"Vedove" di Maria Teresa Valle


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Carmen
Sarà stato per quel nome esotico, Carmen. Quando la conobbi mi colpì subito. Aveva quasi novant’anni. Era dritta e ben fatta come una ventenne. Pelle liscia e colori delicati. Piccola e minuta, ma con una voce squillante e forte, forse per via del fatto che non ci sentiva più tanto bene. Unico cedimento al passare del tempo.
Non mi spiegò per quale volo della fantasia i suoi genitori avessero scelto quel nome originale per lei, in mezzo a cinque fratelli e sorelle con nomi banali e tradizionali: Giovanni, Angela, Mario, Giuseppe, Carla.
Aveva voglia di parlare. Si vedeva che, abitando sola, non aveva occasione di scambiare molte parole con la gente. Era contenta che fossi andata a salutarla, non ci si aspetta più, mi spiegò, che le persone facciano questi gesti di normale educazione.
Come sua nuova vicina avevo pensato che fosse mio dovere farmi viva con la mia dirimpettaia. A quanto pare il gesto era stato apprezzato. Certo ora era difficile sganciarmi senza offenderla. Nella cucina linda e ordinata dove mi aveva fatto accomodare, dopo una prima sosta nel salotto altrettanto lindo e ordinato, mi preparò un caffè forte e profumato in una vecchia moka di alluminio. La tazzina bianca, di una porcellana sottilissima, quasi trasparente e bordata d’oro, aveva una forma antica.Tutto in quella cucina parlava di tempi passati. Immaginavo la mia nuova amica a vent’anni, avvolta in soffici vestiti di voile dai colori pastello, con un bel cappellino in testa passeggiare sul lungomare insieme alle amiche, la domenica pomeriggio, per farsi ammirare dai giovanotti.
Fui strappata alle mie fantasie dalla voce stentorea della mia nuova vicina. Mi ero lasciata distrarre dalle mie fantasie. Carmen mi stava raccontando come aveva fatto la staffetta dei partigiani a vent’anni. Pantalonacci da uomo e una bicicletta arrugginita. Su e giù per i monti sopra Genova, a portare ordini e dispacci alle varie brigate nascoste sulla montagna, sempre col cuore in gola, cercando di sfuggire a tedeschi e fascisti. E poi, finita la guerra aveva fatto l’operaia all’Ansaldo. Sempre in prima fila durante gli scioperi. Ed era anche stata arrestata una volta, durante il ministero Scelba. Io non ci potevo credere! Quella simpatica vecchietta? Mi sentivo una perfetta idiota. Ora mi stava invitando a vedere il resto della casa. La camera da letto era commovente. Armadio e comodini del più puro stile “primo novecento”, letto matrimoniale con copriletto di piché e bambola regolamentare seduta al centro del letto, l’ampia gonna di organdis rosa allargata intorno, il cappellino coordinato appoggiato sui capelli biondi e stopposi.
E sul comò, allineati, ciascuno in cornice d’argento, uno vicino all’altro, i ritratti in bianco e nero dei tre mariti di Carmen. Tutti passati a miglior vita.
La Castagna
C’é un autobus che da Sampierdarena sale su in alto. Si arrampica curva dopo curva per strade via via più strette. Macchine in sosta da ambo i lati della strada rendono difficoltoso per l’autista guidare il mezzo, nonostante sia più piccolo dei comuni bus che circolano per le strade della città. Mano a mano che si sale, i palazzi si fanno meno alti e più distanziati. La periferia diventa meno disumana. Appare qualche albero, qualche prato incolto, persino qualche orto strappato alla città. Sulla collina si vedono casette antiche che si indovinano residui di una civiltà precedente, una civiltà contadina preesistente ai palazzi e sopravvissuta come un vecchio e piccolo dinosauro in mezzo agli animali moderni.
Infine si arriva al cimitero della Castagna.
E’ un cimitero non troppo grande e conserva quell’aria di camposanto di campagna, nonostante sia così vicino alla città. Da lassù si vede il mare, come spesso succede nei cimiteri liguri. Non se ne giovano i morti, ma i visitatori.
Non sono molte le corse che l’autobus fa per quella destinazione. E sono poche anche le persone che arrivano fino al capolinea. Quasi tutti scendono alle fermate precedenti.
Eccetto al sabato pomeriggio.
Il sabato pomeriggio si assiste all’ormai consueto rituale della visita al caro estinto.
Decine di vedove salgono a salutare i loro mariti passati a miglior vita.
Vestite con i loro abiti migliori e fresche di parrucchiere salgono alle varie fermate e scendono tutte al capolinea. Il mazzo di fiori di stagione nelle mani, si dirigono ciascuna alla tomba del marito. Buttano via i fiori della settimana precedente, rinnovano l’acqua nel vaso, mettono i fiori freschi, dopo aver tolto la carta velina che li avvolge. Sistemano il vaso con cura, dando qualche tocco con mano sapiente e leggera per un migliore effetto estetico. Estraggono dalla borsa l’apposito straccetto e il liquido per lucidare gli ottoni, lustrano l’ovale che contiene la foto del loro caro e puliscono accuratamente la lapide. Poi si raccolgono in preghiera, guardando la fotografia del loro amore perduto. Forse parlano con lui. Non é dato sapere che cosa confidano al trapassato.
Infine raccolgono le loro cose, danno una lisciata alla gonna, ravviano i capelli ed escono dal cimitero.
Si è fatta l’ora giusta. Si sente già la musica dalla strada. La balera della Castagna, poco distante dal cimitero, apre appunto a quell’ora.

 

 

Maddalena
Nella sala d’aspetto del reparto di oculistica siamo rimaste solo noi due. Io ho accompagnato un’amica sola e lei la madre. L’operazione in sé non é grave, la dimissione avviene subito dopo l’intervento. Ormai eliminare la cataratta é diventato un semplice intervento di ruotine.
Bisogna solo farsi accompagnare da qualcuno per tornare a casa in sicurezza. Le nostre protette sono state chiamate per ultime. L’intervento avverrà in un una sala operatoria poco lontano. Ci sarà da aspettare ancora. Tutti gli altri pazienti sono già andati a casa,
Un po’ per noia, un po’ perché siamo rimaste sole, attacchiamo discorso. La mia compagna di attesa è una bella signora sui cinquanta, vestita elegantemente.
Mi racconta che è tranquilla. Può aspettare la madre senza patemi d’animo. È l’una passata e lei mi dice che quando era vivo il marito doveva essere a casa assolutamente per l’ora di pranzo. Il marito arrivava inesorabilmente alle dodici e venticinque minuti esatti. Il pranzo doveva essere in tavola. La tavola apparecchiata in un certo modo, sempre lo stesso. Stessa tovaglia, stesse stoviglie. Il cibo non doveva essere né troppo caldo né troppo freddo. Il caffè doveva essere pronto alle dodici e cinquanta precise. Anche la domenica, giorno in cui il marito non si recava al lavoro, il rituale doveva essere rispettato. Poi si poteva uscire, ma si doveva rientrare in qualunque stagione, senza eccezioni, alle diciassette, cascasse il mondo. La sera alle ventitré si andava a letto e ci si alzava alle sette in punto.
No, non aveva mai lavorato. Il marito non glielo aveva permesso. Del resto economicamente stavano bene.
Sì, per lei era stato ossessionante vivere in quel modo, senza nessun margine di libertà e da tempo non provava più niente per quell’uomo. Ma separarsi era impensabile. Lui non avrebbe mai acconsentito.
Ora che il marito non c’era più lei si sentiva finalmente libera. Non riusciva a nascondere il suo sollievo per la sua prematura morte. Le spiaceva solo per i figli che avevano subito questi rituali ossessivi dal padre e in parte ne erano rimasti contagiati.
Incuriosita e incoraggiata dalle confidenze chiedo – Non ha mai provato a opporsi?.
– Ho provato. – Mi risponde – Negli ultimi tempi mi sembrava di impazzire. Non ce la facevo più. Ho cambiato gli orari, le stoviglie, il cibo. Tutto. Non mi facevo trovare a casa quando tornava, uscivo da sola la domenica.
-E lui?
-Si è fatto venire la depressione.
-Doveva essere ancora giovane… – continuo – Di quale malattia è morto?
La signora mi guarda, poi si volta verso la finestra. Guarda ostentatamente il cielo, o forse un punto a metà strada tra il vetro e l’albero di fronte e, con una certa soddisfazione, (forse con un angolo della bocca ha accennato un sorriso) risponde
-Non si è ammalato. Si è buttato dalla finestra.

 

Lola

Lola non è il suo vero nome, naturalmente. E i suoi capelli non sono biondi. Li decolora con l’acqua ossigenata. L’unica cosa che può permettersi in questo tempo di guerra. I gemelli stanno dormendo nella stanza accanto. Per fortuna sono buoni. Si sono addormentati subito. Questo perché è riuscita anche oggi a procurare loro qualche cosa da mangiare.
Sdraiata sul letto aspetta che arrivi. Indossa la solita vestaglietta nera con i pois bianchi. Ormai non si vedono quasi più. L’avrà lavata mille volte. Forse domani riuscirà a comprarsi un vestito nuovo. Se il suo cliente di questa sera sarà generoso.
Lola pensa che sarebbe bello se portasse qualche cosa da mangiare. Pensa al marito. Chissà se lui ha mangiato. Chissà se è vivo.
Se torna non deve sapere quello che lei ha fatto per tenere in vita sé stessa e i suoi figli. Quei figli che lui non ha neppure potuto vedere. Voleva tanto avere un maschio. Sarà orgoglioso di sapere che ne ha avuti addirittura due.
Lola gli ha scritto. Ma lui non ha risposto. Dopo che sono nati i gemelli non le ha risposto. Però le lettere non sono tornate indietro. Segno che è vivo.
Bussano alla porta. Lola si alza e va ad aprire.
Il soldato entra. Ha i gradi sulla divisa. Lola non li conosce. Non sa dire se sia sergente, o capitano. Per lei è la stessa cosa. Per lei è solo un cliente. Uno dei tanti. Ha bevuto. Lo sente dal suo alito. Lo vede dal suo passo, malfermo, mentre entra nella stanza. Questo non le piace. Le fa paura.
Il soldato le porge un pacchetto. Dentro c’è dello zucchero, una cioccolata e un pacco di pasta. Le fa capire che se sarà gentile le lascerà delle sigarette e anche dei soldi. Lola non fuma, ma potrà scambiare le sigarette con qualche cosa di utile, latte o pane per i suoi bambini.
Il soldato non si spoglia. Ha fretta. Per l’urgenza del desiderio o forse perché deve rientrare presto. L’afferra per i capelli, alla nuca, la butta in avanti sul letto, la faccia premuta sul materasso. A Lola sembra di soffocare. Il suo grido si perde nella coperta. Più Lola cerca di liberarsi, più il soldato le stringe la nuca, le tira forte i capelli, e accelera il ritmo. Attimi che a Lola sembrano un’eternità. Il soldato ha ringhiato parole sconosciute, in una lingua incomprensibile. Finalmente tace. Si stacca da lei. Le fa una smorfia che forse vuole essere un sorriso e le butta sul letto del denaro.
Lola si addormenta piangendo, con i soldi stretti nella mano.
È mattina presto. Un forte bussare alla porta la sveglia. Ancora mezza addormentata apre la porta. Le viene consegnato un telegramma. Viene dal Ministero della Difesa.
Adriana e Miriam

L’assistente sanitaria a cui avevano consegnato gli effetti personali del paziente incidentato non sapeva che fare. Aveva esaminato i suoi documenti da cui risultavano nome e cognome, Palmiro Banchi, età, 40 anni, stato civile celibe. Agenda e cellulare erano zeppi di numeri, del resto di mestiere faceva l’agente di commercio. Era naturale.
Aveva controllato con la polizia di stanza al pronto soccorso. Non risultava nessun consanguineo né parente da avvisare. Provò a consultarsi con le infermiere. Le dissero che prima di entrare in coma il paziente aveva sussurrato due nomi Adriana e Miriam.
-Come sta?- Chiese. -Non c’è più niente da fare- Risposero. E’ solo questione di tempo.
Provò a cercare nell’agenda questi due nomi. Non c’erano.
Se sono amiche intime , pensò, magari i numeri sono nel cellulare. Non era molto abile a far funzionare quegli aggeggi. Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine riuscì a trovare i numeri di tutte due le donne. Provò a chiamare la prima chiedendole se conosceva un tale di nome Palmiro Banchi. – Sì – rispose Adriana – è mio marito. “Marito proprio, no” Pensò l’assistente. E le spiegò che cosa era successo.
L’assistente sanitaria non era giovanissima e la vita e quel lavoro in ospedale le avevano insegnato molte cose. Così chiamò anche l’altra donna. Le fece la stessa domanda ed ottenne la stessa risposta. – Sì lo conosco, è mio marito – Anche a lei l’assistente spiegò cosa era successo.
Adriana e Miriam arrivarono al capezzale di Palmiro quasi contemporaneamente. L’assistente era andata a casa e il turno delle infermiere era cambiato. Ma bastò un attimo alle due donne per capire.
La prima cosa che afferrarono era che il loro “marito” era in fin di vita.
La seconda che tutte e due erano state ingannate da lui che intratteneva con ciascuna di loro una relazione intima che esse credevano esclusiva.
Quale dei due era il colpo più duro?
Dopo essersi studiate per qualche attimo non scattò tra loro un sentimento negativo di odio, che sarebbe stato più che giustificato. Nacque invece una sorta di solidarietà e simpatia. Non avevano subito tutte due lo stesso crudele inganno? E non era toccato loro lo stesso triste destino? Perché farsi la guerra quando avrebbero potuto aiutarsi?
Cominciarono con lo scambiarsi informazioni sulla loro vita.
Adriana lavorava, era indipendente. Viveva in affitto. Non aveva figli e questo era stato un gran dispiacere per lei, ma aveva dovuto rassegnarsi. Non poteva averne. Miriam non aveva lavoro, ma aveva due bei bambini, un maschietto e una femminuccia, figli di Palmiro naturalmente e viveva nella casa che le aveva lasciato in eredità la nonna.
Era presto per fare progetti, ma intanto decisero che si sarebbero frequentate. Adriana voleva conoscere i bambini di Miriam e Miriam avrebbe avuto bisogno di un aiuto economico. Chissà, col tempo, se fossero diventate amiche, forse avrebbero potuto dividere l’appartamento della nonna di Miriam. Se ne andarono insieme lasciando Palmiro a morire al pronto soccorso.
Il giorno dopo l’assistente sanitaria non trovò più il paziente nel suo letto. Era deceduto durante la notte. Non seppe mai come era andata con le due “mogli”. Anzi con le due “vedove”.
Giusi

Quando suo marito morì Giusi aveva trentacinque anni. Si erano voluti bene e lei dipendeva da Giuseppe in tutto e per tutto. Giusi non lavorava, Giusi non pagava le bollette. Giuseppe pensava a tutto. Pagava le bollette, consigliava alla moglie cosa comprare, cosa cucinare, cosa indossare.
-Giuseppe, dove andiamo in vacanza quest’estate?
-Ci penso io Giusi, non ti preoccupare.
-Giuseppe, cosa regaliamo alla mamma a Natale?
-Ho già pensato io al regalo, Giusi, lascia stare.
Non era stupida Giusi, ma si era affidata al marito e le stava bene così.
Il dolore della perdita fu grandissimo. Si trovò come stordita e buttata in mezzo alla vita senza paracadute e a velocità supersonica.
Le prime notti non chiuse occhio. Pianse tutte le sue lacrime. Come avrebbe fatto senza il suo Giuseppe?
Una certa notte, stremata dal gran piangere, finalmente cadde in un sonno profondo.
E fu allora che Giuseppe le apparve in sogno.
-Giusi, sono io. Sono venuto a trovarti e da oggi tutte le notti per un anno verrò a visitarti in sogno. Perciò stai tranquilla, dormi serena e abbi fiducia. Ti accompagnerò per questo anno e non ti lascerò sola.
La mattina successiva Giusi si svegliò e i problemi le piombarono addosso. Come pagare il mutuo? Dove trovare i soldi per le bollette? Giuseppe era stato un lavoratore autonomo, niente pensione per la vedova, niente risparmi. I soldi se ne erano andati tutti durante la pur breve malattia del marito. Tuttavia ricordò il sogno fatto nella notte e si sentì più serena. Giuseppe l’avrebbe aiutata ancora.
Ora si coricava speranzosa di vedere in sogno il marito. E puntualmente ogni notte lui la visitava.
-Giusi, vendi la casa che abbiamo comprato insieme. E’ troppo grande. Non puoi farcela a pagare il mutuo. Lo estinguerai e con quello che rimarrà potrai comprare una piccola casa per te.
E Giusi vendette la casa. Comprò un appartamento piccolissimo, ma grazioso in un condominio in periferia.
-Giusi, ora cercati un lavoro, anche modesto, per poterti mantenere.
E Giusi trovò un lavoro come fattorino in un grande ufficio.
Il lavoro le piaceva, lo faceva con grande impegno, senza risparmio. Le riempiva le giornate.
-Giusi, torna a studiare, prenditi un diplomino.
E Giusi in pochi mesi completò gli studi di ragioneria che aveva lasciato all’ultimo anno. Non era mica stupida, imparava in fretta. Chissà perché non aveva terminato gli studi?
-Ora che hai il diploma vai dal direttore e chiedigli un posto migliore.
Giusi prese il coraggio a due mani e fece quello che le aveva suggerito Giuseppe. Il direttore l’aveva già notata per la sua efficienza silenziosa e discreta. Aveva proprio bisogno di una persona così per l’ufficio commerciale.
La notte Giusi aspettò con trepidazione l’arrivo del marito. Aveva impiegato più tempo del solito per addormentarsi, eccitata dall’avvenimento del giorno precedente.
-Sai che giorno é oggi, Giusi?
-E’ passato un anno esatto dalla tua morte.
-Allora sai che da questa notte non potrò più venire a visitarti. Te la caverai da sola. Sei stata brava. Addio.
Il mattino successivo Giusi si alzò con la consapevolezza che non avrebbe più rivisto Giuseppe, neppure in sogno.
Aprì la porta sul mondo e si avviò.
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Precaria

Con la sua laurea, centodieci e lode, aveva trovato solo lavori precari.
Contratti temporanei. L’ultimo era sempre peggiore del precedente. Duravano al massimo sei mesi. All’inizio aveva creduto alle promesse di assunzione. Si era affannata a mostrare tutta la sua buona volontà e disponibilità. Faceva straordinari non retribuiti, svolgeva mansioni che non facevano parte dei suoi compiti, tutto per farsi benvolere. Allo scadere dei sei mesi immancabilmente veniva liquidata con un: “Ci dispiace, non abbiamo più bisogno di lei”.
Ormai era rassegnata. Seicento, forse settecento euro al mese era il massimo che riusciva a racimolare.
Aveva avuto migliore fortuna il suo fidanzato. Con il suo diploma riusciva a strappare quasi mille euro al mese. Sempre da precario, naturalmente.
Vivevano ancora con i genitori, ma non stava bene a nessuno dei due fare i “bamboccioni” tutta la vita. Se le cose stavano così, tanto valeva cercare di fare buon viso a cattivo gioco e tentare di farsi in ogni caso una famiglia, una vita.
Avevano passato ore a fare conti. Avevano considerato tutte le possibilità. Avevano calcolato tutte le spese fino al centesimo di euro. Se non ci fossero stati imprevisti avrebbero potuto farcela.
Avevano passato quasi un anno a cercare un appartamento in affitto che non costasse più di cinquecento euro al mese. Avevano trovato finalmente un minuscolo bilocale in un caseggiato squallido in una squallida periferia. Avevano tinteggiato i muri di colori pastello e cercato con cura e amore mobili usati in buono stato. I genitori avevano regalato gli elettrodomestici. Gli amici pentole e stoviglie.
Il matrimonio l’avevano celebrato in comune, senza nessun rinfresco, solo un brindisi nel bar di fronte con i testimoni e i parenti più stretti. Un matrimonio da precari.
I pochi risparmi se ne erano andati nelle spese per l’allacciamento alle utenze.
Il viaggio di nozze era stato un fine settimana al mare, andando e tornando in giornata, con l’autobus. I precari non hanno ferie né congedi matrimoniali. Del resto neppure soldi da spendere in vacanze.
Non si lamentavano, tuttavia, perché quella loro vita precaria, con lavori a singhiozzo, sembrava funzionare. Facendo la spesa in maniera oculata, comprando i pochi capi di abbigliamento e le calzature necessari nei negozi dei cinesi, non cedendo alle lusinghe di spese voluttuarie riuscivano a sopravvivere.
Qualche volta lei aveva un senso come di….. precarietà.
Poi si riscuoteva: aveva lui. Questo era il suo punto fermo.
O almeno così credeva. Fino al giorno in cui un filo scoperto nell’impianto elettrico che lui stava sistemando nel suo lavoro precario, se lo portò via.
A lei rimase l’unica cosa non precaria della sua vita: la morte, definitiva, a tempo indeterminato del marito.
Filomena
I carabinieri erano arrivati all’alba. Avevano circondato la palazzina. Tre piani, sei appartamenti, in una bella zona, periferica, di lusso. Una bella palazzina bianca e crema, circondata da una cancellata in ferro battuto che racchiudeva una striscia di prato verde smeraldo. Il cancello era stato misteriosamente aperto non si sa da chi. All’inizio nessuno si era accorto di nulla. Le volanti, senza contrassegni erano state parcheggiate senza dare nell’occhio, vicino ai marciapiedi tutto intorno alla villa. Solo quattro o cinque carabinieri in borghese erano entrati nel portone ed erano saliti al secondo piano. Avevano bussato con discrezione, senza inutile chiasso. Qualcuno li aveva fatti entrare senza sospetto. Erano rimasti nell’appartamento per qualche ora. Gli inquilini dell’appartamento erano stati svegliati con garbo, ma con decisione. Erano stati fatti accomodare tutti in una stanza, nonostante le rimostranze. I ragazzi avrebbero voluto almeno fare colazione. I carabinieri avevano proceduto ad una accurata perquisizione e forse quello che cercavano era stato trovato. Nel frattempo i vicini avevano cominciato a svegliarsi, chi per andare al lavoro, chi a scuola. Chi per fare la spesa, chi per portare a spasso il cane. Qualcuno aveva notato gli strani e inconsueti movimenti. Troppe macchine sconosciute. Troppi uomini appostati in tutti gli angoli. Si erano formati capannelli di curiosi agli angoli delle strade intorno alla casa. Le saracinesche dei bar si erano alzate tutte quante. Anche i proprietari e i baristi avevano notato l’insolito movimento e sostavano incerti sulla soglia del loro esercizio.
Qualcuno cominciava a fare ipotesi su quello che stava succedendo.
Nella mente di ognuno alcune congetture si andavano facendo strada.
Qualcuno pensava si trattasse del dentista dell’ultimo piano. Sicuramente avevano scoperto che non possedeva alcuna laurea ed esercitava abusivamente la professione: troppo ricco, troppo improvvisamente.
O si trattava forse della bella signora del primo piano. “Lo dicevo io! Troppo appariscente. Nessun marito. Di cosa vive quella là? Riceve uomini. O peggio!
“Non sarà quel biondino del secondo piano? Con quella faccia d’angelo, magari svaligia le gioiellerie”.
Ma uno dopo l’altro erano usciti di casa il dentista,la signora del primo piano, il biondino del secondo piano.
E si erano uniti anch’essi al capannello della gente, che si è fatta più presso al portone.
In quell’istante ecco arrivare una “pantera” a sirene spiegate. Si ferma davanti al caseggiato. Alcuni agenti fanno cordone spingendo le persone verso l’esterno. Aperto il portone altri agenti conducono una donna verso la volante che attende col motore acceso. La donna tenta inutilmente di coprirsi il viso con una maglia. La spingono dentro la macchina che parte a razzo. I vicini non hanno dubbi sull’identità della donna arrestata. Un uomo spiega alla moglie che non è riuscita a vedere “È Filomena, la moglie di Peppino ‘o Squartatore. Ha preso in mano lei la guida della “famiglia” quando il marito è morto, una vedova con le palle”.
Gilda
Da sei anni quando desiderava uscire da sola, lasciava il figlio dalla vicina di casa, inventando che andava al cimitero a visitare la tomba del marito.
Oggi però il piccolo vuole andare con lei. – Posso venire anch’io a vedere la tomba del mio papà?
Gilda è imbarazzata. Non ha mai avuto un marito e il padre del piccolo se l’è filata prima che nascesse. Certo questo non l’ha mai raccontato a suo figlio. Gli ha detto che il padre è morto prima della sua nascita, inventando di volta in volta le risposte alle sue domande. Ora promette al figlio che la prossima volta lo porterà con sé e va di corsa al cimitero. Forse le è venuta un’idea per salvare la situazione.
Il cimitero di Staglieno è grande. Basterà trovare la tomba di un uomo che sia morto lo stesso anno della nascita di suo figlio e che abbia il suo stesso cognome. Per fortuna Parodi è un cognome molto comune a Genova.
Dopo qualche ricerca ecco quello che fa per lei. È una tomba un po’ trascurata, con un vaso vuoto, la lapide impolverata. Deve essere parecchio che nessuno la visita. Meglio così. Non correrà il rischio di fare brutti incontri.
Va fuori e compra dei fiori freschi. Mette l’acqua nel vaso e pulisce la lapide. Bene. La tomba del padre putativo di suo figlio è pronta per la visita. Il morto dalla foto sulla lapide osserva indifferente.
Il giorno successivo Gilda conduce il piccolo al cimitero. Il bambino è emozionato. Ormai sa leggere e quando vede la scritta sulla lapide compita con grande emozione il nome: “Paride Parodi”
– Mamma, mi hai sempre detto che papà si chiamava Angelo, perché qui c’è scritto Paride?
– Io lo chiamavo Angelo perché il nome Paride non mi piaceva. Senti come suona male vicino al cognome Par… Par…sembra un richiamo per le papere. Il bambino ride. Anche la fotografia che c’è sulla lapide gli piace. In fondo è la prima volta che vede la faccia del padre. La mamma gli ha sempre detto di non avere fotografie del suo papà.
Ogni settimana Gilda e il bambino vanno al cimitero. Comprano un mazzo di fiori e, mano nella mano, salgono la lunga scalinata che porta alla tomba.
Il piccolo è più sereno, si comporta meglio a scuola. Non si sente più tanto diverso dai suoi compagni. In fondo anche lui ha un papà. Anche se è morto.
Mentre camminano si consiglia con la madre su cosa raccontare al padre.
– Cosa dici mamma, lo dico a papà che ho preso distinto di scrittura?
– Certo, a lui farà piacere.
– E che sono caduto mentre giocavo al pallone?
– Se vuoi, diglielo.
Mentre salgono sorpassano una signora, leggermente pallida, a braccetto con una donna. Quest’ultima le raccomanda di andare piano, è la prima volta che esce dopo la lunga malattia, non deve affaticarsi.
Il piccolo fa gli ultimi gradini di corsa. Si butta in ginocchio vicino alla lapide gridando
– Papà, papà ho preso un bel voto in scrittura.
Gilda sente un tonfo. Si volta. La signora pallida è piombata a terra svenuta. L’accompagnatrice le è sopra. – Signora Parodi, signora Parodi, si sente male?
Gloria
Dalla macchina che aiuta Goffredo a respirare si leva un sibilo ritmico ed estenuante. Da due anni la loro camera da letto è stata trasformata per fornire al malato tutto quello che può alleviare le sue sofferenze. La lenta discesa agli inferi è cominciata quando la diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica è stata formulata con certezza. Nessuna cura possibile. Solo una lenta ed inesorabile perdita di funzioni. Dal camminare al muovere le braccia, dal mangiare al respirare. Tutto è sempre più difficile e penoso. Solo la ragione non viene meno, a rendere, se possibile, ancora più crudele la sofferenza. Gloria sa. Gloria si rende ben conto. Gloria è un medico. Ha fatto tutto quello che ha potuto per aiutare il marito. Ha lavorato fino a che le è stato possibile. Ha cercato due brave infermiere che la sostituissero quando non c’era. Alla fine ha preso sei mesi di aspettativa per stare più vicina a Goffredo quando questo si è ulteriormente aggravato. Passa le sue giornate ad accudire il marito. Quando può legge ad alta voce per lui fino a che non vede dallo sguardo appannato che è stanco. Allora si alza e lo accarezza a lungo sulle braccia, sul viso. Poi apre la finestra e fa entrare aria fresca nella stanza. Da mesi Goffredo non riesce più a parlare. Certo per lei non è necessario. Capisce qualsiasi cosa lui le voglia chiedere. Ma la pena è così grande quando si rende conto che lui desidererebbe comunicarle qualcosa di più di un bisogno fisico, che è costretta a voltare la testa per nascondergli le lacrime. La cosa che le ha sempre detto quando ancora riusciva a parlare, sia pure a fatica, era che voleva lei, solo lei vicino a sé quando fosse venuto il momento di andarsene. Lei glielo ha promesso. Ora deve tornare a lavorare, almeno per qualche giorno. Le hanno telefonato dall’ospedale. I mesi di aspettativa sono terminati. Potrà avere altro tempo, ma deve interrompere il periodo pena il licenziamento. Gloria non può permettersi di perdere il lavoro. Ha un disperato bisogno di soldi per assistere Goffredo. Sono cinque giorni che lo lascia alle infermiere e ogni sera quando torna lo trova più abbattuto, più sofferente. Finalmente oggi è l’ultima volta che è costretta a lasciarlo. Ha vissuto questi giorni con l’angoscia di perderlo e non poter tenere fede alla promessa fatta di essere lei a tenergli la mano per l’ultimo viaggio. La strada verso casa le sembra lunghissima. Il traffico caotico del venerdì sera rallenta il rientro. Le sembra che ogni semaforo diventi rosso proprio quando deve passare lei. I pedoni attraversano tutti davanti alla sua macchina. Il viaggio di ritorno a casa le sembra eterno e una fastidiosa inquietudine le prende lo stomaco. Finalmente arriva a casa e la faccia dell’infermiera che le viene incontro nell’ingresso non lascia spazio ai dubbi: suo marito è appena spirato.
Elda
Ogni volta che affronta una curva a causa dell’alta velocità la macchina sbanda, proiettandola verso la portiera posteriore o verso il centro del sedile. Lei è molle, come una bambola di pezza. Chissà perché l’autista corre così forte. Elda non capisce la necessità di tutto quel correre. Un senso di nausea la assale sotto forma di un bolo acido che le brucia la gola. E col senso di nausea una sorta di dormiveglia le ovatta la mente. Flash di scene di cui conosce il contenuto si susseguono sempre più veloci. Nelle scene un uomo le si avvicina. La minaccia. Urla sul suo viso parole piene di insulti. Le stringe un braccio, la strattona. Lei sa già come andrà a finire. Quale la sua colpa questa volta? Non lo ricorda. Ultimamente lui non ha neppure più bisogno di una scusa per massacrarla di botte. Una escalation di violenza l’ha travolta. Tutto era cominciato così bene. Lui era ardente, passionale, proprio come piaceva a lei. La strapazzava un po’ a letto, ma senza farle male. Lei lo provocava, per gioco. Gli diceva che gli piacevano i “machi” e lui non lo era abbastanza. Non ricordava quando il gioco era diventato pesante. Ricordava solo di essersi ritrovata sul pavimento mentre lui la accusava di essere una puttana. Lo specchio le aveva rimandato l’immagine di un viso tumefatto e un occhio viola. Si era sentita sporca. Era colpa sua. Doveva smetterla di provocarlo. Non doveva più fare quello stupido gioco. La sorpresa era stata che lui aveva continuato, nonostante lei avesse smesso di stuzzicarlo. Era diventata una tranquilla donna di casa, proprio come pensava piacesse a lui. Il meccanismo però non si era fermato. Al contrario la situazione peggiorava sempre di più, con l’aggravante che lei si sentiva sempre più in colpa. Si stava convincendo che lui aveva ragione di trattarla male. Non aveva forse rovesciato la tazzina del caffè? E non aveva lasciato una macchia nella sua camicia quando l’aveva lavata? Dunque aveva ragione lui. Non valeva niente. Era una stupida. Per la disperazione aveva cominciato a mangiare. Vuotava il frigorifero con disperata determinazione e ingrassava.
Ora dentro la macchina, sbattuta di qua e di là come un pacco, Elda pensa a quando la molla era scattata. Ricorda il momento esatto. L’attimo in cui tutto le è apparso chiaro. Ricorda di essersi guardata nello specchio. Erano mesi che non lo faceva. Aveva visto una donna grassa, brutta, disperata. Perché aveva permesso che qualcuno la riducesse così? Aveva fatto la valigia e se ne era andata. Era andata ad abitare dall’unica amica che aveva. Solo per poco, aveva promesso più a se stessa che a lei, solo fino a che non avesse trovato un lavoro. Ma lui l’aveva trovata. La rivoleva. Era cosa sua. L’aveva minacciata. L’avrebbe ammazzata se non fosse tornata con lui. Ma se tornava non l’avrebbe più picchiata.
E lei era tornata. Tutto era inesorabilmente ricominciato, ma lei non era più quella di prima.
La macchina si ferma.
-Scenda signora. L’avvocato l’aspetta in questura. Non abbia paura. Invocherà la legittima difesa. Suo marito la picchiava. Avrà tutte le attenuanti.

 

Giovanna

-Auguri, mamma- La telefonata del figlio le aveva fatto piacere, ma sarebbe stata più contenta se lui avesse accettato di venire a cena da lei la sera, per festeggiare insieme il suo compleanno.
Che la figlia non avrebbe potuto venire lo sapeva già da una settimana. Era sempre in giro per l’Italia, per il suo lavoro. Posò il telefono e si diresse verso la piccola cucina, per farsi un caffè. Era fortunata, nonostante tutto. I figli erano tutti e due sistemati. Stava bene di salute, non aveva bisogno di alcuna medicina. Tutte le sue amiche prendevano qualche pastiglia, come minimo per regolare la pressione alta. Si sedette al tavolo e mise un cucchiaino di zucchero nella tazzina. Non era stato facile. Allevare i figli da sola. Quante notti perse davanti alla macchina da cucire per finire in tempo il vestito di una cliente! E quanti patemi d’animo davanti alle prime ribellioni dei figli adolescenti! Non c’era nessuno con cui consigliarsi, ma aveva avuto coraggio nelle decisioni e i figli erano cresciuti bene, nonostante mancasse loro la guida di un padre. Il caffè era buono, forte e caldo come piaceva a lei. Lo sorseggiò lentamente, per far durare il piacere più a lungo. Non si era concessa nessuno svago, nessun capriccio e ce l’aveva fatta. Era riuscita a finir di pagare il mutuo della piccola casa che costituiva ora la sua più grande sicurezza. Aveva fatto studiare i figli, con quel suo lavoro di ago, che sembrava niente, e invece aveva preso campo. Non c’erano ancora nei negozi del centro i bei vestiti che si vedono oggi. Le signore di un certo riguardo amavano il buon taglio, le rifiniture accurate. E lei era brava. Non lo aveva neppure sospettato prima, ma era veramente brava. E creativa. Aveva tagliato modelli originali ed esclusivi e accontentato clienti molto esigenti.
Il caffè faceva il suo dovere nelle vene di Giovanna e lei si sentiva meglio. Alla delusione di celebrare il compleanno da sola subentrò il pensiero di fare ancora un tentativo. C’erano sempre le sue amiche. Fece alcune telefonate. Sembrava che quel giorno tutte avessero di meglio da fare che stare con lei. Non si sarebbe fatta abbattere dalle contrarietà. In fondo era anche colpa sua. Avrebbe dovuto chiamare prima. Organizzare qualcosa con qualche giorno di anticipo. È normale che all’ultimo momento le persone non siano disponibili.
Bene, sarebbe uscita. Qualche giro per vetrine, Magari un cinema.
Si vestì accuratamente, si truccò persino un po’. Prese la borsetta migliore e uscì.
Quando fu fuori dal portone si guardò intorno e si sentì stupida. Dove andava da sola? Cosa andava a fare? Incerta si diresse verso i giardini del quartiere. A quell’ora, con i bambini a scuola e gli adulti al lavoro c’erano solo alcuni pensionati che non avevano niente da fare. Come lei. Si sedette su una panchina libera, come faceva ogni tanto. Almeno il tempo era bello. C’era un bel sole tiepido, da fine inverno, quando si sente nell’aria il preludio della primavera.
-Posso sedermi?- La voce gradevole l’aveva distolta dai suoi pensieri. Ancora lui! Era un po’ di tempo che un signore distinto, pressappoco della sua età, veniva a sedersi vicino a lei. Ogni volta che andava nei giardini se lo ritrovava intorno. Non gli aveva mai dato confidenza, ma oggi si scoprì curiosa di guardarlo meglio. Aveva un viso interessante, occhi chiari, intelligenti e vivaci, non liquidi come hanno i vecchi. Era curato e odorava di buon dopobarba.
-Prego, si sieda pure. Il parco è di tutti- rispose Giovanna.
-Non vorrei darle fastidio. Ho notato che è una persona molto riservata.
-E’ vero, ma oggi forse ho bisogno di un po’ di compagnia.
-Dispiaceri?
-No, malinconia. E’ il mio compleanno e non sono riuscita ad organizzare niente. Né con i miei figli, né con le mie amiche. Così trascorrerò questa giornata da sola.
-Non permetterei mai che a una bella signora come lei tocchi un compleanno così triste. Permette che la inviti a cena?
Giovanna rimase a bocca aperta. Davvero poteva ancora interessare a un uomo? Urgeva prendere rapidamente una decisione. Era padrona del suo tempo e abbastanza grande da saper badare a sé stessa. Non aveva più doveri nei confronti dei suoi figli. Perché dire di no? In fondo era vedova!
La moglie del medico
Enrico Setti era un medico. Non un medico qualsiasi. Era il ginecologo più famoso e più richiesto della città. La mattina presto era in ospedale, dove visitava le pazienti ricoverate in ginecologia e in ostetricia. Due volte la settimana era di turno in sala operatoria, due volte alle ecografie, un giorno al day-hospital. Stipendio mensile 3.800 euro. Le pazienti lo adoravano.
Il pomeriggio correva allo studio, dopo aver mangiato un panino in fretta e furia. Le pazienti private lo aspettavano chiacchierando. Tutte lo adoravano. Ne visitava almeno dieci ogni pomeriggio. 250 euro a visita. Le ricevute le faceva una volta sì e tre no.
Il sabato operava in clinica. Per lo più cesarei programmati. Il suo compenso era di 6.000 euro. Le partorienti lo adoravano.
Se qualche sua paziente decideva di partorire fuori del suo orario di servizio in ospedale e lo chiamava supplicandolo di raggiungerla, altrimenti senza di lui non avrebbe potuto assolutamente partorire, correva a soccorrerla. Anche la notte, o la domenica, a Natale, a Pasqua. A qualsiasi ora. Per un modesto compenso extra. 1.000 euro. Le puerpere lo adoravano.
Anche le infermiere e le ostetriche lo adoravano. Persino la suora della clinica privata aveva un debole per lui.
Quando l’infarto arrivò aveva appena compiuto cinquantadue anni.
I due figli e la moglie avrebbero potuto adorarlo, se solo l’avessero visto un po’ di più.
Al funerale c’era moltissima gente. Molte donne piangevano. La moglie aveva un’espressione indecifrabile. Se ne stava immobile e chiusa nella sua pelliccia di visone dall’aria molto costosa e guardava dritto davanti a se, gli occhi asciutti, la bocca tirata, le mani bianche che stringevano una pochette intonata con la pelliccia.
La solita pettegola bene informata osservò che il dottor Setti aveva guadagnato montagne di soldi, che non aveva mai avuto il tempo di spendere.
– Se li godrà tutti la moglie, – disse- anzi, la vedova.

 

Margherita

Margherita piangeva come una fontana quel giorno. Sua madre chiamata dalla cameriera personale era accorsa per capire il motivo di tanta disperazione e porvi rimedio. Tra i singhiozzi Margherita aveva spiegato che era successo, alla fine era successo.
– Ma cosa, figlia mia, cosa è successo?
– Quello che dicevate, madre, che succede alle fanciulle. Che prima nel quadro sono rappresentate con un bocciolo di rosa in mano e poi la rosa fiorisce e….
Nel suo modo confuso di spiegare Margherita voleva dire alla madre che si era mestruata per la prima volta.
Per un osservatore dei nostri tempi l’atteggiamento di Margherita potrebbe sembrare esageratamente drammatico e anche un po’ sconclusionato, ma bisogna pensare che il tutto accade agli albori del 1600, nel palazzo di Strada Nuova di una delle famiglie più ricche di una Genova lanciata nei commerci e nelle imprese finanziarie. Bisogna inoltre sapere che le fanciulle delle famiglie in vista venivano sposate ancora bambine a vecchi nobili assecondando le “ragioni” e le convenienze sociali ed economiche delle parti in causa. La famiglia della sposa stabiliva una cospicua dote da recapitare allo sposo contestualmente alla ragazza. Lo sposo poteva amministrare il patrimonio e il tutto era regolamentato da un bel contratto notarile. Le fanciulle abitavano nella casa paterna fino al raggiungimento nell’età fertile, dopo di che, intorno ai 12, 13 anni raggiungevano la casa dello sposo.
– Figlia mia, ti devi rallegrare perché finalmente potrai raggiungere il tuo sposo!-
E qui le lacrime raggiungono il parossismo. Margherita è terrorizzata.
– Madre, il mio sposo l’ho visto giorni or sono, nella caminata. La porta era socchiusa ed egli parlava di certi affari con il mio signor padre. E’ orribile, vecchio, gobbo, con delle mani secche che paiono artigli. Le gambe storte gli uscivano dalle brache come bastoni nodosi. Il viso poi! Occhi piccoli, naso a becco, denti neri e marci!
– Figlia mia, fidati del giudizio di tuo padre, è molto ricco.
In quel tempo l’importante è l’unione dei patrimoni, non certo dei cuori!
– Ma madre mia, se con lui io devo fare quello che, Dio mi perdoni, (e qui Margherita si fa il segno della croce) mi avete spiegato si fa con il signor marito, come farò?
Altre lacrime e altri segni di croce.
– Figlia, ascolta le mie parole. Quando sarà il momento tu non dovrai fare nulla, basterà che tu chiuda gli occhi e dica quattro volte la preghiera alla Vergine Maria, protettrice della nostra bella città e, quello che tu temi, sarà finito. Il tuo saggio padre ha scelto per te un uomo molto vecchio sicché, anche se non ti piacerà, per pochi anni lo avrai da sopportare. Quando morirà è legge della nostra città che la tua dote resti nelle tue mani e, se tuo marito nel frattempo avrà saputo ben amministrarla, (cosa di cui il padre si è ben assicurato) ti sarà restituita triplicata, persino quadruplicata. Sarai una donna ricca. E libera.Ora vieni con me bisogna dare la lieta notizia a tuo padre e fare tutti i preparativi perché tu lasci questa casa e ti rechi presso il tuo sposo. Bisognerà preparare gli abiti neri e abbandonare codeste vesti chiare da bambina. Ci sarà molto da fare.
Per la gioia di Margherita e la consolazione dei lettori il marito morì in capo a tre anni e lei si ritrovò ricca, giovane e vedova.


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