La risacca appoggiò la bottiglia su un cuscino di sabbia, con naturale delicatezza. Asciugò il mare attorno al vetro liberando bolle scintillanti, quindi la depose ai piedi dell’Uomo senza Vita.
L’aspetto di quell’oggetto sapeva di antico, di sale ma inspiegabilmente anche di terra.
L’Uomo senza Vita si distolse dal nulla dell’orizzonte assolato, si alzò e raccolse quel dono del mare. Tentò di decifrarne l’etichetta, ma senza troppa fortuna. Nessun messaggio nascosto, nessun tappo a chiuderne il collo. Solo una frammentaria indicazione, nella metà della carta che il mare aveva risparmiato: “..averga”. E qualcos’altro: un punto su una mappa stilizzata, forse l’area di produzione. E infine l’ultimo elemento, sul bordo inferiore: “357”.
L’Uomo senza Vita non si era mai chiesto nulla, nella sua trascurabile esistenza. Si era limitato semplicemente a fare quanto suo padre si aspettava da lui. Un onesto lavoro, nessun vizio apparente, una quotidianità senza fuochi d’artificio. Soppesò la bottiglia, chiuse gli occhi e si sentì risucchiare dal suo mistero. Una volta in casa, accese il pc. Langhe. A giudicare dalla mappa impressa sull’etichetta, l’origine della bottiglia poteva essere quella. Cercò tra i vini di quelle terre. Google gli rivelò un nome che non aveva mai sentito prima: “Verduno Palaverga”.
La mattina successiva, l’Uomo senza Vita cercò con foga non usuale le chiavi dell’auto, ferma da un mese nel vialetto e si mise in viaggio.
Non aveva mai visto troppi luoghi, da quando era venuto al mondo. Ma Verduno era qualcosa di più, di un posto. Lasciò l’auto a pochi passi dal belvedere, poi si addentrò all’interno del paese senza aspettarsi granché. Per una volta, almeno, la curiosità gli aveva dato un motivo per respirare. Scelse un piccolo bar, anonimo ma dignitoso, posò la bottiglia sul metallo lucido del bancone senza dire nulla.
“Vuole sapere di che cantina è?”, domandò il barista dopo aver rimirato il vetro.
“E’ quella del Sergio. Il miglior barolo della zona. Laggiù”.
L’Uomo senza Vita si avventurò nella direzione indicata dal barista e attraversò un versante lucente di pampini e brulicante d’uva ancora verde. Giunse davanti a una grande casa rossa. Ad accoglierlo un aroma di mosto e legno appena percepibile.
“C’è qualcuno?”, chiese ad alta voce.
Comparve un attempato signore vestito di bianco.
“Sì?”.
L’Uomo senza Vita si limitò ad allungare al vecchio la bottiglia. Il volto di Sergio si aprì in un sorriso stupefatto.
“Venga – disse – venga con me”.
Sul retro, un nutrito gruppo di persone si dava un gran daffare ad allestire una lunga tavola. Sergio non smise di sorridere, anzi battè le mani l’una contro l’altra come se fosse impaziente di rivelare qualcosa.
Fece accomodare l’ospite a capotavola. Una giovane donna gli si accostò con una bottiglia simile alla sua, ma piena. Viso meraviglioso, lo guardò negli occhi senza giudicarlo e gli riempì il bicchiere. Altri giovani iniziarono a distribuire in ogni punto della tavola piatti bianchissimi e grandi con, al centro, un “nido” di tagliatelle. Sopra, un delizioso e invitante sughetto di porcini tagliati a strisce sottili.
“Prego, amico”, disse Sergio al nuovo arrivato.
L’Uomo senza Vita onorò l’invito, e così fece con le crocchette ripiene di toma piemontese e col salame di Turgia. Il barolo era una meraviglia a ogni sorso. Assaporarlo al centro della vigna assolata di fine agosto costituiva un ingrediente in più.
A un certo punto Sergio si alzò in piedi.
“Lasciate che vi parli del nuovo amico – disse – Non conosco il suo nome, non so da dove venga, ma si è presentato col migliore degli omaggi”.
Alzò la bottiglia dell’Uomo senza Vita. “La 357.
È tornata”. Seguì uno scroscio fragoroso di applausi. Sergio prese il bicchiere e lo alzò verso di lui, il rosso intenso del vino a filtrare la luce del sole.
L’Uomo senza Vita ricordò di avere un nome, e tornò a usarlo in quel luogo lontano dal suo mondo, dalla sua non-vita. Senza saperlo aveva riportato a casa l’unica dispersa tra le duemila bottiglie dell’azienda. Da cent’anni lo stesso vetro, miracolosamente, tornava alla base per abbracciare il barolo di sempre. Non la 357, utilizzata per il varo del piccolo yacht di un bizzarro armatore che allo champagne aveva preferito il rosso delle Langhe. Sulla chiglia, però, la bottiglia non si era rotta. Fu così che era iniziato il suo viaggio.
“Mai varo fu più fortunato”, pensò l’Uomo tra sé e sé.
Accanto alla vite aveva ritrovato la vita. Brindò alla sua nuova esistenza, alla 357 e al piacere di incontrare finalmente se stesso.