unica differenza erano i controlli frequenti, gli esami a cui si doveva sottoporre.
Un grande sollievo per Mario Colli. Nonostante tutto, sua moglie, era il perno attorno a cui, da troppi anni, ruotava la sua vita. Con metodi asfissianti era riuscita, fin dai primi tempi, ad annichilire la sua personalità, tanto che adesso, il solo pensiero di perderla, lo precipitava più nello smarrimento che nello sconforto.
La loro era stata una storia d’amore costellata da crisi furibonde, litigi tempestosi e riappacificazioni innaffiate di lacrime e altre scene da melodramma. Sempre da parte di Rosa, che faceva e distruggeva con la stessa facilità, mentre lui la guardava, disilluso come un temporeggiatore che non sa far altro che adeguarsi, in perenne difesa di un piccolo patrimonio di illusioni, partorite essenzialmente dalla sua mente che, per non cedere alla depressione più truce, progettava segreti moli, approdi di salvataggio. Nel suo caso, i modellini di navi e aereoplani, i plastici perfetti che riproducevano le grandi battaglie della storia, lo studiolo dove si ritirava a giocare come un ragazzino.
Non era stato sempre così, Mario Colli. Da ragazzo lo chiamavano il Mago, tanto era in gamba col biliardo. Pure con le ragazze ci sapeva fare. Era brillante, intelligente, per niente superficiale e, a modo suo, amante della bella vita. Vestiva con gusto e non perdeva una gara di Formula Uno, lo sport che più l’appassionava, non tanto per i motori quanto per l’mmirazione che nutriva nei confronti dei piloti.
La passione per la storia, soprattutto le grandi battaglie e i mezzi impiegati per combatterle, lo accompagnava fin dalla più tenera età. Col tempo, quindi, normale che fosse sfociata nell’hobby del modellismo, unico a resistere, visto che il biliardo e il gioco del poker e del ramino (famose le sue fughe con gli amici nei casinò di Sanremo, Montecarlo o Saint Vincent) li aveva definitivamente abbandonati per compiacere la moglie.
E pensare che Rosa si era invaghita di lui (aveva già 27 anni quando aveva deciso che quello sarebbe stato l’uomo della sua vita – la vittima sacrificale secondo i suoi amici intimi) proprio per certe sue tipicità un po’ da viveur non privo d’una certa classe. Infatti s’era impegnata, grazie al suo carattere convulso, altalenante tra il sadico e il masochista, ad annichilire quelle caratteristiche della sua personalità. Lei aveva bisogno di qualcuno da trasformare e, al tempo stesso, perennemente insoddisfatta della realizzazione, non trovava di meglio che scaricare sul poveretto il suo malumore per il fallimento, presunto, dell’impresa.
Con la nascita di Riccardo le cose erano peggiorate. Rosa aveva iniziato ad assillare il figlio, comportandosi con lui in modo esageratamente protettivo, senza mai perdere occasione di sminuire il padre (rammollito) ed elogiare se stessa sempre presente. Troppo presente. Soprattutto a scuola. Fin dalla prima elementare penetrò in quel mondo con prepotenza provocando sconcerto e malumore tra gli insegnanti. Sembrava che solo lei sapesse come andava seguito ed educato suo figlio, sospettando in modo ridicolo che c’era sempre qualche insegnante corrotta, poco obiettiva, che preferiva altri alunni al suo bambino.
Riccardo, inizialmente, si era dimostrato diligente. I suoi voti erano sempre ottimi. Una naturale intelligenza non coltivata, insieme a una buona dose di cattiveria che sfogava contro i compagni più deboli e sugli animali a cui combinava scherzi spesso atroci, caratterizzano la personalità complessa in via di sviluppo.
Crescendo si accorse che, per quanto studiare facesse, sua madre non era mai contenta. Urlava e gracchiava come una pazza. Assillanti erano i confronti con gli altri studenti e, forse anche per questo, Riccardo cominciò a fregarsene della scuola e a frequentare tutti i tipi meno raccomandabili che incontrava. Non aveva terminato il liceo e non aveva nessuna inenzione di lavorare. La pensione di suo padre gli serviva per i vizi, molti, da praticare con la combriccola: una ciurma assatanata col vizio della cocaina, dei bei vestiti, delle spedizioni a Milano per intrufolarsi nei locali alla moda, dove di coca ne scorreva, come si dice, a fiumi. Mantenere questo tenore di vita non era facile, per questo il ragazzo, da bravo, aveva iniziato a spacciare, giusto per non farsi mancare nulla.
Mario Colli come si comportava in questo contesto? Si era accorto per tempo dell’instabilità della moglie e dei vizi pericolosi del ragazzo? Probabilmente sì. Inizialmente aveva cercato di svolgere la funzione di cuscinetto tra quelle due personalità contorte che tanto amava. Presto aveva gettato la spugna. Si era assuefatto e spento, adagiandosi in balia delle scelte della moglie. Consolandosi, superficialmente, col fatto che lei, alla fine, era l’unica a cui il ragazzo, qualche volta, sembrava dare ascolto. Visto che del padre, pensione a parte, sembrava non occuparsi minimamente. L’infanzia trascorsa ascoltando i rimbrotti ossessivi che Rosa riservava perennemente al marito avevano ottenuto, come risultato pratico, che al signor Mario Colli, del figlio, non restasse che il disprezzo o, peggio, l’indifferenza.
Ma forse questo accadeva perché Riccardo, un bel ragazzo dai capelli lunghi e gli occhi color ramarro, era predisposto a certi atteggiamenti. Annosa è la questione dei condizionamenti di un tipo di educazione piuttosto di un altro. Ma il sadismo innato del ragazzo, quella cattiveria alternata a slanci d’amore quanto meno sospetti, caratteri manifestati fin dalla più tenera età nei confronti di compagni di giochi e animali, avevano davvero a che fare con le manie della madre o era farina del suo sacco genetico?
Non lo sappiamo.
Limitiamoci ai fatti.
Una volta entrato in casa andò subito in cucina e mise le borse della spesa sul tavolo. Diligentemente sistemò la confezione rossa del caffè, la pasta, i biscotti secchi e frollini al cioccolato di Riccardo (sua moglie era convinta che il ragazzo, ancora, ne andasse pazzo), la marmellata e il formaggio in busta. In ultimo ripose le due bottiglie di lambrusco a buon mercato. Gli piaceva, la sera, bere un paio di bicchieri (a sua moglie, prima della malattia, anche di più) prima di rifugiarsi – è il caso di dirlo – nello studiolo dove assaporava la pace assoluta dei suoi modellini. Allora tornava ragazzo e navigava i mari o attraversava impervie catene montuose al seguito di mitici condottieri. Ritrovava, per poche ore, il senso della vita inteso come nettare da gustare e non ripiego, costante ripiego della propria volontà a favore di obblighi solo apparentemente più importanti. Per lui, anche se non aveva più la forza di dirlo a nessuno, i momenti più belli e interessanti erano proprio quelli trascorsi nello studiolo, accanto alla moglie, diciamolo ancora, fondamentale perno della sua esistenza ma, allo stesso tempo, col pensiero mille miglia lontano da lei. Questo stato di cose, meschino fin che si vuole, era vincente. Rallegrava ancora il suo cuore. Come l’incontro di quel pomeriggio, sotto la pioggia fine, col suo vecchio amico Franchino Castoldi, il pasticcere. Uno di quelli della combriccola storica, che si ritrovava da Callisto in Borgo, per tirare tardi attorno ai tavoli verdi, del biliardo e del poker. Bei tempi, quelli. Grandi stagioni mitizzate dal passare inesorabile degli anni.
Franchino era in compagnia della moglie, una bionda ossigenata che parlava per lui. Purtroppo l’ictus dell’anno prima gli aveva tolto parzialmente la capacità di esprimersi. Per camminare si serviva del bastone e un occhio era parzialmente chiuso mentre l’altro risultava esageratamente aperto. Però ne era sicuro: incontrandolo, il vecchio amico, aveva cercato di sorridere, compiendo uno sforzo enorme, e lui non aveva potuto fare a meno di rammentare (guardando il fondoschiena ormai sformato della moglie) di quella volta da Callisto quando lei, proprio la bella (allora, un fisico da maggiorata) Monica Gatti, futura e più affascinante pasticcera di Pavia, aveva ammiccato nei suoi confronti, facendogli capire di avere delle intenzioni. Questo era e restava uno dei ricordi più dolci della sua vita, una di quelle faccende molto private che non hanno prodotto risultati pratici ma che, saltuariamente, sentiva la necessità di rammentare.
Entrò in bagnò e si lavò la faccia e le mani, si asciugò con cura e fece capolino nella stanza matrimoniale che, da 23 anni, divideva con sua moglie.
Socchiuse la porta e restò lì, a guardarla. Improvviso il senso di nausea lo colse, prepotente, obbligandolo a sboccare sul pavimento.
Rosa giaceva supina. La bocca spalancata, gli occhi sbarrati, il collo teso, come se nello spasmo si fosse allungato, verso l’oscurità malsana dell’ambiente. Con quella bocca come un buco osceno, una cavità mostruosa sul volto grigio.
Il signor Mario Colli non fece in tempo ad avvicinarsi al letto. Un colpo micidiale, sferrato con una sbarra di ferro, gli spaccò lo zigomo. Cadde prono, sulle ginocchia, nel suo stesso vomito. Un altro colpo gli frantumò le ossa alla base del cranio.
E tutto si spense.

Al commissario Gioncada non ci volle molto – tre ore d’interrogatorio – per ottenere la confessione di Riccado Colli, il figlio della coppia, incensurato. Il ragazzo, un bellimbusto di ventitré anni, dopo aver racconatto di essere tornato a casa e aver trovato l’appartamento a soqquadro e i genitori barbaramente uccisi, sicuramente da qualche ladro colto sul fatto, non riuscì più a replicare all’esperto Gioncada e al suo vice Sermonti che, a turno, giocarono senza fatica sulle frequenti contraddizioni del ragazzo.
Decisivo fu il perseverare del commissario, fin dal primo momento, sul fatto di non credere a una sola parola di quel racconto. Questo atteggiamento di sfida creò una crepa nelle farraginose certezze dell’assassino. Il crollo fu apparentemente repentino, con tanto di lacrime, urla e accuse contro il complice, un certo Luca Salvio, conosciuto dalle forze dell’ordine per accuse relative allo spaccio di droga, che l’aveva spinto a quel gesto tremendo, ovviamente per approfittare, successivamente, dell’eredità dei genitori, vendere la casa e andare a fare la bella vita in Brasile.
In fondo sua madre era malata. Quanto le sarebbe rimasto da vivere? Per cui…
E suo padre, beh, suo padre, ma chi se lo ricordava


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