“Una notte qualsiasi” di Roberto Mistretta


 

E’ notte fonda. L’ultimo tram è passato da un pezzo. La città dorme accovacciata tra pieghe di trapunte a scaldare passioni sopite. E’ l’ora della trasgressione. L’ora che delimita quello spazio sospeso che precede l’alba, quando la vita torna a divorare le esistenze con la sua facciata di rispettabilità. Corse affannate e appuntamenti. Caos e colori.
Quanti volti ha la mia città. Quante storie.
A nessuno interessano le puttane, pensa Bice. La mia città è un mostro senz’anima. Nutre sé stessa generando putridume e abbandona sulle strade quei frutti nati male e cresciuti peggio. Li accantona, lasciandoli marcire. Anche rimuoverli costa fatica. La città preferisce ignorarli. Non vederli.
Bice è uno di quei frutti.
E’ una notte qualsiasi. Una notte nata stanca. Il giorno è morto fasciando la città di bruma, i rumori si sono affievoliti. La città respira e si trincera in casa, sbarra gli occhi sul mondo. Si satura coi tiggì all’ora di cena. Sangue e stragi, lutti nazionali e crack finanziari. Si ingozza di arresti e droga, rapine e morti ammazzati. Politicanti, calciatori e veline. La città si informa.
Bice si tira su la calza a rete, accavalla le gambe affusolate e accende un’altra Lucky Strike.

Un tempo avevo un amico, Giulio, e con lui dividevo il poco spazio che occupo. Aveva una parola dolce per tutti. La prima volta che lo vidi fioriva la primavera. Si era avvicinato barcollando, emanava un tale puzzo che rendeva superflue le domande. Il vomito era arrivato subito dopo. Mi ero risentita. Diamine che modi. Non ci si comporta così, ci sono i posti adatti per dare di stomaco, e poi mi aveva pure insozzata, ma avevo colto in quello sguardo una dolcezza di fondo che mi indusse a lasciar correre.
Dopo quella notte ce ne furono altre e altre ancora.
Giulio mi raggiungeva e si accucciava senza dire una parola. Per cuscino un giornale raccattato chissà dove e per coperta un vecchio cappotto da signora. Arrivò l’estate. Da un nido nascosto tra i rami dei pochi alberi rimasti, un esserino implume cadde proprio sulla pancia del mio ospite. Fu allora che ebbi la certezza: non avevo sbagliato a dargli ricetto. Lo vidi prendere in mano l’uccellino impaurito, carezzarlo a lungo sul capo e riporlo nel suo nido. A dirla così sembra una passeggiata, ma non sapete come dovemmo ingegnarci. Giulio, che agile non era, salì su di me, si aggrappò al ramo più basso del platano e, centimetro dopo centimetro, si issò a fatica, tenendo l’uccellino in tasca. Compiuta la missione ritornò a terra e fu allora che per la prima volta mi rivolse la parola. In tasca serbava un taccuino sdrucito e un mozzicone di matita. Scrisse poche parole. Me le lesse ad alta voce. Avevano il sapore di maggio, quando nel parco fioriscono le aiuole e l’aria si riempie di profumi che sanno di campagna e vette di montagne. Mi piacerebbe stare in quei posti.
Nella sua fantasia, l’uccellino era diventato l’orfano che la natura maligna voleva sacrificare al dio della fame e alla strega dell’abbandono, ma ecco che, in sella a uno stallone, il piccolo principe del regno dei barboni aveva cambiato il corso della sua esistenza, e salvandolo aveva salvato anche i suoi sudditi che da quel giorno erano stati ricompensati dal Signore dei volatili e così avevano smesso di soffrire e di girovagare in cerca di radici meno amare da cuocere e consumare nelle notti gelide. Il Signore dei volatili aveva ricompensato quel nobile gesto scacciando dal regno dei barboni l’assillo della carestia e aveva donato loro un tetto e una famiglia.

Bice si è alzata, passeggia avanti e indietro. La notte si annuncia fredda. Fra poco accenderà il falò, per ora si accontenta di dar fuoco alla terza Lucky Strike e di ripassarsi sulle labbra il rossetto color peccato.

Giulio da quella volta prese a confidarsi con me. Mi raccontò di lui, della sua vita, di quanto era ingiusta. Una storia come le tante che da allora ascolto con orecchio diverso. Ho imparato ad avere rispetto di chi indossa abiti laceri. Grattando il lerciume affiorano occhi di creature che soffrono. Creature in perenne attesa di una occasione che non arriva. Creature che muoiono inseguendo ancora nei sogni quell’occasione negata. Gli essere umani sono così uguali in fondo. Nascono e muoiono. E si nutrono di quelle emozioni che intessono la vita segnandone i destini.
Giulio è morto aspettando quell’occasione, l’amore di una vera donna. Durante la notte lo sentivo lamentarsi. La società lo rifiutava, ma di notte nessuno poteva trattenere i suoi sogni e lui varcava i recinti di quei mondi vietati e si aggirava come un fantasma invisibile chiedendo in tono dimesso: Perché? Perché? Perché?
Chissà se dov’è adesso qualcuno ha saldato quei debiti. Chissà, magari adesso avrà una casa accogliente e un camino acceso, e la sua donna da tenere stretta e con lei condividere quelle storie scritte con spezzoni di matita. Mi mancano le sue ingenue poesie. La vita tritura le speranze dei falliti, ne fa poltiglia. I bidoni dei rifiuti abbondano di sogni. Frammenti di speranza. Cocci buttati via. E la vita passa e alita altrove il suo soffio di speranze e illusioni.

Bice è furibonda. Il Suv va via sgommando, dal finestrino spunta un dito medio dritto verso il cielo. Come ultimo beffardo saluto, risate oscene le piovono addosso. La sigaretta le brucia nelle mani. Non riesce a star ferma, un’energia ferina la scuote. Se soltanto avesse l’occasione di infilare le unghie negli scroti di quei cinque giovinastri, azzererebbe di colpo il loro vanto virile.
Debosciati, grida al vento.
Bice compie oggi 26 anni, batte il marciapiede da quando ne aveva 17. Mi sono affezionata a lei. Dopo la morte di Giulio guardo con occhi nuovi chi vive di stenti, gli emarginati, i derelitti. Nei suoi infiniti perché il mio amico si domandava quale demone albergasse in chi prima comprava la carne delle puttane, e poi tornava in famiglia, carezzava i figli, li baciava in fronte e sotto le coperte cercava la moglie. Le risposte lo deprimevano ancora di più: con la menzogna si sopravvive, la dissolutezza è l’invereconda regina dei nostri tempi, l’ipocrisia la padrona.
Con Bice erano diventati amici. Lui non faceva altro che parlare di lei e la notte, mentre varcava quei confini proibiti, ripeteva: mi basterebbe così poco, se soltanto… La sera si presentava da me come al solito, sporco e lacero. Nascosta chissà dove, però, teneva una rosa rossa dai petali vellutati. La poggiava accanto a me, là dove sapeva che Bice l’avrebbe trovata. E Bice, senza dir nulla, la prendeva con delicatezza e la faceva sparire nella borsetta di falso coccodrillo. In quei pochi secondi, il suo volto brillava di una luce nuova.
La loro amicizia era cominciata male. Le ombre già cedevano alle prime luci di un sole sanguigno che si levava greve sulla città addormentata. Bice era stata scaricata in malo modo nei pressi del parco. Aveva provato a gridare, ma aveva sputato un fiotto di sangue scuro e quel che rimaneva di un dente. Barcollava vistosamente e puzzava. Le avevano pisciato addosso. L’avevano marchiata, a ricordarle che anche per vendere po’ di fica ai cittadini perbene bisogna pagare. Anche sopravvivere è complicato nella mia città.
Giulio era intorbidito dalla Vecchia Romagna, ma si levò lo stesso e le andò incontro barcollando. Si beccò un colpo di borsetta in pieno volto. Bice lo scavalcò e si abbandonò di schianto. Giulio non disse niente. Sparì dietro l’aiuola più nascosta e ne sortì con una rosa. Si avvicinò, si sedette e attese.
Bice singhiozzava, fumava come poteva. Il labbro spaccato glielo rendeva difficoltoso. Si rimirò nello specchietto e sprofondò ancor di più nella disperazione. Il volto era gonfio e nero, dal naso colava sangue e muco, aveva gli occhi tumefatti e la sua bella fronte, liscia e spaziosa, era una foresta di graffi e tagli.
“Bastardo, ti rovino, lo giuro. Mi ha pestata. Mi ha massacrato con calci e pugni. Bastardo schifoso. Ma io non pagherò per la sua protezione. Mai. Il marciapiede è di tutti, nessuno si arricchirà sulle mie spalle. E tu, brutto deficiente, cosa guardi? Cosa vuoi con quella rosa?”
“Io non ti picchierei mai, avrei cura di te”.
“Stai zitto, ubriacone”.
“Se mi sposassi ti toglierei dalla strada”.
“Zitto, ho detto”.
“Tu porti un nome da regina e come tale dovresti vivere”.
“Vai via”.
Lui non se ne andò. Né Bice lo scacciò. Nacque così la strana amicizia tra quei due derelitti rifiutati dal mondo.

Bice prende a calci una lattina. E’ una notte come tante. I cinque giovinastri si sono allontanati a bordo del loro roboante Suv. Si sono divertiti e non l’hanno neppure pagata. Domani se ne vanteranno negli uffici con l’aria condizionata, dietro i banconi mentre servono brioche, tra le bancarelle del mercato. Noi invece restiamo qua tra puttane e ubriaconi, ad osservare la vita che altri fanno finta di non vedere. Bice non ha più forza dentro sé. E’ stanca e avvilita. Sbollita la rabbia, si affloscia su di me come un pallone sgonfio. Non so come aiutarla. Se soltanto ci fosse il mio amico, Giulio, saprebbe trovare le giuste parole per ridarle il sorriso.

Bice e Giulio avevano legato dopo quella notte. Lui era rimasto seduto a lungo a vegliarla quando infine lei, sfinita, si era sdraiata. L’aveva coperta col suo lacero cappotto di lana. Aveva acceso un nuovo falò. Aveva fatto il caffè. Dopo quella volta Bice era rimasta giorni e giorni senza farsi vedere. Le ferite al volto avevano impiegato parecchio a rimarginare. Giulio era triste e scriveva, scriveva e ogni sera lasciava una rosa al solito posto. Quando Bice era tornata, l’aveva trovata. E il suo sorriso aveva illuminato l’oscurità. Ricordo quella notte come se fosse ieri, per un attimo mi ero illusa che il tempo si sarebbe fermato e che quei due avrebbero finalmente trovato uno spazio tutto loro per fare rotta verso un’isola meno infelice. Invece l’incantesimo si ruppe presto. Il pappone discese infuriato dalla potente auto. Bice se ne avvide e scappò lesta. Il magnaccia tornò a bordo della berlina. Giulio si era nascosto dietro i sedili, in mano stringeva il collo frastagliato della Vecchia Romagna. La berlina accelerò e sparì nella città. Il mio amico ritornò alcune ore dopo. Il magnaccia non tornò più. Bice riprese a misurare i marciapiedi. Lui non le raccontò mai di quella notte. La loro storia continuò così, con rose rosse rubate e lasciate accanto proprio lì, vicino alla panchina dove Bice esercitava. Andò avanti per mesi e stava diventando qualcosa di importante, di vero, ma poi sapete come è andata e da allora le rose marciscono dove nascono e Bice marcisce dentro.

Stasera è molto giù, qualcosa si è rotto dentro lei, le manca Giulio. E’ disperata. Il trucco scivola sulle gote caramellate e inonda le labbra tumide e succose.
E’ sola.
Dal platano un uccellino vola sino all’aiuola più lontana, plana e afferra qualcosa. Non vedo bene, ma sembra una rosa. L’uccellino torna con difficoltà sopra di noi e la lascia cadere. La rosa rimbalza su me con un tonfo leggero. Bice l’afferra e la stringe forte al petto.
Guarda il cielo e piange lacrime piene di amore. L’uccello le si posa sulla spalla, gioca coi suoi capelli di seta. Bice stringe la rosa come fosse un bambino. Sento rinascere in lei la forza di un tempo, la grinta che l’ha resa gagliarda, e anche la speranza rifiorisce. La speranza di una vita diversa.
La città si sveglia all’alba, come sempre, ma stanotte sui marciapiedi ci sarà una puttana di meno. E questa non è notte qualsiasi. O forse sì. In fondo che può saperne delle storie degli umani una vecchia panchina come me?

Rivisto 25 gennaio 2018


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