FEDERICA di Katya Garda
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Il motorino non parte e sta iniziando a piovere. Forse è meglio che risalga in casa e provi a parlargli.
Ma stasera è troppo ubriaco e ho troppa paura. Ho il sapore del sangue in gola; la mia piccola è al riparo sotto la tettoia: mi guarda spaventata con i suoi grandi occhi neri.
Non posso tornare da lui, non posso riportarla da lui.
Il motorino ora è partito e pioviggina appena, faccio un cenno ad Alice, che corre da me; le infilo il casco e le raccomando di stringermi forte.
Partiamo.
Mio padre oggi farà il turno di notte e mia madre ci ospiterà. Davanti al portone dei nonni Alice mi stringe e mi dice: “Grazie!”.
Lei qui si sente al sicuro.
Mia madre non mi chiede niente, mi disinfetta il labbro e prepara del latte alla bambina.
In silenzio tutte e tre ci infiliamo nel lettone; Alice si appoggia al mio petto e si addormenta piangendo.
Mia madre bisbiglia: “Devi andartene o ti ammazzerà”.
Alle sei sono già sveglia.
Mio padre in cucina mi prepara il caffè, mi da un bacio sulla fronte e io scoppio a piangere.
Con la testa china sul tavolo fissiamo le tazzine e non scambiamo neanche una parola, entrambi persi nei nostri pensieri.
Alice è pronta: la carico sul motorino e la porto all’asilo.
Il labbro si è gonfiato e ho la guancia livida, ma è presto e a scuola non incrocio nessuno.
Maestra Pamela accoglie Alice con un gran sorriso, fa finta di non accorgersi della mia faccia e io le sono grata.
Alle 8.30 inizia il mio turno di lavoro, nel mio armadietto ho un po’ di fondotinta e mi copro i lividi come posso.
Al lavoro sistemo frutta nelle cassette a testa bassa e non parlo con nessuno.
Nella pausa pranzo mangio un panino controvoglia e fumo una sigaretta nel parcheggio, seduta su un gradino nascosta tra le auto, mentre ripasso i quiz per la patente.
Se riuscissi almeno a prendere la patente, niente più freddo e pioggia in motorino.
Finisco il turno e prima di uscire, ripasso il fondotinta per coprire il livido sulla guancia, ma il labbro è troppo gonfio e non riesco a nasconderlo.
Faccio un gran respiro, tiro su il cappuccio della felpa, indosso gli occhiali scuri e corro all’asilo a prendere Alice.
La mia piccolina come sempre mi accoglie a braccia aperte e mi grida: “Mamma!.
Mi stringe forte e io scoppierei a piangere, se non fosse che a quest’ora l’asilo è pieno di gente. Il respiro è pesante provo a deglutire, mentre asciugo le lacrime sotto gli occhiali, prima che si possano vedere.
Mangiamo un gelato, la porto al parco; lei chiacchiera felice e gioca con le amiche. Accarezza un labrador e il cane ricambia leccandole la faccia. Adora i cani, forse un giorno le prenderò un cagnolino.
Continuo a fare i miei quiz seduta sulla panchina.
L’aria inizia a diventare più mite e le giornate si stanno allungando: fra due giorni è primavera.
Carlo mi ha scritto: mi ha chiesto scusa, mi ha detto che stasera torna presto, che non vuole più bere, che mi ama e che siamo la sua vita.
Alle otto la cena è pronta. Alice ha già mangiato: è pulita e profumata e, avvolta nella sua coperta preferita, guarda i cartoni sul divano.
Io e Carlo mangiamo, chiacchieriamo e mi dice che stasera non toccherà neanche una goccia di vino.
Continua a baciarmi e a chiedermi scusa. Sono felice: lui vuole essere migliore, lo so.
Andiamo a letto, facciamo l’amore ci addormentiamo abbracciati.
Alle due riceve un messaggio: si alza, si prepara e quando gli chiedo cosa sta facendo, mi risponde: “Io esco”.
Rimango sveglia fino alle quattro, poi provo a dormire. Alle sei sono in cucina a bermi un caffè e a piangere.
Alle sette sveglio Alice, la preparo e così inizia la giornata: asilo, lavoro, parco e un giornalino in edicola; lei che ride con le sue amiche sulle giostre.
Carlo è sparito.
Non mi scrive nemmeno un messaggio e non risponde ai miei.
Io e Alice ceniamo sul divano guardando i cartoni. Crolla avvinghiata al mio petto e la porto a letto.
Carlo è scomparso e sono molto arrabbiata; lascio le chiavi nella serratura della porta di casa, stanotte non voglio che rientri. Gli scrivo: “vaffanculo!”
Chiamo mia madre che mi ripete: “Lascialo o ti ammazzerà”
Piango, provo a dormire, ma alle tre sono ancora sveglia. Ascolto ogni minimo rumore, aspetto che torni, penso che torni. Dormo due ore.
Alle sette suona la sveglia, guardo il telefono, neanche un messaggio.
Mi lavo la faccia, i lividi si vedono ancora e li copro con il fondotinta; il labbro si è sgonfiato.
Devo andarmene.
Ricomincia la giornata, sempre quella, ma oggi alle cinque Alice ha la prova di nuoto.
Carlo lo sa ma non si fa vedere.
Mia madre è venuta: Alice, felicissima e orgogliosa, le mostra il costumino rosa, la cuffia gialla e le sue minuscole ciabattine di plastica viola. Ha un po’ paura, ma poi nuota come un pesciolino.
Torniamo a casa e Alice non smette di parlarmi della sua insegnante di nuoto, dei suoi nuovi amici, di come è bello stare in acqua e di come si sentisse leggera. Non mi chiede mai del padre.
Accendiamo la televisione, ma dopo due minuti crolla sul divano e la porto a letto.
Lei è la mia gioia, la vita, la mia vita!
Devo andarmene.
Alle dieci sento le chiavi girare nella toppa mentre sto lavando i piatti; spengo la televisione.
Carlo barcolla, si toglie le scarpe a fatica lancia la giacca sulla sedia e fa cadere chiavi, monete e portafogli.
Va in bagno: lo seguo provo a parlargli, ma sbatte la porta e la chiude a chiave.
Puzza di vomito e sudore, misto a un profumo femminile intenso.
Torno in cucina, accendo la televisione e scoppio a piangere.
Carlo arriva in cucina, apre il frigorifero e smangiucchia qualcosa in piedi, appoggiato al muro, mentre messaggia.
Gli chiedo dove è stato con chi. Lui non alza nemmeno lo sguardo.
Mangia e messaggia. Mi ignora.
Gli ricordo che oggi avrebbe dovuto venire alla prova di nuoto. Gli urlo che sono esausta, stanca di lui , del suo comportamento, di questa vita.
Gli dico: “Me ne vado!”.
Alza lo sguardo, mi fissa negli occhi e mi tira un pugno che mi scaraventa a terra. Credo mi abbia rotto il naso. Il dolore è atroce. Non riesco a respirare, sento il sangue in bocca, mentre mii appoggio alla sedia e cerco di rialzarmi.
Voglio andarmene.
Mi tira uno schiaffo e mi fa ricadere, poi mi prende a calci.
C’è sangue ovunque.
Non capisco più niente, non vedo più niente.
La mia bambina è sulla porta della cucina: devo abbracciarla, voglio abbracciarla.
Svengo.
Alice ha il suo cagnolino, glielo ha regalato mio padre. Ora non è più un piccolo pesciolino, ma un vero pesce: nuota benissimo e passa ore in piscina.
Li vedo tutti e tre quando vengono a trovarmi.
Loro piangono sempre, ma io sono felice di vederli.
La mia bambina cresce a vista d’occhio, io invece avrò per sempre 24 anni.
Mi chiamo Federica e sono morta il primo giorno di primavera.
“La passeggiata” di Cynthia Collu
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La donna che le aprì la porta le parve prosciugata e secca come corteccia di sughero. Ma forse era per via dei crampi allo stomaco. Da quando aveva preso la decisione, non la lasciavano respirare. La vecchia guardò furtivamente oltre le sue spalle, poi le fece cenno. Appena entrata, Anita vide subito la vasca. Era ingombra di lenzuola sporche di sangue, gettate dentro a fare mucchio. Formavano una strano animale accartocciato su se stesso, con corti ali, rosse e inquiete. Anita distolse in fretta lo sguardo.
La donna la fissò, e nel farlo strizzò gli occhi. Li aveva molto distanziati dal naso, e le davano l’espressione spaventata di un cavallo.
Spogliati, le disse. Le indicò il lettino.
Anita si sforzò di guardarlo. Era al centro della stanza. Sopra era stato messo un lenzuolo bianco pulito. Dalla finestra aperta entrava la luce del giorno, e lo illuminava in pieno. Le sembrò un sudario. Si vide avvoltolata dentro, già pronta per essere gettata via. Rabbrividì.
Che aspetti? disse ancora la vecchia.
Anita si avvicinò al lettino. Accanto c’era un piccolo sgabello di legno; notò che il ripiano era scheggiato. Si tolse la gonna e la maglietta e ce le appoggiò, facendo attenzione a non urtare la mano contro le schegge. Le mutande le piegò con attenzione. Prima di metterle insieme agli altri indumenti, esitò.
Muoviti! la incitò la donna. Batté ripetutamente la mano sul lettino, le dita rigide e aperte come chele di granchio. Anita cacciò via l’immagine di quelle dita su di lei, si sdraiò e divaricò le gambe. Voltò la testa di lato, e vide che addossata alla parete c’era una piccola cucina. Il fornello era acceso e sopra bolliva un pentolone.
Cos’è? chiese.
Acqua saponata. E’ questo che si usa nel tuo caso. Si mette il sapone nell’acqua e si fa bollire. Adesso vedo se è pronto.
Mentre la vecchia parlava gli occhi sembravano guardare all’indietro, e i bulbi fuoriuscivano dalle orbite, bianchissimi.
Anita distolse i suoi.
La donna prese una pera di gomma e ci attaccò una cannula. Riempì la pera con l’acqua saponata bollente e le si avvicinò.
Fra un po’ sarà tutto finito, disse.
Le cacciò con forza la cannula dentro alla vagina.
Anita si agitò, cercando di sottrarsi a quell’intrusione.
Cristo, ferma, se no ci mettiamo più tempo!
Lei si morse le labbra. Sentiva il cuore che le ritmava una canzone nelle orecchie, fin su alle tempie, ma non riusciva a individuarne la melodia.
Pensò ad Adriano. Il più grande errore della sua vita, Adriano. Quel bastardo se ne stava tranquillo a casa, neanche aveva voluto accompagnarla. Come se non fosse colpa sua. Al porco non piaceva usare il preservativo. Diceva che lui voleva sentire la carne, non la plastica. Che stupida era stata a…
La vecchia schiacciò forte la peretta, e questa volta il dolore fu terribile. Anita urlò.
Stai ferma! la rimbrottò la donna. Anita la fissò. Gli occhi bianchissimi dell’altra nitrirono nella sua testa, e tutto parve esplodere in lame incandescenti. Sto per morire, pensò.
La donna estrasse la cannula, ritornò al pentolone e riempì ancora la peretta.
Buona, se stai buona dura poco, le disse quando le fu di nuovo accanto. Le infilò dentro la cannula, e premette con forza. Una tigre cominciò a giocare con le carni di Anita. Lei si sentiva molle, umida e indifesa. Basta! disse alla tigre.
La vecchia scosse la testa e schiacciò ancora. Poi tornò ai fornelli e per la terza volta riempì la peretta. Mentre le rinfilava la cannula Anita vide la sua pupilla contenere un mostro dalla testa enorme e dagli occhi stralunati. Ma era pur un’immagine viva, lei era ancora viva, e ci si aggrappò con tutte le sue forze.
La donna schiacciò ancora la peretta e Anita si trasformò in dolore. Non distingueva più le sue parti, braccia gambe busto testa, esisteva solo il dolore, immenso, e lei ci viaggiava dentro. Volava.
Finalmente la vecchia tolse tutto. Bene, disse. Sbuffò dal naso la tensione e diede ad Anita una leggera carezza. Alzati.
Lei si alzò. Tremava. Si chiese se sarebbe riuscita ad arrivare sino alla porta.
Vai a casa a riposarti, le disse la vecchia. Poi aggiunse: Se ti viene un’emorragia corri in ospedale. Ma non fare mai il mio nome. Mi hai capita?
Anita annuì. Si avvicinò ai vestiti con le gambe larghe. Era costretta a tenerle così, se solo provava a chiuderle la tigre ricominciava a giocare.
Non ce la faccio, disse.
Passa subito. Pagami ed esci, che aspetto un’altra persona.
Lei si vestì con cautela, stringendo le labbra per non piangere. Quando mise le mutande si accorse che perdeva sangue.
Prendi, disse la vecchia, e le tese un pannolino.
Anita lo sistemò nelle mutande e le tirò su con precauzione. Poi diede i soldi alla donna.
E’ normale, il sangue, non ti spaventare, disse l’altra, rabbonita.
Andò verso il lettino e non le prestò più attenzione.
Anita uscì. Mentre chiudeva la porta vide che la donna appallottolava il lenzuolo sporco di sangue e lo gettava nella vasca, a far mucchio con gli altri.
Per strada camminò rasente ai muri, appoggiandosi con la mano. Scansava gli sguardi delle persone che incrociava: era evidente che sapevano tutto. Ogni tanto le arrivava l’odore del mare.
Arrivò a casa mentre i dolori aumentavano. Sentiva il bisogno impellente di andare in bagno, ma prima passò dallo studio.
Il marito era alla scrivania, e stava correggendo dei compiti. Lei notò la calvizie incipiente, il cranio roseo e appuntito che si faceva strada tra i capelli scuri. Ma per la prima volta da mesi quella vista non le diede fastidio. Si rendeva conto del suo errore. Non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo, il suo errore. Adesso sapeva di essersi ingannata e l’idea che lui fosse lì, come sempre, così saldo e preciso ed accogliente le faceva bene. Sentì salirle dentro una felicità tranquilla, come una carezza, che la rassicurava e la commuoveva.
Lui alzò la testa per salutarla e le sorrise.
Com’è andata la passeggiata? le chiese.
Bene, rispose Anita. Mi ha fatto davvero bene uscire. Distrarsi fa sempre bene.
Tacque un attimo poi aggiunse in un sussurro: E’ bello tornare a casa, Luca.
“Il cielo sopra Ustica” di Cynthia Collu
Cominciò lentamente a contare i passi.
Era un trucco che aveva escogitato da bambina, quando se ne stava da sola in cortile, arrabbiata per qualcosa ch’era successo e che la faceva soffrire. Camminava e misurava i passi. Uno, due, tre, quattro…Continuava a contare finché l’irritazione e il dolore non passavano. Allora si fermava. Si guardava intorno, meravigliata di aver camminato tanto e di ritrovarsi sempre lì, sotto la magnolia ritta come una sentinella, con le foglie lanceolate che puntavano il cielo.
Anche adesso cercava di allontanare la rabbia. Contava.
Riuscì ad arrivare sino a cinquanta prima che Luciano le tornasse in mente. Le sue mani secche, screpolate dalla psoriasi, sapevano diventare piume sopra di lei. Ma ormai appartenevano al passato. Erano mesi che lui la ignorava. Così, all’improvviso. Si era irrigidito in qualche sua convinzione, i soliti preconcetti nei confronti di Nadia, se la prendeva per qualcosa che lei non faceva, o che faceva, o che aveva fatto male, sa il diavolo cosa voleva quell’uomo da lei, ogni tanto entrava in crisi e si dimenticava della sua esistenza. I primi anni Nadia non se ne era preoccupata, e poi succedeva raramente, lui sembrava così innamorato, gentile.
Col tempo era capitato sempre più spesso. Erano crisi che lui covava con ostinazione, e poi un giorno, improvvisamente, cominciava a trattarla male. Lei gli si avvicinava per dargli una carezza e lui le allontanava la mano. Non le rivolgeva la parola se non per offenderla. Andava avanti così per settimane, finché la crisi non esplodeva. Allora litigavano come pazzi, si mettevano le mani addosso. Poi se ne stavano entrambi seduti sul divano, esausti, davanti alla televisione spenta. Ricominciavano a parlarsi, finalmente la loro vita normale, Nadia non chiedeva altro che un po’ di normalità da quel rapporto.
Adesso lui era di nuovo in crisi, e lei sognava di alzarsi di notte nella luce fioca della luna, lo individuava nel buio, addormentato di sbieco sul letto matrimoniale, gli metteva le mani al collo e lo strangolava. Così finalmente riusciva ad addormentarsi.
Cinque mesi di silenzi. D’allora non l’aveva più sfiorata con un dito. Nadia a volte impazziva dalla voglia di fare l’amore. Cercava in lui qualche segnale dell’antico desiderio, Luciano era sempre stato un amante voglioso, impaziente. Ma si era trincerato nella sua delusione, si nutriva di quella.
Deluso di che, poi? Forse era semplicemente annoiato della propria vita, o della vita che conducevano insieme, il che in fin dei conti era la stessa cosa. Inutilmente Nadia gli aveva chiesto di parlarne. Che gli aveva fatto, che cosa era successo. In che cosa poteva cambiare. C’era forse un’altra? Lui l’aveva guardata con odio, così le era sembrato, gli occhi l’avevano scrutata dentro alle pupille, fino in fondo, dove lei si era ritrovata piccola e deforme.
Magari, le aveva risposto.
Figlio di puttana. Figlio di puttana!
Scacciò le lacrime e si concentrò sui passi. La strada era piena di cartacce, riuscì a contare una trentina di scontrini fiscali, di ogni tipo e grandezza. Erano stai gettati dappertutto: sulle aiuole, sui marciapiedi, accanto ai negozi, nei pressi dei bidoni della spazzatura. Passò davanti al negozio del panettiere e subito dopo notò per terra uno scontrino rilasciato dall’esercente; più avanti ce n’erano altri, gettati a singhiozzo, si dirigevano qua e là per le strade, ma difficilmente raggiungevano i cestini dei rifiuti. Sembrava che le persone aspettassero appositamente di allontanarsi dal luogo dell’acquisto per liberarsene. Nadia se le figurò guardarsi in giro con circospezione, le dita che cincischiavano la carta per poi aprire appena il palmo della mano e far scivolare il foglietto a terra. Anche il figlio di puttana aveva questo brutto vizio.
Svoltò dietro l’ufficio postale. L’abitazione d’Isolina si trovava poco distante. Nadia doveva attraversare ancora la piazza, passare davanti alla chiesa e imboccare la via privata dove sarebbe finalmente giunta a destinazione.
La prima cosa che colpiva d’Isolina era la statura, un metro e quarantotto di altezza, almeno così diceva lei. Guardava la gente con la testa sollevata, gli occhi svagati, da miope, scopriva i dentini aguzzi e sfoderava un sorriso disarmato, pronto al pianto, e le persone le rispondevano con un sorriso rassicurante: non c’era niente di strano in lei, non avevano davanti una nana, solo una deliziosa donnina in miniatura.
Nadia non aveva mai creduto che Isolina arrivasse al metro e quarantotto. Una volta, anni prima, quando erano ragazze, l’aveva vista togliersi le scarpe con i tacchi e letteralmente accorciarsi, era quasi sparita sotto i suoi occhi come Alice dopo aver mangiato il fungo.
“Dio, sei proprio uno scricciolo”, le aveva detto, “ma che razza di trampoli porti!”
“Dodici centimetri, la misura giusta”, aveva risposto l’amica. Solo quando aveva aggiunto “donna nana è tutta tana“ Nadia aveva capito. Avevano riso entrambe.
Quello era stato anche il giorno che aveva notato il particolare della pelle. Le era sempre sembrata bella, la pelle d’Isolina, bianca e liscia come quella di un bambino. Invece quella volta, mentre si rimetteva le scarpe guardandola dal sotto in su con aria di sfida, Isolina era entrata nel raggio di luce proveniente dalle persiane della cucina. Così Nadia gliela aveva vista: una pelle tesa, delicata e sgualcibile come seta. Dietro a quel bianco c’era un fermento, un brulichio grigio, come se le rughe già premessero, impazienti di uscire. Sulle tempie la pelle era tanto sottile che si vedevano le vene pulsare, con vita propria, due sanguisughe verdastre.
Nadia aveva distolto il viso per il ribrezzo, aveva guardato la stanza disadorna, aveva notato i mobili dozzinali, il pavimento con le piastrelle consumate. Aveva provato il desiderio immenso di fuggire.
Isolina si era allontanata senza far rumore, scivolando sui tacchi come se avesse sotto le pattine. Era entrata in bagno e aveva iniziato a stendersi sotto gli occhi una crema di bellezza. Nadia l’aveva raggiunta.
“Meglio prevenirle, le rughe, piuttosto che curarle!” le aveva gridato Isolina sbirciandola dallo specchio.
Lei non aveva risposto.
Era stata per tutto il tempo in silenzio, osservando l’immagine riflessa delle mani esili e nervose dell’amica che si muovevano a scatti sulla superficie di cristallo.
Isolina le si parò davanti in mutande e reggiseno. Era scalza, e così bassa le sembrò un bambino. Portava i capelli biondi tagliati corti e non aveva un filo di trucco. Il seno era piccolo, quasi inesistente, e i fianchi si allargavano bianchi e asciutti sotto l’ombelico. Puntò il viso in alto per salutarla.
“Litigato ancora con Robert?” chiese. Gli occhi chiari ebbero un lampo divertito.
Si era fissata che Luciano assomigliasse a Robert Redford da giovane, quando aveva girato Butch Cassidycon Paul Newman. Isolina diceva che se li sarebbe volentieri scopati tutti e due, che Paul era più bello ma Robert era più sexy, le faceva venire le voglie solo a guardarlo.
Isolina non si era mai sposata. Dopo pochi mesi troncava ogni relazione e subito dopo faceva lunghe telefonate a Nadia spiegandole che cosa non andava con l’altro, sbuffava, esigeva il consenso dell’amica, si proclamava infelice. Il record era stato di un anno, con un artista, uno che a letto le declamava versi. Poi si era stufata anche di lui, aveva preso tutti quei fogli scribacchiati e li aveva gettati in pattumiera. A Nadia spiegava che gli uomini erano tutti dei bastardi traditori, che erano buoni solo per essere scopati. Lei non ne voleva di palle al piede.
Spesso si divertiva a raccontarle dei suoi amanti. “Ti guardano con l’occhio lesso”, le diceva, “e tu sai già dove vogliono arrivare. Non è che a me dispiaccia l’uccello, anzi, è uno dei pochi piaceri della vita, però qualche volta, se s’interessassero anche alla mia testa e non solo alla mia passera…” E rideva, scuotendo la zazzera corta. Anche Nadia rideva. Con lei Isolina si lasciava andare, ci andava giù pesante. Nadia n’era lusingata, lo considerava un modo per dirle che erano alla pari, single e sposata, non c’era proprio niente che si frapponesse alla loro amicizia, nessun uomo, tanto meno un marito qualsiasi.
“Sono stata con uno”, le aveva raccontato una volta, “matto come un cavallo. Era cattolico praticante. Quando siamo andati a letto ha messo subito le cose in chiaro. Per lui scopare equivaleva tradire sua moglie, perciò con le altre doveva praticare il cunnilinctufellatio,così non era un vero tradimento. Capito come lo rendeva elegante, quel porco, il volermelo mettere in bocca?” E rideva, rovesciava la testa, scopriva i denti indifesi, nel racconto gli occhi chiari avevano una luce crudele. Nadia la guardava. Non riusciva a vederla cattiva, solo una bambina alle prese con un gioco che l’affascinava. A lei invece quei racconti mettevano l’agitazione.
Le disse di un altro con cui faceva l’amore in albergo, in pieno pomeriggio. Quando raggiungeva l’orgasmo ululava felice ai quattro venti che il seme era stato sparso, e lei si vergognava come una ladra. Un altro ancora amava sdraiarsi a pancia in su e voleva che lei si accucciasse e gli facesse la pipì in bocca. Mentre la faceva lui la leccava.
Nel sentire queste cose Nadia si eccitava suo malgrado, le guance calde e un filo di sudore proprio dietro le orecchie. “Basta, basta”, diceva allora, “il tuo elenco di stranezze non finisce più!”
Ma la volta successiva chiedeva ancora nuovi particolari, voleva sapere di tutti quanti. Per esempio di quell’uomo che aveva proposto a Isolina di far l’amore insieme alla propria moglie. “E’ più brava di me, non te ne pentirai”, le aveva detto strizzandole l’occhio.
Provava invidia sentendo l’amica descriverle quegli incontri curiosi, quell’umanità per lei sconosciuta. Bizzarra.
Lei non aveva grandi esperienze di uomini. Era nata con Luciano. Stava morendo con lui.
Non abboccò alla provocazione del nome Robert; Isolina sapeva già tutto, al telefono le aveva raccontato per filo e per segno come stavano le cose con Luciano.
“Vieni a dormire da me” le aveva proposto l’amica. “Puoi fermarti quanto vuoi, è ora che tu gli faccia capire che non scherzi.”
Nadia aveva risposto di sì, che gliela avrebbe fatta pagare. Ma sapeva che non sarebbe riuscita a stare lontana da Luciano per più di qualche sera.
Di notte le piaceva osservarlo mentre dormiva, se ne stava rannicchiato in posizione fetale, respirava dolcemente, l’alito appena percettibile, sembrava volerle dimostrarle che lui poteva essere anche così. Nadia rimaneva a fissarlo per ore, fino a che al mattino si svegliava e lui era ancora lì. Non avrebbe potuto stargli lontana a lungo, col pensiero di aprire gli occhi e non trovarlo più.
Guardò l’amica che le fece cenno di seguirla in camera.
La casa era grande, sei locali oltre il bagno e la cucina, divisi simmetricamente da un lungo corridoio.
La camera dove dormiva Isolina era stata un tempo quella dei genitori, dentro c’erano ancora un grande armadio a cinque ante con gli intarsi e le decorazioni in madreperla, e il letto matrimoniale. Nadia e Isolina ci si sedettero sopra con un salto, poi risero. Avevano preso l’abitudine di chiacchierare su quel letto sin da ragazze. Isolina si acciambellava accanto a Nadia e iniziava a parlare fumando una sigaretta dietro l’altra.
Aveva confidato a Nadia che un giorno la madre era uscita dalla camera matrimoniale ed era andata a dormire nell’ultima stanza in fondo al corridoio. Dopo poche ore il padre aveva fatto la stessa cosa e si era trasferito in quella accanto alla sala. Avevano chiuso entrambi la porta a chiave e non si erano più parlati per quarant’anni. Poi una notte la madre aveva chiamato il marito e gli aveva chiesto di farle una camomilla. Dopo qualche ora era morta.
Isolina aveva stretto gli occhi.
“Mio padre le è sopravvissuto per soli sei mesi. Era depresso, sembrava che senza mia madre la sua vita non avesse alcun significato”. Aveva tirato su col naso, stizzita, e guardato Nadia come se fosse un’extra-terrestre. “Non capirò mai il mistero della coppia” aveva brontolato.
Anche adesso lo stava borbottando. Tirava brevi boccate da un mozzicone di sigaretta che aveva già spento e riacceso due volte.
“Non ti capisco, come fai a sopportare Luciano? Sei forse masochista?”
Nadia seguì le volute di fumo nell’aria, poi le vide smarrirsi negli intarsi del grande armadio.
“E’ che non so stare senza un uomo”, rispose.
Non era la prima volta che Nadia dormiva in casa d’Isolina. Era già successo altre volte. Quante? Nadia non se lo ricordava. Di certo erano parecchie, visto che lei ricorreva all’ospitalità dell’amica quand’era in crisi con Luciano.
Isolina l’ospitava nella camera in fondo al corridoio, quella ch’era stata di sua madre. Era una stanza disadorna; un letto singolo, un tavolino, un armadio e una poltroncina Luigi Filippo ricoperta di raso verde. Scavate nel muro c’erano due nicchie dove la madre conservava le foto dei propri morti. La donna aveva l’abitudine di metterci davanti un lumino acceso, e verso la fine, quando ormai l’arteriosclerosi era dilagante, aveva rischiato due o tre volte di mandare a fuoco la casa.
Isolina le parlava della madre con una smorfia di disprezzo. Nadia la ricordava a malapena, una signora pallida, con i capelli biondi, perennemente affacciata alla finestra.
Isolina scivolò giù dal letto e Nadia la seguì. Sul pavimento i tacchi dell’amica navigavano silenziosi. A Nadia venne in mente un elfo dei boschi, i piedini sottili, piccolo e leggero.
D’un tratto si vide in quella camera girarsi e rigirarsi nel letto per ore pensando a Luciano. Perché era venuta lì? Se andava via subito forse faceva in tempo a rientrare a casa prima di lui. Gli avrebbe buttato le braccia al collo, gli avrebbe chiesto di ricominciare.
Undici. Dodici. Come d’abitudine, aveva contato i passi. Guardò l’amica senza capire. Isolina si era fermata davanti ad un’altra stanza.
“In camera di mia madre c’è troppo casino, sto facendo un cambio degli armadi e sul letto ci sono tutte le mie cose. Anche per terra” aggiunse l’amica con un sorriso. “Lo sai quanto sono disordinata, se mi ci metto! Molto meglio che tu dorma qui.”
Era la prima volta che Nadia entrava lì dentro. Il locale era lungo e stretto con la finestra che s’affacciava sulla strada. Era arredato semplicemente: un letto, un comodino con un’abat-jour, un armadio verde a due ante. Sul muro c’erano appesi due quadri, rappresentavano entrambi dei pescatori in mezzo a un mare in burrasca. Tutto era normale, pacato e dimesso come nel resto della casa. Nadia si voltò verso l’amica. “Me ne vado”, le disse.
Isolina andò verso l’armadio, lo aprì, prese una pila di biancheria, la esaminò con calma, poi scelse due lenzuola pulite e Nadia capì di non aver aperto bocca. Desiderò ardentemente riuscire a dire quelle parole, “me ne vado”. Mi spiace, mi sono sbagliata, avrebbe aggiunto, non voglio stare lontana da Luciano una sola notte. Grazie di tutto e arrivederci.
Non voleva dormire in quella stanza. Eppure rimase impassibile a guardare l’amica che metteva il lenzuolo sul letto, sistemava con precisione gli angoli, prima un triangolo e poi un altro, li rimboccava sotto il materasso, prendeva l’altro lenzuolo, lo piegava all’altezza della testa, si alzava a esaminare l’effetto, la guardava puntando in alto il viso bianchissimo.
“Come lo vuoi il cuscino, duro o soffice?”
“Me ne vado”, riuscì a dire Nadia.
Quella sera mangiarono un risotto agli scampi e una frittura di pesce. Isolina aprì una bottiglia di bianco, un Greco di Tufo che teneva da parte per le grandi occasioni.
“Neanche per Oliviero, gran cazzone in quanto fornito di grande cazzo, ho voluto aprire questa bottiglia! Ma per un’amica che sta per rinascere ne vale la pena!”
Quando finirono la bottiglia passarono al whisky. Nadia rideva. Tutto le sembrava magnifico. Le girava la testa e lei rideva. Misero su un walzer e Isolina cercò d’insegnarle a ballare. Tentò di condurla per la sala muovendo i passetti a tempo “un due tre, un due tre!“ ma a Nadia sembrava di essere abbracciata a un buffo esserino che si agitava sbuffandole sotto le tette, e scoppiava a ridere di continuo.
Luciano non esisteva più, era diventato meno di quel soffio che le arrivava proprio in mezzo ai seni, tiepido, ma innocente. Meno doloroso di un bacio.
Si addormentò subito profondamente. Ogni tanto la testa le girava, lei cercava di aggrapparsi a qualcosa, barcollava, tentava di fermare la stanza, ma questa era peggio di una giostra, le ruotava intorno vorticosa, e lei era come una trottola che ci girava nel mezzo. Allora respirava profondamente, fino a che tutto non si calmava. Dormì ininterrottamente per ore.
Nella stanza faceva caldo. Nadia sentiva addosso l’aria umida della notte incollarle i capelli e le cosce col suo tocco appiccicoso; nel sonno avvertiva il proprio sesso madido di sudore.
Le parve che una porta sbattesse e si svegliò. Sentì lo stimolo della pipì e si guardò in giro, cercando d’orientarsi.
La stanza era completamente al buio, dalle imposte chiuse non passava neanche un filo di luce. Nadia puntò i gomiti e si sedette, intontita. La pipì le premette dolorosamente contro la vescica. Accidenti, non l’avrebbe tenuta a lungo. Mise le gambe giù dal letto. Dove cavolo era la porta?
Cercò di ricordarsi la disposizione dei mobili. Il letto era contro la parete di sinistra, appena si entrava, con la testiera rivolta verso la porta. Quindi l’entrata doveva essere sulla sua destra, appena dietro di lei.
Si alzò e mosse un passo. D’istinto tese le braccia in avanti per sentire se c’erano ostacoli. Le parve di nuotare in un mare profondo e le venne in mente la volta ch’era caduta in piscina di notte, in una villa di alcuni conoscenti, loro erano ubriachi e lei annaspava in un liquido scuro e senza rumori, non aveva punti di riferimento, soltanto quella massa buia che l’attorniava.
Avanzò ancora di due passi. Non capiva dove stava andando, si muoveva e basta, doveva attraversare la stanza, da qualche parte sarebbe arrivata. A un tratto si fermò. Il silenzio era totale. Eppure c’era qualcuno dietro di lei.
Un sudore freddo le ghiacciò la schiena. Tese le orecchie. Niente. Solo il frastuono del suo cuore. Ascoltò meglio. Attorno a lei un brulichio sordo, come di qualcosa in fermento. Dunque era quello che aveva sentito, forse erano i mobili, i mobili sono fatti di legno, sono cose vive, ogni tanto vibrano, si agitano, si assestano. Che stupida, di che aveva paura.
Fece un altro passo e si fermò di nuovo. Questa volta ne fu sicura: era proprio dietro di lei. Vicinissimo, le labbra quasi appoggiate al suo collo. Il respiro le solleticava la nuca. Si sentì nuovamente gelare. L’altro stava immobile, respirando appena.
Un uomo, pensò lei. Giovane.
Sentiva le ginocchia cederle ma non riusciva a staccarsi di un millimetro da quell’alito tiepido. D’improvviso seppe che lui aveva voglia di baciarla. Seppe anche – non era in grado di spiegare come – che l’aveva attesa a lungo, e ora avrebbe aspettato. Cosa? Un suo cenno di assenso?
Per un tempo interminabile nessuno dei due si mosse. D’un tratto Nadia pensò a Luciano, a Luciano che la salvava e la proteggeva, vide le sue mani forti, e poi d’un tratto le vide sul suo corpo nudo, le vide sul suo ventre e poi vide i lombi di Luciano che si muovevano sopra di lei. E nello stesso istante intuìche il giovane sapeva. Tutto.Allora urlò.
Il grido le rimase ancorato in gola. Digrignò i denti e tentò di staccarsi da lui. Fece appello a tutte le sue forze. Urlò ancora. Poi si mise a correre.
Sbatté contro il letto. Allungò un braccio, incontrò l’aria. Allora si appoggiò alla parete e seguì a tastoni la strada verso l’interruttore. Quando ne sentì lo spessore liscio e compatto le sue dita si contrassero. Premette il tasto. La luce esplose, lei ne fu accecata.
Si voltò a guardare.
Nella stanza non c’era nessuno.
Isolina le porse la tazza col caffelatte. “Bevi che è caldo!” le disse. Non si era ancora lavata la faccia e aveva gli occhi sporchi di cispe. Nadia ringraziò e le prese la tazza dalle mani. La sollevò sino alla bocca e rimase con le labbra appoggiate sulla porcellana. Le dava un piacere fisico sentirla liscia e delicata tra le labbra.
“Che fai, non bevi?” la sgridò Isolina. Nadia la guardò, i suoi occhi si fermarono sulle palpebre dell’amica, poi scivolarono via.
“Congiuntivite”, le disse Isolina. “Ogni primavera me la becco!”
Nadia si sforzò di essere allegra. “Compra dell’Echinacea per uso oftalmico. Funziona che è una meraviglia! In tre giorni guarisci.”
L’amica scosse la testa e lei la osservò di sottecchi.
Aveva la pelle rugosa come quella di una vecchia, tante linee sottili le dividevano la faccia in minuscole sezioni. Ogni sezione presentava degli strati flosci, privi di sostegno. Sotto le mandibole la pelle le cedeva e cascava in giù.
Rabbrividì. Anche lei in quindici anni era invecchiata tanto?
L’amica le mise davanti dei biscotti e un barattolo di marmellata. “Mangia!” le ordinò, “è fatta con pomodorini verdi, l’ho preparata per un uomo che non l’ha mai voluta assaggiare.”
Rise mostrando i dentini aguzzi. Li aveva ancora perfetti. Poi scosse la testa, inseguendo qualche suo pensiero. Stette lì finché non vide Nadia spalmarsi un biscotto con la marmellata e mangiarlo, poi si decise a lasciarla sola. Si allontanò verso il bagno. Camminava un po’ ingobbita, uno scialletto di lana recuperato chissà dove sulle spalle, dalla vestaglia corta uscivano le gambe bianche e secche, una nonnina perfetta per una fiaba, pensò Nadia.
Notò che in casa l’amica non usava più i tacchi. Chissà se li metteva almeno per uscire. Forse in quei quindici anni aveva rinunciato a sembrare più alta.
Le venne la malinconia e non riuscì a mandare giù il caffelatte. Isolina tornò poco dopo: indossava una maglia celeste sbiadito e dei jeans neri; sulle labbra aveva messo un rossetto color perla che la faceva sembrare ancora più vecchia, in viso era tutta bianca, pelle, bocca, occhi; bianca sino ai capelli.
Nadia le sorrise. “Stai benissimo” disse.
L’amica la guardò compiaciuta. “Mia cara, bisogna mantenersi in forma per piacere agli uomini!” Si toccò le cosce.” Guarda qui, neanche un filo di cellulite! Stagne e sode! Se non andassi in palestra a quest’ora sarei più larga che lunga, e i maschi col cazzo che mi darebbero l’uccello!”
La battuta involontaria la fece ridere.
“Ohi, ohi! sono una vera poetessa!”
Nadia rise per compiacerla, ma faticava a non urlare. Isolina non si rendeva conto di essere patetica? Una vecchia patetica che scimmiottava le ventenni. Lei non aveva voglia di stare al gioco, di parlare di cazzi e di scopate come se un’intera legione di maschi fosse pronta a gettarsi ai loro piedi. Non c’erano più legioni di maschi vogliosi. Non c’era più niente.
Isolina si versò il caffè. Teneva la schiena bassa, i seni le penzolavano in giù, come bestiole morte. Nadia distolse lo sguardo. Si sbirciò nella vetrina della credenza e lo distolse di nuovo. Aveva cinquantacinque anni. Cinque meno d’Isolina, ma il tempo era passato impietoso anche per lei.
L’amica le si sedette davanti, spostò la tazza di lato e poggiò i gomiti sul tavolo. “Allora” le chiese, “va meglio?”
Sotto la cipria la pelle era tumefatta.
“Sì” rispose Nadia.
Il pomeriggio uscirono. Isolina chiacchierava e Nadia contava i passi. Ma non funzionava più, Luciano le era sempre davanti, le spalle diritte e il fare contrito mentre le diceva che se ne andava, ch’era finita. Gli dispiaceva, oh come gli dispiaceva al bastardo per la sofferenza che le stava procurando, ma si era innamorato, e guarda caso l’altraera più giovane, certo non di pochi anni, non l’avrebbe di sicuro lasciata per una coetanea, sarebbe stato troppo originale per il gran figlio di puttana, no, la troietta aveva ventinove anni, venti-nove-anni, soltanto ventisei meno di lui, una fighetta tutto sommato ancora giovane, quasi di primo pelo, e ora le diceva tutto contrito che doveva compatirlo, perché alla sua età un amore del genere si può solo sognare, e visto che lui non stava sognando ma ce l’aveva tra le mani non sarebbe stato così fesso da lasciarselo scappare, lei doveva capire – tanto lui se ne andava lo stesso – che un amore così a cinquantatre anni riempie la vita, rimette in funzione gli ormoni, fa alzare ogni cinque minuti l’uccello, e su questa cosa – lei era sicuramente d’accordo – non c’era niente d’aggiungere.
A Nadia erano venuti in mente i loro sporadici incontri sessuali, si era ricordata di quella volta che, per la disperazione, si era iscritta a un corso di danza del ventre e una sera, vestita da baiadera, aveva cominciato a ballargli davanti; Luciano per un po’ era rimasto a osservarla, poi aveva preso un cuscino e l’aveva messo sul divano, le aveva detto che se voleva fare l’amore bastava dirlo, non c’era bisogno di tutte quelle cazzate. Lei era uscita di corsa dalla stanza.
Avrebbe voluto vomitarglieli addosso, quei ricordi, ma quando riuscì ad aprir bocca disse soltanto, “A me sta bene.”
Per chiacchierare si erano sdraiate sul letto matrimoniale. Isolina non l’aveva mai cambiato. Anche l’armadio era sempre lo stesso, con gli intarsi nel legno e le decorazioni di madreperla.
“Troverai un altro uomo, sei ancora giovane,” le stava dicendo. “Adesso ti sembra che il mondo ti crolli addosso, ma vedrai che col tempo passerà. Ne puoi trovare di meglio, sulla piazza!”
Si guardò il corpo scarnito.
“Sei bella, tu.”
Era la prima volta che glielo diceva da quando si conoscevano. Nadia la guardò sorpresa.
“Che credi, che non mi veda? Non riesco neanche a guardare la mia faccia allo specchio. Sono diventata vecchia, tesoro. Vecchia. Ormai sono trasparente, passo e non esisto, nessuno si volta. Tu, invece… non hai visto come ti guardavano per strada?”
No, Nadia non aveva visto.
“Sono miope” rispose, e Isolina rise.
Aveva l’alito che puzzava di fumo. Nadia distolse il viso.
“Perché non ti fermi a dormire da me?” le chiese a un tratto Isolina. “Potremmo vivere insieme per un po’, finché non ti passa la malinconia.”
Nadia scosse la testa.
“Che vai a fare a casa”, insistette l’altra, “Lui non c’è più. Staresti tutto il tempo a piangere e a maledirlo.”
Si allungò verso di lei, la guardò rassegnata, non chiedeva, non desiderava niente, una vecchia, una creatura dei boschi, un bambino innocente, che cosa era mai, Isolina?
“Mi sento terribilmente sola” disse ancora, “Rimani. Ti prego.”
Isolina si fermò davanti alla stanza e Nadia trasalì. Dodici,aveva contato.
Erano state a cena al ristorante e non appena rientrate in casa si era ritrovata suo malgrado a contare i passi. Di colpo ricordò il terrore di quella notte. In quei quindici anni di lontananza l’aveva rimosso, ma ora l’incubo le tornava alla mente.
Isolina aprì la porta. La camera era completamente cambiata. Era arredata con mobili moderni, di un bel colore biondo, forse acero; davanti al letto c’era un divano ricoperto di un tessuto a disegni orientali. Alla finestra delle tende in lino, ricamate al centro con losanghe, filtravano la luce del tramonto, rendendola soffusa. Sul lato destro un grande armadio quattro stagioni veniva investito dalla luce rosea, e splendeva, solitario.
Sul muro erano appesi dei poster, uno di un complesso musicale che Nadia non aveva mai visto, facce stralunate con i capelli rasati, l’altro col papa che si fumava un joint colossale.
Guardò l’amica senza capire.
“I mobili sono di Patrizia, la figlia di mia sorella Anna”, le spiegò Isolina. “Prima conviveva con un ragazzo ma poi è finita. Li ha portati qui insieme a tutte le sue cose ma non ci sta mai, è sempre in viaggio. E’ iscritta all’università, vuol fare l’antropologa. Adesso si trova in Cambogia, dice che laggiù c‘è molto su cui indagare. Sarà. Fino ad adesso ha dato solo quattro esami. A me sembra che i viaggi siano solo scuse per fare un cazzo.”
La guardò con un sorriso stanco. “Però non posso farti dormire qua dentro, è tutta roba sua. Mi spiace perché è la camera più bella della casa.”
“Non ti preoccupare”, rispose Nadia, “a me va bene da qualsiasi altra parte.”
Purché non sia questa, avrebbe voluto aggiungere.
Isolina la condusse in fondo al corridoio. Aprì la porta della stanza che una volta era stata della madre.
“Qui è tutto sempre in ordine”, le disse, “la tengo esclusivamente per gli ospiti. Nelle altre ci bazzico di tanto in tanto, lascio in giro le mie cose, così mi sembra che con me ci sia sempre gente.”
La guardò dal basso in su e a Nadia venne voglia di prendersela in braccio e di portarla via, lontano da lì.
Quella notte non riuscì a prendere sonno. Si girava e rigirava nel letto pensando a Luciano. Avesse almeno avuto un figlio da lui, invece niente, era sterile come lo era la sua vita, una corsa continua per arrivare chissà dove. Lo rivide com’era negli ultimi tempi: ogni pomeriggio tornava a casa, si sedeva e sfogliava il giornale; neanche un pensiero per lei, una parola.
Era invecchiato, Luciano. Rigido e duro come un pezzo di legno. Nadia lo guardava a lungo, voleva che si sentisse osservato, che s’incazzasse, che capisse che lei non ne poteva più. Invece lui continuava imperterrito a scorrere i titoli del giornale. Forse aveva ragione Isolina, era lei a guadagnarci da quella separazione. Solo che era dura. Trent’anni di matrimonio, di litigate, di riconciliazioni. Trent’anni di vita, e poi adesso più niente.
Stette immobile nel letto a pancia in giù per una buona mezzora. Poi sentì lo stimolo della pipì e si alzò. Le tapparelle le aveva lasciate sollevate per potersi orientare al buio. Uscì in corridoio, passò davanti alla camera d’Isolina. La porta era aperta e lei sentì un russare deciso. Isolina aveva bevuto parecchio quella sera. Anche lei aveva bevuto molto, sperava di addormentarsi come un sasso e invece era ancora in piedi, sveglia come un grillo, senza sapere che fare. Entrò in bagno e si sedette sul water. Ascoltò il tintinnio della pipì nella tazza di ceramica, lo ascoltò finché non lo sentì cambiare nota, diventare più acuto. Poi si alzò, uscì nel corridoio, passò di nuovo davanti alla camera d’Isolina. L’amica continuava a russare, soddisfatta. Nadia proseguì e si ritrovò davanti alla stanza.
Rimase ferma per un po’. Poi abbassò di scatto la maniglia.
La camera era completamente al buio, Nadia stette in ascolto col cuore che le batteva impazzito, poi si decise e fece un passo avanti. Un altro.
Prima sentì il brulichio: cresceva, vibrava in tutta la stanza rimbalzando sui muri. Fu certa che lui le era dietro dal calore che avvertì sulla nuca, riconosceva il suo alito gentile e discreto. Sentì la sua voglia di baciarla, la bocca vicinissima, e provò l’impulso di voltarsi. Poi fu cosciente del buio, di quell’alito, di quella stanza. Si girò di scatto e corse verso la porta che vedeva inquadrata dalla fioca luce del corridoio, cercò a tastoni l’interruttore, lo premette.
I colori nella stanza esplosero, come l’altra volta. Nadia socchiuse le palpebre.
Anche la luce le sembrò malata.
Si alzò con un gran mal di testa. Dalla finestra entrava un sole impietoso. Nadia mise i piedi fuori dal letto e stette qualche minuto con la testa penzoloni, respirando lentamente per mandare via il dolore. Di colpo le venne in mente la stanza. Che cosa era successo dopo che aveva premuto l’interruttore? Non ricordava niente.
Si affacciò alla finestra. Sotto la luce del giorno il mondo era vero e rassicurante. Probabilmente aveva sognato: la stanchezza, il vino, il dolore per Luciano, tutto aveva concorso per tirarle un brutto scherzo.
Si alzò per andare in bagno ma fu attratta dall’odore di caffè appena fatto. Isolina era già in piedi con la tazza in mano. Come la vide le sorrise.
“Eccoti qui, dormigliona! Sai che ore sono? Le undici e mezzo!”
Nadia improvvisò un tono allegro. “Tutti i sabati dormo oltre mezzogiorno, quindi ti è andata bene.”
Isolina non replicò. Le versò una tazza di caffè e gliela porse. Teneva il viso un po’ discosto, lo sguardo basso, ma nonostante quello Nadia si accorse che aveva gli occhi segnati e gonfi.
“Non hai provato l’Echinacea?”
L’altra scosse la testa. “Non li ho così per la congiuntivite.”
Nadia sorseggiò appena il caffè. “Che ti succede?”
“Mi sento finita”, rispose Isolina. Lo disse usando lo stesso tono dolce dell’amica ma quando riprese a parlare era ostile, e Nadia capì che tratteneva a stento l’irritazione.
“La chiamano depressione, mia cara. Proprio così. Sono depressa, esaurita, spompata sino al midollo. Con te ho sempre fatto finta di niente, non volevo annoiarti con le mie storie, ma a volte mi sembra d’impazzire. Non me ne frega più un cazzo di uscire, di vedere gente. Tanto a chi gliene importa di me? Sono sola, amica. Sai a quanto mi serve andare in palestra! Non c’è più un uomo che mi cerchi, che s’interessi di come sto, se sono viva o morta. Sono finita, kaputt. Isolina non esiste più, è svanita nel nulla.”
Nadia si abbassò verso di lei per farle una carezza; la pelle di Isolina le parve malata e si fermò.
“E’ che sei in pensione da poco, ti devi ancora abituare.”
Si sentiva a disagio. Era stata sempre Isolina ad aiutarla. Sempre lei la più forte.
Isolina continuava a tacere. Nadia si raddrizzò. “Io t’invidio, invece! Hai tutto il tempo che vuoi davanti a te! Cinema, libri, viaggi… devi solo imparare a organizzarti.”
Poi aggiunse una cosa che non avrebbe mai voluto dire.
“Ho deciso che vivrò con te, certo per un breve periodo, giusto il tempo di darci una mano a… venirne fuori. Ne abbiamo bisogno entrambe.”
La guardò per vedere se i suoi discorsi facevano effetto.
Isolina se ne stava sempre con gli occhi bassi, ma dalla posizione tesa delle spalle e della testa Nadia capì che la stava ascoltando attentamente.
Non aveva mai visto Isolina così. Da quanto la conosceva? Erano praticamente nate nello stesso condominio ma aveva cominciato a frequentarla solo da ragazza: quand’erano bambine manco si guardavano, cinque anni di differenza sono un abisso. Se la ricordava sempre allegra, sempre indaffarata con i suoi ometti, come li chiamava lei, ne aveva spesso due o tre per le mani e si divertiva un mondo a farli ingelosire. Nadia le invidiava tutta quell’energia. Un grillo che saltava dalla mattina alla sera, mai stanco. Adesso passava le ore a letto. Si presentava al mattino con gli occhi stralunati e Nadia non aveva il coraggio di dirle niente. A volte abbozzava un tentativo, voleva farle capire che ognuna di loro aveva la propria vita e che era ora che se la riprendessero. Lei almeno lo voleva; non erano mica sposate, cazzo! Isolina le domandava tranquilla se per caso voleva mollarla, e Nadia rimandava.
“Domani”, si diceva, “Lo faccio domani. E’ sicuro.”
“Domani me ne vado”.
Isolina lo disse d’un fiato, senza guardarla.
Nadia era appena rientrata dal lavoro e stava e leggendo il giornale. Da quando Luciano l’aveva lasciata le piaceva sentire il rumore che facevano le pagine sfogliate.
“Dove?” chiese distrattamente.
“In Veneto. Parto domani mattina.”
Lei alzò gli occhi e guardò l’amica. “Come?”
“Me ne vado” ripeté Isolina, “ti lascio libera.”
Nadia chiuse il giornale e lo piegò in due. “Che vuol dire?”
“Sei stata gentile a starmi vicina in questo periodo, ma purtroppo non ce la faccio. Devo andar via.”
Nadia spostò il giornale di lato e la guardò attentamente. Ancora non capiva.
“Vuol dire che lasci la tua casa? E per andare dove?”
“Ho degli zii in campagna, dalle parti di Treviso. Hanno una fattoria con mucche e galline. Lì c’è aria buona e tanta natura, quello che mi occorre. Silenzio e frutta da raccogliere sui rami. Latte fresco appena munto, con la panna sopra spessa un dito. Mi aiuterà a guarire.”
“Come puoi esserne sicura?” Era stordita da quella novità improvvisa, e non sapeva come regolarsi.
“Perché è stato così anche dopo la morte di Manlio.”
”Manlio?” ripeté Nadia. Le sembrava che Isolina stesse recitando una parte e non capiva che ruolo avesse riservato a lei.
“Mio fratello”, spiegò Isolina.
Le stava davanti, ingobbita, il viso puntato in alto, eppure in quel momento aveva un’espressione così intensa che le sembrò un gigante.
“Non me ne hai mai parlato”.
“No”, confermò Isolina.
Nadia attese.
“Manlio era il maggiore, il mio fratello preferito. Sin da bambina ero innamorata pazzamente di lui. Quando morì mi venne un terribile esaurimento nervoso. Mio padre decise di mandarmi per qualche mese dagli zii, probabilmente temeva che facessi una pazzia.”
Nadia non commentò.
“Anche i miei fratelli soffrirono molto, ma per me fu diverso. Manlio era più di un fratello per me.”
Guardò dritto negli occhi l’amica. “Lui per me eraun uomo,se capisci che cosa voglio dire.”
Fece una smorfia. “L’unicouomo, hai capito?”, ribadì stizzita.
Nadia assentì piano. Cercava di muoversi adagio, per non fare un gesto sbagliato.
“E’ morto all’età di venticinque anni; io ne avevo quattordici”, riprese Isolina. Continuava a guardarla negli occhi con aria di sfida.
“E’ stato male una sera, improvvisamente. Lo hanno portato all’ospedale e lì gli hanno diagnosticato il diabete. Era già entrato in coma. Nessuno di noi se lo aspettava. Era sempre stato bene.”
D’un tratto prese una sedia e la mise vicino a quella di Nadia. Si sedette e guardò il giornale. “Quale altre belle notizie riportano oggi?” domandò. Sembrava che per lei il discorso fosse chiuso.
Nadia riaprì il giornale e glielo porse. In quel periodo i quotidiani non facevano altro che parlare di guerre e di terrorismo.
“Stasera c’è pesce spada alla griglia con rucola e pomodorini”, esclamò Isolina mentre scorreva i titoli. “Ti va bene?” Poi senza neanche attendere risposta le disse che l’aveva già preparato, bastava scaldarlo. Nadia continuava a tacere.
Isolina lesse in silenzio l’articolo su un disastro aereo avvenuto anni addietro. L’aereo era caduto in mare, e il giornalista riprendeva l’ipotesi che fosse stato centrato da un missile americano mentre cacciava un mig libico.
“Siamo una colonia”, borbottò Isolina. “Fanno e disfano quello che vogliono sulle nostre teste, come fossero a casa loro.”
“E’ solo un’ipotesi”, le ricordò Nadia.
Isolina la guardò furiosa. “Siamo una loro colonia”, ripeté.
Stettero tutte e due a guardare la fotografia sul giornale. Accanto all’ala dell’aereo si vedeva galleggiare un mucchio informe di stracci: dei resti umani, probabilmente.
Per un po’ rimasero in silenzio a osservare la foto. Nadia guardava quei miseri resti e d’un tratto si ritrovò sott’acqua, come quella volta in piscina. Il mare era scuro, la circondava e la schiacciava. Lei annaspava come un cosmonauta nello spazio privo d’aria. Si sentì perduta. Poi vide galleggiare sopra di lei le mani di un uomo e con fatica cominciò a risalire, puntava verso quel corpo silenzioso che le indicava l’unica via di salvezza. Quando vide il cielo fu contenta di essere viva. Una gioia in sottofondo, come una melodia che veniva da lontano.
Isolina chiuse bruscamente il giornale.
“I dottori hanno visto che non c’era più niente da fare e ce l’hanno rispedito a casa. Lo abbiamo messo nel suo letto e l’abbiamo vegliato per due giorni. E’ morto senza riprendere conoscenza.”
Alzò il viso bianco e col mento indicò il corridoio. “E’ morto nella stanza dove adesso sta Patrizia.”
Nadia sul momento non provò niente. Avrebbe giurato che lo sapeva, che l’aveva sempre saputo. Chiuse gli occhi e ricordò quel cenno timido e disperato dietro la sua nuca, la voglia di lui di baciarla.
“Dormiva lì con sua moglie”, disse ancora Isolina.
“Sua moglie?” sussultò Nadia.
“Vivevano a casa nostra. Si erano sposati da poco e non avevano i soldi per prendersi un appartamento in affitto. Però lavoravano sodo tutti e due, speravano di riuscire ad andarsene entro qualche mese. Io invece speravo solo che lui rimanesse qui, per sempre.”
S’interruppe e per la prima volta ebbe un’espressione colpevole.
“Quando tornai dal Veneto trovai ancora mia cognata in casa. Per un po’ rimase, faceva sempre parte della famiglia. Poi, col tempo”… Isolina fece una risata amara. “Che vuoi, era giovane. Dopo sei mesi trovò qualcun altro e se ne andò.”
“Che fine ha fatto?” le chiese Nadia.
“Non l’ho più rivista”, rispose Isolina. “Di certo l’avrà dimenticato in fretta. Non poteva amarlo quanto l’amavo io.”
Abbassò la testa sul tavolo e cominciò a piangere disperatamente. Le spalle erano esili come le scapole di un uccello e si agitavano in modo ridicolo. Nadia non riusciva a muoversi neppure per farle una carezza. Eppure non era triste; ascoltava la musica crescerle dentro, si sentiva bene, finalmente, e voleva assaporare quella leggera euforia che la riconsegnava alla vita.
“Sapessi quante volte mi sono detta che era colpa mia, se non fossi stata così egoista da volerlo tutto per me… E’ Dio che mi ha punita!” borbottava Isolina tra i singhiozzi.
“Ma che dici”, esclamò Nadia, e finalmente stese la mano e l’accarezzò.
Continuava a pensare a quella meravigliosa contentezza che aveva dentro e che le faceva venir voglia di ballare, di andare incontro all’aria e di baciarla.
“Nessuno è colpevole dell’amore che sente verso un altro”, affermò decisa.
Poi tradusse in parole l’emozione che stava provando; sperava l’accompagnasse a lungo nei giorni vuoti che aveva davanti.
“Bisogna lasciarsi vivere”, disse a Isolina.
Fece una pausa e rifletté. Poi aggiunse: “Con indulgenza.”
“Capra e cavoli” di Paola Varalli
Siamo in tre.
Giulia Corvi, Mario Bellini e io, al secolo Gertrude Rimoldi, detta Gerry, formosetta quanto basta a dispetto del nomignolo maschile.
E’ luglio, è mattina presto e sediamo mezzo addormentati sui sedili appiccicosi- fintapelle del treno Milano – Verona, meta: le Dolomiti.
“Alta via numero uno!” ha decretato il Bellini.
“Sarà faticoso?”
“Non ti preoccupare, Gerry, si sale all’inizio, ma poi è tutto in quota”. Mai affermazione fu più menzognera.
Mario Bellini, uomo tutto d’un pezzo, oltre a portare con disinvoltura un nome da musicista (ma anche un po’ da cocktail) indossa un paio di braghe gialle di velluto a coste larghe che gli arrivano al polpaccio. Davvero inguardabili. Noi fanciulle sobri pantaloni da trekking e scarponcini da montagna. Gli zaini sono leggeri, ridotti al minimo, perché bisogna portarseli appresso per sette giorni: due magliette, un pile, la giacca a vento e panta-vento d’ordinanza. In montagna, lo sappiamo, anche in estate può far freddo e piovere.
Il Bellini, organizzatore indiscusso della spedizione, ha distribuito i compiti prima di partire:
“Tu, Gerry, porti frutta e formaggio, Giulia barrette e zuppe e io porto la tenda e il fornellino.
“La tenda? Ma sei matto? Con quello che pesa … non si era detto: “Dormiremo nei rifugi?” (coro di ragazze preoccupate)
“Eh, sì, ma non abbiamo prenotato, metti che non troviamo riparo?”
E vada per la tenda, a patto che se la carichi in spalla lui.
Io realizzo che sono l’unico genio al mondo ad aver riportato le mele in Trentino, le ho scelte perché sono serbevoli e nello zaino non si deteriorano, però potevo comperarle qui, invece che alla Conad.
Sbarchiamo dal treno a Villabassa, dopo il cambio a Verona, e ci infiliamo in un bus per il lago di Braies.
Scendere dalla predella e rimanere incantati è tutt’uno: il lago è magnifico, le montagne intorno si specchiano nella superficie di puro cristallo turchese. Nemmeno una leggera brezza ne intacca il lucente splendore. Anche la ciarliera Giulia rimane senza parole. I nostri occhi iniziano a vagare intorno e le vette ci attirano come carta moschicida, guardiamo il sentiero tra gli abeti, è lì per noi e ci invita all’avventura.
Il Bellini, pragmatico, ci scuote dall’incanto: “Forza raghe, si va!”
Prendiamo verso sud, ci sentiamo bene negli scarponi. Respiriamo aria pulita, abbiamo il cuore leggero e le gambe scalpitanti. Pezzetti di cielo blu tra gli alberi ci regalano sensazioni di pura gioia, camminiamo scavalcando, a tratti, nodose radici su un letto di aghi bruni e morbidi, costeggiamo la sponda est del lago. Alta via numero uno: eccola qua! La vita ci sorride. La Croda del Becco ci osserva maestosa dall’alto, Rifugio Biella …arriviamo!
Il Bellini, contrario a tutto ciò che è tecnologico, non possiede cellulare. Io e Giulia sì, ma la nostra guida, vetero quanto basta, ci impone di spegnerli. Tanto non è che prendano sempre il segnale, quassù. Va però detto che noi due, giusto per farlo un po’ infuriare, ogni tanto raggiungiamo una altura e cominciamo a far finta di accendere i telefonini dichiarando: ” Ehi vieni, qui c’è campo, qui prende”. Quando il Bellini inizia a sacramentare contro le diavolerie moderne: “Guardate la natura che è così meravigliosa e non perdetevi dietro a ‘ste stronzate… eccetera”, noi, che non lo abbiamo neanche acceso, ci sbellichiamo dalle risate e ci riteniamo soddisfatte per aver raggiunto il nostro scopo di vecchie ragazze dispettose.
“Siete due cretine! Non vi porto più!” borbotta lui, ma si vede che se la ride sotto i baffi, divertito, suo malgrado, dalla nostra piccola sceneggiata.
A conti fatti è meno talebano di quanto sembra.
Il sentiero non è molto frequentato, incontriamo qualche gruppo che, come noi, va al Biella. Scambiamo due chiacchiere in inglese con una coppia di Danesi molto simpatici.
Lui è ingegnere e lei porta un nome Italiano, Marina, perché suo padre era innamorato del nostro paese.
In una radura ci imbattiamo in un branco di cavalli Avelignesi, pascolano tranquilli con i puledrini, sono docili e vengono a mangiarmi in mano le noci che sgranocchio da una decina di minuti. Fame!
Giulia si allontana per fotografare una baita diroccata.
“Stai attenta – le grido – mica che ci sia una vipera! Guarda bene tra i sassi”
“Non ti preoccupare, ci bado.”
Il Bellini, che ha gambe lunghe, pulsazioni basse e fiato buono, si porta avanti. Il sentiero ora sale parecchio.
Abbiamo abbandonato i mughi e attaccato le rocce. Una marmotta fischia e si rizza in piedi, deve avvisare le altre che arriva gente. Mi attardo a guardarla, incantata. Ha un musetto meraviglioso. Tento una foto ma sparisce nella tana.
E spariscono pure gli altri. Bellini avanti, Giulia indietro e io sola. Che faccio? Corro a raggiungere l’uomo veloce oppure siedo e aspetto la fotografa lenta?
Mi attesto sulla seconda ipotesi, mi metto a guardare in giro e ad annusare l’aria che ha un sopraffino profumo di freschezza montanara. Sa di pino, di timo, sa di buono. Fa a pugni, e vince alla grande, con la puzza della città di pianura immersa nello smog, a cui il mio naso è, purtroppo, piuttosto abituato.
Giulia, però, non arriva.
Spazientita decido di tornare indietro, sarà ancora lì che fotografa, benedetta ragazza!
Scendo verso la baita diroccata, ma, man mano che mi avvicino, mi rendo conto che non solo non c’è Giulia, non c’è nemmeno la baita!
Ora, non è che tutto a un tratto sia apparso il Poltergeist dei monti, spiritello burlone della tradizione nordica, e l’ha fatta sparire. No! Molto più semplicemente, da lontano, abbiamo scambiato per baita un agglomerato di rocce e sassi che davvero possono trarre in inganno, per forma e disposizione. Quando raggiungo questi sassi “travestiti da casetta” l’illusione si scioglie come il ghiaccio nel Negroni: niente baita, e, peggio ancora, niente Giulia!
Preoccupata estraggo il cellulare … ah già, spento per colpa del Bellini, paladino dell’antitecnologia. Fa niente, lo accendo e provo ugualmente a chiamarla.
Una sola tacca, segnale scarsissimo.
“Utente non raggiungibile.”
Spento pure i suo, ovviamente. Lo rimetto in tasca, ma lo lascio acceso, si sa mai.
E adesso che faccio?
Calma Gerry, ragiona. Saranno passati quindici, forse venti minuti, Giulia non può essersi volatilizzata. La chiamo, ma il suono della mia voce rimbalza orfano tra le distese detritiche.
Mi guardo intorno con attenzione, cerco di aggirare la formazione rocciosa a forma di baita.
Un grosso masso, quello che da lontano ci era sembrato un tetto di piode, sovrasta massi più piccoli, quasi fossero muri. Un tempo, probabilmente, qui si ricoveravano gli animali. Scorgo a terra escrementi a pallina, produzione di caprioli, credo.
Ora che sono sul retro della strana costruzione riprovo a chiamare.
“Giuliaaa!”
“Shht, zitta!”
Una voce leggera, sembra lontana, ma non vedo nessuno.
Strizzo gli occhi, li stropiccio con le nocche e finalmente … eccola!
Giù, oltre un lastrone di roccia il terreno fa un dosso, salgo su un sasso più alto e, oltre questo dosso, mi appare la sua felpa rossa: una macchia neanche tanto piccola. Muovo verso di lei, la vedo che si sbraccia e mi fa dei segni come a invitarmi a raggiungerla ma a farlo in silenzio, porta l’indice vicino alla bocca in verticale, vuole che vada lì lentamente, agita le mani dall’alto in basso con lo scopo di farmi rallentare l’andatura. Ma che diavolo ha trovato?
Mi blocco. Che sia ostaggio di qualche strano individuo che ci ha seguito fino dall’inizio e la vuole rapire?
La famiglia di Giulia è piuttosto benestante, anzi direi decisamente ricca! I suoi sono di certo in grado di pagare un riscatto cospicuo.
Ma allora perché non è legata e perché mi fa strani segni?
No, non ha senso. Pensiero stupido. Riprendo il cammino verso di lei.
Mi riblocco. E se fosse una trappola? E se Il bandito mi avesse vista (e sentita) e le imponesse di farmi segni per attirare pure me nella valletta per poi eliminarmi in quanto testimone scomoda? Magari la minaccia con un’arma!
Poi, però, penso che sto facendo congetture prive di senso. Troppi libri gialli sul mio comodino. Dove sarebbe questo fantomatico bandito? Non c’è nessuno, solo Giulia e la sua felpa rossa che si sbracciano. Inoltre, diciamocelo, tutto può essere, ma se io fossi un rapitore non credo che me ne andrei a esercitare la professione in un posto come questo che è, sì, meraviglioso ma pure scomodo e pieno di saliscendi, un posto dove non prendono i telefoni e non si può neanche sbattere l’ostaggio dentro a un furgone, narcotizzandolo, e ripartire sgommando.
“Allora ti sbrighi? ”
Riprendo a scendere e finalmente capisco il motivo di tanto agitarsi. Altro che rapimenti e banditi!
Sotto uno spuntone di roccia, accucciato e tremante, Bambi mi guarda terrorizzato.
“Ma… che …”
“Shht, Gerry, parla piano che si spaventa. Ho sentito una specie di lamento, deve avere perso la mamma, oppure è ferito. Dicono che non li si debba toccare che poi la madre non riconosce più l’odore, ma non so se sia vero, non è che me ne intenda tanto. “Sembra Bambi, che occhi dolci.”
“Ma va’, Bambi era un cerbiatto!” “Perché? Questo cos’è?”
“Un capriolo. Ma il Bellini dov’è? Lui è più montanaro di noi, una volta che serve …magari sa cosa fare. Non so come aiutarlo, povero cucciolo!”
“Eh, sai com’è Mario, ha il passo lungo, va veloce. Sarà fermo ad aspettarci in qualche punto critico. Mi pare che più avanti ci sia un percorso attrezzato con i cavi. Starà lì a mangiar barrette e a lamentarsi della nostra lentezza.”
Guardo il capriolo e mi viene una idea: “Tu che gestore hai?”
“Gestore di cosa? Ma che ci azzecca coi caprioli? (Le origini napoletane di Giulia ogni tanto escono allo scoperto.)
“Ci azzecca, ci azzecca: siccome il mio cellulare prende poco, magari il tuo, se hai una compagnia telefonica diversa, quassù funziona!”
“E chi chiamiamo? Mamma capriola?” “Ma vedi che sei pirla!”
Scoppiamo a ridere, ma sommessamente, per non disturbare il cucciolo, e ci ricomponiamo subito.
“Chiamiamo il Corpo Forestale dello Stato!”
“Quindici quindici!”
“Mhh, non so … mi sa che nelle regioni autonome si fa prima a rivolgersi ai Forestali di zona, quelli provinciali.”
“Ah, giusto … ma tu sai il numero?”
“No, ma il mio telefono, anche se ha scarsissimo segnale di linea, si connette con i dati” “Dunque?”
“Dunque cerco il numero su internet, tu accendi il cellulare, che tanto il Bellini non è in zona e non può rognare.”
Leggo da Google il numero e Giulia chiama i Carabinieri Forestali, spiegando loro il problema. Descrive il punto in cui ci troviamo, spiega quando è uscita dal sentiero e …”Sì, veniamo dal lago, sì, siamo dirette al Biella, alta via numero uno”. Ma non siamo sicure che sia sufficiente. Allora estraggo da una taschina dello zaino il piccolo GPS che porto sempre con me, di nascosto dal Bellini (“Raghe, cos’è ‘sta roba? Carte e bussola, mica ‘sti marchingegni elettronici, che si possono rompere o restare senza batterie!”).Clicco su “posizione” e diamo ai Forestali latitudine e longitudine del luogo.
Grazie alle nostre coordinate raggiungeranno presto il piccolo capriolo e sapranno cosa fare, forse lo porteranno in un’oasi faunistica per curarlo e poi rimetterlo in libertà. Oppure cercheranno mamma capriola per farglielo ritrovare. Ci ringraziano, ci chiedono le nostre generalità e ci consigliano di proseguire, hanno capito perfettamente dove siamo e non occorre aspettarli.
Ci assestiamo bene gli zaini in spalla e riprendiamo il cammino. Mi giro continuamente a guardare il luogo in cui ci trovavamo, forse spero di veder arrivare Terence Hill a cavallo in divisa da Forestale, ma per il momento non si scorge nessuno.
Arriviamo in uno stretto vallone che si chiama Buco del Giovo e … eccolo lì il Bellini, accoccolato su una roccia che sgranocchia pistacchi.
“Allora, voi due, ma lo sapete che vi aspetto da un’ora?”
Lo guardiamo sorridendo. Pensiamo che gli vogliamo bene, che il suo amore per la montagna e la sua avversione per la tecnologia siano in qualche modo ammirevoli: è vero, bisogna sempre potersela cavare senza strumenti e con le sole capacità dei nostri sensi e del nostro cervello, ma senza telefoni e senza GPS non so se avremmo soccorso il povero capriolo.
E dunque gli raccontiamo di compromessi, di come salvare capra e cavoli (anzi caprioli), di come dare un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma … cerchiamo di dirgli che vanno bene tutte e due le cose, ma che una non esclude l’altra. Non siamo mica sicure che si sia convinto, ma – forse – abbiamo avviato lo sgretolamento delle sue granitiche convinzioni.
Una cosa di certo l’abbiamo ottenuta: Il Bellini incomincerà a pensarci su.
“Una giornata particolare” di Marco Speciale
Sulla lapide avrebbe desiderato solo Franco De Stefanis, camerata.Poi un primo piano con sguardo fiero e fazzoletto al collo della X MAS.
Le attese gli portavano sempre strani pensieri ma quel giorno c’era qualcosa di diverso. La passeggiata, condotta con sguardo alto da turista, si dipanava fra le vie della sua giovinezza, una zolla di Milano dove un tempo un manipolo di coraggiosi aveva combattuto il nemico comunista. Vita e morte, lui poteva ancora raccontare, Giannino Zibecchi no. Caduto partigiano della nuova resistenza,all’angolo fra via Cellini e corso XXII Marzo, investito da un furgone della Celere. Una storia fatta di giovani caduti e di tristi lapidi commemorative.
Erano momenti convulsi e confusi in cui era obbligatorio schierarsi, ogni aspetto dell’esistenza, anche il più banale, era condizionato e condizionante: per un paio di scarpe sbagliate si poteva morire. Un eskimo, e avresti consegnato le chiavi del Paese ai bolscevichi; un paio di Ray-Ban e avresti dato in pasto il parlamento alle camicie nere. Per Franco erano stati anni difficili e pieni di speranze, anni di radiosi ricordi che il tempo aveva sepolto sotto la mota di una società allo sbando, senza più alcun ordine o valore. L’eroismo e l’impegno che avevano accompagnato la sua giovane generazione erano stati spazzati via dalla mediocrità dilagante. Nessuno avrebbe più corso il rischio di farsi ammazzare per un ideale di patria o di civiltà. Oggi si moriva per i colpi di camorristi e mafiosi, di negri e musulmani, al più ci si sterminava in famiglia.
Quello che aveva sparato a Varalli se lo ricordava poco. Era appena arrivato da Roma e non conosceva bene tutti. Ricordava invece benissimo, e un brivido ancora gli correva lungo la schiena, gli scontri che ne seguirono il giorno dopo, tutti asserragliati nella sede provinciale della Fiamma, lì vicino, in via Mancini. Ma la marmaglia era stata respinta. Zibecchi era morto in quei frangenti: pace all’anima sua. Un po’ di misericordia anche per i rossi del cazzo. A furia di stare da parti opposte di una stessa barricata si diventa un po’ fratelli.
Franco si era fatto onore ai tempi. A Roma, diciottenne, dava già una mano al servizio d’ordine di Almirante. Troppo tenero però, troppo istituzionale per lui. I camerati di Ordine Nuovo volevano tirarselo dentro ma non ce ne fu il tempo. Ai Parioli comparvero brutte scritte, e non erano i generici e patetici inviti a tornare nelle fogne ma minacce chiare, con nome e cognome: Franco De Stefanis. I suoi genitori, che vivevano la loro massima eccitazione politica ascoltando il soporifero Malagodi, storico leader liberale, per poco non ci rimasero. Decisero di non stare con le mani in mano, avevano già visto troppi ragazzi morire e non avrebbero aspettato di vederlo steso sul marciapiede coperto da un telo. Entrambi insegnanti, chiesero il trasferimento e, dopo la maturità di Franco, tempo un mese, cambiarono aria. Meglio mollare tutto che perdere un figlio, meglio ricominciare in una città lontana: Milano, dove già abitavano alcuni parenti.
Diamanteera il suo nome di battaglia. Certo, per la scala di Mohs era il più duro. Ma il vero motivo era la mazza da baseball che usava durante le azioni, il manico segnato da minuscole tacche, una per ogni rosso che aveva sistemato. Per nessun motivo al mondo volle separarsene al momento del trasloco e questo era già una dichiarazione di intenti: se quei due cacasotto di mamma e papà pensavano di cambiarlo con una stupida fuga, si sbagliavano di grosso. Forse avrebbe trovato la bella mortelontano dal Cupolone.
Così conobbe quell’accento con le vocali sguaiatamente aperte, la facoltà di architettura al Politecnico, la Maduninae il campionario di trita milanesità: la nebbia, il freddo cane, il panettone, la cotoletta, la frenesia che animava i passi e i gesti dei passanti.
Quando si presentò ai camerati ambrosiani questi lo accolsero con diffidenza e con sospetto. A quell’epoca era pieno di infiltrati e provocatori e ci si fidava poco anche degli amici, figuriamoci di un tipo spuntato dal nulla dal forte accento romano. Non gli ci volle però molto per accertare chi fosse veramente quel De Stefanis e finirono per riservargli gli onori dovuti a un vecchio compagno d’armi: benvenuto nel Fronte, Diamante.Partendo dalla sede o da Piazza San Babila ci sarebbero state nuove occasioni per apporre sul manico altre numerose tacche.
Se i pensieri avessero potuto vagare ancora, molto ci sarebbe stato da ricordare: i pestaggi, le folli corse, gli agguati, le spedizioni punitive. Ma Franco era tornato da quelle parti solo per incontrare sua moglie durante la pausa pranzo. Un baretto lì vicino, non lontano dall’ufficio di Sara, dietro piazza Cinque Giornate. In vent’anni di matrimonio non era mai successo, probabilmente era qualcosa di così urgente da non poter attendere la sera ed il ritorno a casa. Franco aveva lasciato lo studio col consueto anticipo con cui affrontava anche il più banale degli appuntamenti e questo, tra l’altro, pareva proprio non esserlo. Guardò il Patek Philippe che cercava di esibire con disinvoltura e constatò che il tempo per sfogliare nostalgicamente l’album della sua neragioventù era scaduto.
Il locale era uno dei soliti ambienti nati solo per accogliere il ceto impiegatizio snob, ilcappuccioal mattino o l’insalatona a mezzogiorno. Maledetta borghesia, buona solo a muovere le ganasce. Una bomba, ecco che cosa sarebbe stato bello lasciare fra i tacchi dodici delle segretarie o ai piedi dei bancari con le Church. Avrebbe anche saputo come fare, qualche decennio prima era stato istruito a dovere sull’uso di timer con annessi e connessi. Era come andare in bicicletta: non ci si poteva dimenticare.
Sara arrivò come di consueto in leggero ritardo, cosa che non sopportava Franco. Era tutta la vita che si destreggiava così: piccole dimenticanze, piccole inadempienze, piccole mancanze, piccole deviazioni dai doveri. Mai nulla di grave, nulla di eccessivo, sempre scusabile. Farglielo notare era solo una pedanteria eccessiva, una mancanza di indulgenza verso di lei e verso se stessi.
Franco si accorse subito di come l’immagine di sua moglie non collimasse con quella che lui si era creato nel tempo. Non aveva mai notato quella gonna con l’orlo sfrangiato e irregolare che, in alcuni punti, lasciava intravedere molto più del ginocchio. La stagione calda si stava avvicinando ma non aveva mai fatto caso a quella maglia così generosamente aperta. I capelli, raccolti in una morbida coda, sembravano tinti di recente e incorniciavano un volto più truccato del solito. Se il contorno occhi giocava con sfumature di colore, armonizzandosi con il marrone dell’iride, la bocca scintillava di un rosa lucente, neanche fosse un lucida labbra da ragazzina. L’intera sua presenza emanava un sentore di fresco, una ventata di primavera che annunciava l’estate alle porte.
Un bacio che sembrò un saluto tra due amici: forse erano ormai solo quello. Due parole per ordinare, carpendo da un menu sicuramente frizzante e creativo essendo scritto col gesso bianco sulla lavagnetta d’ardesia. E il caffè te lo offriva la casa.
Sara provò a partire con una delle sue filippiche verso i colleghi: il mondo delle assicurazioni, troie e pescecani. Lei naturalmente era il volto umano della sua professione. Franco non sembrava disposto a concedere spazio. Se si trattava di cosa che non poteva attendere le quattro mura domestiche tanto valeva fare presto. E poi aveva in programma uno dei suoi appuntamenti pomeridiani, quelli che si concludevano con lo scatto secco di una serratura e il nulla dietro di sé, a parte qualche banconota su un comodino.
Sara, con l’aria del commentatore di Rai Storia, rievocò le principali tappe del loro matrimonio, partito già con qualche inciampo. Rievocò i palpeggiamenti di lui a una bella cameriera, e si era ancora in viaggio di nozze. Franco proprio non se lo ricordava. E la moglie incalzò. La carrellata sul ventennio trascorso insieme – il ventennio, un vero destino – si avvicinò tristemente ai giorni d’oggi.
- Tutte le settimane te la fai con qualche donnina allegra, tipo la russa di piazza Napoli, quella che non ha ritoccato le orecchie solo per poter dire di avere qualcosa di naturale.
Questo Franco se lo ricordava. Anche il culo però non era rifatto, ne era sicuro, ma almeno su questo punto preferì non aprire alcun contenzioso. La parte dell’incassatore non gli si confaceva e subito contrattaccò.
- Te ne accorgi solo ora? La parte dell’ingenua moglie tradita, molto commovente. Hai sempre saputo e ti andava bene, hai voluto anche un figlio. Improvvisamente ritrovi la memoria, a un tavolo di un bar, davanti a un cacio e pepe che grida vendetta al cospetto di dio. A casa non si poteva proprio fare? Cosa ti passa per la testa?
Sara era sempre stata una donna pratica e, frequentando da molti e molti anni il variegato mondo assicurativo, sapeva che, se non vi era constatazione amichevole, era più idoneo collocarsi in una posizione di vantaggiosa prudenza. Meglio allora parlare in campo neutro evitando reazioni violente, facendosi scudo col folto pubblico. Non era cattivo Franco, ma in passato era capitato che uno schiaffone glielo avesse mollato e con quello che aveva da dirgli non era il caso di rischiare.
Perché lei aveva un altro.
Franco ne prese atto e provò ad anticiparla nel racconto. Doveva essere il suo capo, ricco e con la faccia da maiale; sui documenti, nella sezione segni particolari, onorando la fisiognomica, doveva esserci sicuramente: porco. Ma quello era il giorno delle novità. Il treno della vita scivola sui binari con altezzosa sicurezza prima che il deragliamento imponga nuovi parametri interpretativi della realtà. E Giulio si ritrovò contro la massicciata, con la sorpresa di chi si sente tradito da acciaio e traversine.
– Si chiama Kiran, ha trent’anni.
Nessun capo porco quindi, la situazione era molto più seria. Si chiamava Kiran, aveva dieci anni più del loro figlio e la metà degli anni di Franco, veniva dal Bangladesh e faceva il barista.
– E tuo figlio, come la prenderà?
Spesso quando non si sa cosa dire si cerca qualche passaggio melodrammatico a effetto, e un accenno alla paternità sofferente ha sicuramente il suo peso.
– Sergio sa già tutto. Una sera ci ha sorpreso mentre ci baciavamo sotto casa. Non ci sono problemi, ne abbiamo parlato e ha capito.
Franco, il donnaiolo fiero della propria mascolinità, incassava anche il fatto di essere fatto becco sotto le sue finestre. Il fedifrago, che spezzava l’impegno di sempiterna unione davanti a Dio, era giovane, extracomunitario, musulmano e, come poi lei meglio chiarì, non troppo chiaro di carnagione. Franco avrebbe proprio voluto mollare a Sara un bello schiaffo e osservare il suo volto, illuminato da una nuova felicità, mentre si torceva dal dolore, mentre gli occhiali dalla montatura leggera, appoggiati sempre in punta di naso da signorina un po’ rétro, volavano in aria roteando. Finalmente capì il perché di quella confessione al bar: un modo per evitare la sua sacrosanta reazione. Riuscì solo a partorire un velenoso commento di bassa lega.
– Te lo sei scelto pure sbagliato, gli asiatici ce l’hanno piccolo.
Sara, dopo anni in cui aveva accettato ogni genere di tradimento, sembrava godere di quella frase soffiata con un sorriso sardonico ma con la bava alla bocca. Allora, senza alcuna intenzione di estrarre le armi pesanti, toccò distrattamente la punta del proprio fioretto e, distendendo quasi annoiata il braccio, punzecchiò l’altro duellante, come per schernirlo.
– Hai sempre quel tocco di rara finezza. Per te è tutto una gara, sei fermo al confronto che si fa da bambini tirandosi giù le braghe. Comunque mi spiace davvero, nella sfida Italia-Bangladesh perdi tre a zero.
Verso la fine dello scorso millennio l’aveva imparato, fra lacrimogeni, celerini e manganelli. Quando la sede degli scontri ti sfavorisce è meglio ritirarsi e preparare una controffensiva nei giorni seguenti. Era inutile incaponirsi in una battaglia che momentaneamente non si poteva vincere. Franco depose cinquanta euro sul tavolino e si alzò di scatto per andarsene, non prima di aver fatto vibrare nell’aria una frase ad effetto.
– Ti serviranno, con quel morto di fame che ti sei scelta.
Non se la sentì di tornare al lavoro. Avvisò la sua segretaria e si mise a camminare senza meta, quei viaggi che vanno intrapresi da soli, con la mente e i piedi che agiscono senza alcuna coordinazione.
Ripensò all’occasione in cui si erano conosciuti, una di quelle feste riservate alla gente che conta: lui affermato architetto e famoso puttaniere, lei segretaria imbucata grazie ad amici di amici. L’innamoramento, il matrimonio, il pranzo di nozze con quei tavoli imbarazzanti di amici che intonavano la sagra di Giarabub.Poi la nascita di Sergio, quasi subito. Venti anni di declino sentimentale, cercando inutilmente di schivare quella parola che lo rincorreva da una vita. Infine l’aveva pur raggiunto:noia. I percorsi di marito e moglie, anno dopo anno, avevano assunto la forma di linee quasi mai parallele, giochi di zig-zag in cui prima o poi finivi per incrociarti quasi involontariamente. Ora invece c’era la precisa volontà di farle divergere, per sempre. Per un negro di trent’anni.
Aveva percorso tutto viale Premuda fino a Porta Venezia senza accorgersene, quasi un chilometro e mezzo. Si infilò in un bar per un prosecco. Lo specchio dietro il bancone rimandava la sua solita immagine, quella con cranio rasato e mascella volitiva: non era un segreto, gli piaceva assomigliargli. Ma il suo sguardo perso ricordava quello del duce versione Campo Imperatore, quando i nazisti andarono a riprenderselo. Ordinò ancora un paio di Noninoe uscì, per non guardarsi più.
Decise di tornare indietro passando per vie più silenziose e riservate. Se l’andata era stata una spietata disamina di quello che era stato, il ritorno doveva essere un progetto, pur disegnato con approssimazione e mano incerta. Forse avrebbe dovuto cercarsi un’altra casa. Quel figlio perennemente adolescente, senza voglia di futuro, senza spina dorsale, sarebbe rimasto con sua madre. Franco passò poi in rapida successione i beni da dividere, avendo un solo e deciso puntiglio: la barca, quella no, non l’avrebbe mai lasciata. Se la mente si distrae, sono le gambe a condurre. E si ritrovò in via Mancini, allucinato, come se fosse stato rilasciato in quel momento dopo un rapimento.
La sede del Movimento Sociale Italiano, una palazzina a due piani, portava tutti i segni della decadenza e dell’incuria. La scritta grande che l’attraversava era però rimasta ancora al suo posto: Federazione provinciale. Un glicine, nella sua crescita disordinata, aveva avvolto parzialmente la facciata coprendoFede:la mano pietosa della natura che prendeva atto dei tempi. Restava alla vista razione provinciale,una sorta di sbobba militaresca per una zona amministrativa. Il pianterreno era ricoperto da tessere di clinker amaranto che avevano perso brillantezza, forse per le mille ripuliture dalla vernice delle scritte. Un paio di slogan, malamente storpiati da un maldestro e ingenuo intervento su alcune lettere, ancora ricordavano sul muro che era in atto una qualche lotta. Il primo piano era maculato da schizzi di inchiostro rosso, probabilmente lanciato per imbrattare la lapide commemorativa di Sergio Ramelli, ucciso dal nemico quarantuno anni prima. Morto per l’Italia,recitava.
Franco masticava amaro. Un paese senza memoria per i camerati caduti, ingrato con chi lo aveva difeso dal comunismo. Altri tempi, che nessuno sembrava più ricordare. Lo sguardo miope dei politicanti si rivolgeva sempre ad altro, incuranti della vera emergenza. Il buonismo sinistrorso stava spalancando le porte all’invasione islamica. La fine dell’Occidente non era così lontana, sconfitto dall’inazione, dalla confusione dei sessi, dalla mescolanza delle etnie, sprofondato nel baratro del multiculturalismo: la morte della famiglia, la morte del cristianesimo, la morte dei valori, la fine della civiltà.
Una scritta compariva ancora sul campanello, parzialmente coperta da una gomma da masticare rinsecchita: Alleanza Nazionale. Un altro nome di un fallimento politico. Franco e i suoi fratellidel Fronteavevano capito: non potevano bastare le armi della dialettica parlamentare. Eppure erano stati lasciati soli e, loro malgrado, avevano dovuto abbassare il braccio teso. Qualcosa stava provando a rinascere, anche se c’era bisogno di novità che evocassero forza, ribellione, altro che il brodino culturale del buon Ezra. Ci si doveva rialzare, si doveva lottare come crociati a casa propria o la bandiera con la mezzaluna avrebbe sventolato sopra i nostri campanili.
Si sarebbero presi tutto, anche le nostre mogli, pensava Franco.
I chilometri che aveva macinato in quel lungo giorno gli presentarono il conto e un’infinita stanchezza lo avvolse, una debolezza improvvisa che lo convinse a dirigersi verso casa; il suo attico in largo Augusto distava ancora un quarto d’ora a piedi.
Entrò in casa esausto, deciso a stendersi almeno per qualche minuto. Erano anni che non tornava a casa presto nel pomeriggio. Percepì subito qualcosa di stonato, dei fremiti lontani che era certo di conoscere ma che non riusciva ancora a identificare. Non gli ci volle molto a capire che provenivano dalla camera da letto. La porta socchiusa lasciava intravedere un uomo dalla pelle ambrata che si muoveva ritmicamente in un evidente crescendo di eccitazione.
Questo era davvero troppo per Franco: il drappo rosso agitato davanti al toro. Andò istintivamente a rovistare fra le sue cose nella cabina armadio. Lei era sempre lì, attendeva solo di essere impugnata: Diamante era tornato.Irruppe nella camera e, con gli occhi chiusi, mosso solo dalla rabbia, cominciò a colpire alla cieca, con ferocia. Ma nel tumulto di lamenti, grida e suppliche che ne seguì, gli parve di riconoscere una parola che gli fece fermare la mazza a mezz’aria e lo costrinse a guardare.
Papà.
Nel letto c’erano due uomini.
Quello di razza ariana era suo figlio.
” Il giorno del Narciso” di Massimo Messa
“D’accordo, voi due restate qui, io me ne torno in albergo a farmiuna doccia”.
In quel grande magazzino di Palma di Maiorca ci stavano bene due donne. Lo shopping non mi dona. Meglio che un uomo se lo faccia da solo, vado a colpo sicuro e non mi annoio. Mamma e figlia se la intendevano bene. Chissà per quanto tempo avrebbero girato dauno stand all’altro per un paio di scarpe o una maglietta.
In prossimità dell’ascensore ci stava una giovane donna bionda,tanto provocante quanto poco vestita.
Mi dissi che ero un bell’uomo, alto, con tanti capelli castani, due occhi azzurri, intelligenza superiore alla media, cultura superiore alla media. Insomma: un narciso, un narciso con la fortuna di dormire quattro ore al giorno. Non di più. Quattro ore mi bastano e avan-zano. Il che significa agire, godermi la vita da sveglio per venti oreal giorno.
Mi avvicinai alla donna che stava scorrendo il suo smartphone come se fosse un pallottoliere. Non aveva una borsetta, non una tascanel suo vestitino, leggero, rosa come un fior di loto, giusto per ac- cogliere l’estate. Prima che le porte dell’ascensore si aprissero scoprii che era italiana, come me. L’ascensore era piccolo e vuoto, vi entram- mo come fanno due che si conoscono bene, senza alcun imbarazzo. Le sorrisi e le dissi che mi piacevano le scarpe rosse.
Lei guardò verso il basso e rispose “Ma io ho due infradito daspiaggia!”, svelando il suo accento emiliano.
“Difatti non le avevo notate”.
Aspettai che l’ascensore ci sbarcasse a piano terra. Lei uscì e siallontanò senza voltarsi. “Eh, no” mi dissi, “Così non va”. Affrettaiil passo e la raggiunsi all’aria aperta, all’uscita del grande magazzi-no. Le sfiorai una spalla e feci pressione con la mano destra sul suo fianco, la girai verso di me e avvicinai le mie alle sue labbra. Sapevo che lei avrebbe avuto un frazione di secondo per decidere. Rispose al mio bacio che durò parecchio e mi sembrò un’eternità, consideratoche si trattava di un primo bacio.
Mi staccai lentamente da lei e le dissi: “Io vado per di là”.
“E io dalla parte opposta” mi rispose, senza alcuna espressione di rilievo sul suo volto. “Anch’io vado dalla parte opposta” risposi.
La presi per mano e ci incamminammo sotto il sole delle Baleari di quel giorno di luglio.
“Sei così bella che non smetto di sentirmi eccitato da quando ti ho vista” aggiunsi sussurrandole all’orecchio.
“Come puoi immaginare, lo so” mi rispose “ho gli uomini addos- so come se fossi un cioccolatino o un bignè”.
“Ma tu sei molto di più, sei tutto un godimento per un uomo”. “Specialmente se quell’uomo sei tu!”.
“Sì, per me ancora di più”.
“Vuoi scoparmi? E’ questo che vuoi?”.
“Sì, per un giorno intero!”.
“Nel tuo albergo?”.
“No, meglio di no”.
“C’è tua moglie, vero?”.
“Sì, sono con mia moglie e mia figlia, nel tuo?”.“No, io abito qui d’estate. C’è mio marito”. Avevamo raggiunto il porticciolo turistico.
“E dove, allora?”.
“Ho una barca laggiù. Un cabinato di dodici metri”.
“Per me va bene”.
“Si sta un po’ scomodi, ma se sei così eccitato …”.
E fu così.
Lo facemmo in piedi, seduti e sdraiati. Uno sfinimento di piacere.Poi lei aprì un piccolo armadio e vi estrasse un pacchetto di si-
garette.
“Ne vuoi una?” mi chiese mentre lo scartava.
“No, grazie, non fumo”.
“Una sigaretta fa bene dopo l’amore”. E se l’accese.
“E tu ne fumi tante?”.
“Ogniqualvolta”. Aspirò il fumo con un’intensa boccata.
Era completamente nuda, un incanto di donna, la Venere del Bot-
ticelli.
“Ti voglio baciare ancora” le dissi.
Si infilò la sigaretta nella vagina e mi baciò con trasporto. Meglio
del primo bacio.
Le catturai la sigaretta e gliela porsi.
“Sei soddisfatto? Mi vuoi ancora?”.
“Sono appagato e me ne devo andare, è quasi l’una. Devo raggi-
ungere mia moglie e mia figlia”.
“Puoi dire a tua moglie che mi hai conosciuto allora”.
“Beh, non ne vedo il motivo. Mi ucciderebbe!”.
“Quando ti ho incontrato all’ascensore, mi aveva appena tele-
fonato”.
“Che cosa dici?”.
“Sì, mi ha detto che stavi uscendo dal piano dell’abbigliamento
intimo, ed io ti ho aspettato lì”.
“Tu conosci mia moglie?”.
“Eh sì, sono l’insegnante di Spagnolo di tua figlia che quest’anno
ha dei debiti al liceo”.
“Sei l’insegnate di mia figlia? … Sono stordito!”.
“Accade dopo l’amore, no?”.
“No, sono sorpreso. Perché mia moglie voleva che ti incontras-
si?”.
“Perché per tutto l’anno scolastico ai colloqui è venuta solo lei e,
considerato, che Sara non è sufficiente in Spagnolo, desiderava cheanche tu ne fossi consapevole. Così quando le ho detto che d’estate avrei raggiunto mio marito a Palma, ha pensato di sfruttare l’occa- sione, considerato che anche voi sareste stati qui, in vacanza”.
“Mamma mia, e ora che cosa le dovrò dire?”.
“Semplicemente che mi ha conosciuta e che io l’ho rassicurata.Sua figlia può senz’altro recuperare”.
“Tutto qui? E di noi?”.
“Di noi che cosa? Che abbiamo fatto due passi fino al porto eci siamo conosciuti e che lei ha un’ottima impressione della profdi Spagnolo di sua figlia. Per i dettagli, veda lei, fino a che puntoarrivare. A me ha fatto piacere conoscerla”.
Mi rivestii, salutai la professoressa e la ringraziai del colloquioche riferii poi, senza troppi dettagli, alle mie due donne.
“Bravo!” mi disse Ludovica “Era ora che tu la conoscessi. Meno male che c’è stata questa occasione …”.
Già, un’occasione più unica che rara!
“Il Mago” di Giorgio Maimone
Sono il mago, l’illusionista, il prestigiatore. Sono Mandrake, Lothar e Narda. Sono Doctor Zarkov e Flash Gordon. La realtà la prendo, la camuffo di parole, la scartavetro di aggettivi, la rendo modificata. Ad atmosfera zero. Così non invecchia. Che ci azzecca se si tira in ballo il pensiero? Niente pensiero. Solo sensazioni. Frasi di zucchero filato, frasi di torba e di cascata, frase di forma senza costrutto sotto, fumo che sostituisce il fumetto (Cosmic ballsthat replacethecomic balloon).
Sono la magia, la belladonna, la valeriana. Sono il crepitio della legna nel camino. Arde, dà caldo istantaneo, in un attimo è già bruciata. E resta cenere. Sono il rumore delle ragazze che se ne vanno, i cortei di inutili proteste. Sono l’aroma del pane (o del caffè) la mattina presto. Quando te ne accorgi, l’aroma è già sfumato e il pane ed il caffè tu non li hai presi. Sono il mago: guardate qua! C’era una volta e poi non c’è più (There wax. And then there’s no more). Per forza: è cera e s’è sciolta al fuoco del camino.
E cammino cammino cammino, ma … niente nelle mani, niente nella testa! Non do niente e non lascio niente. Nemmeno cattivo odore, nemmeno le lenzuola sporche. Non lascio tracce. Perché se tutto è illusione, tutto svanisce. E io svanisco al mattino. Sono vero all’alba. Non esisto di notte. Di giorno mi rintano. Esco verso sera. Non c’è trucco, non c’è inganno! C’è solo parola che parla e che viene parlata, che muta la forma, perché non è muta e si atteggia e boccheggia a boccaglio con bocche di rose. Niente in questa mano, niente in quest’altra! Tutto in bocca. Tutto fiato caldo. Sono l’imbonitore, il bastardo, il piazzista dell’elisir di lunga vita. E larga. La doppia vita avanza dentro di me. Un altro buco alla cintura. Oplà! Era un doppio salto mortale? Non l’avete visto? Immaginatevelo. Io lo racconto. E questo? Non l’avete notato? Non eravate ponti? Mi spiace, non ripeto. Semmai rifaccio, ma … oplà! E’ così veloce che nemmeno lo potete vedere! E allora immaginiamolo assieme: ho fatto un carpiato rovesciato e sono atterrato sulle mani, poi con un flip-flop mi sono riportato istantaneamente in piedi. Fantastico, eh? Sembra che sia rimasto sempre qui …
Non ho niente e non sono niente. Inconsistente, immaturo, incerto, introverso, ingannevole, cedevole, bastevole, agevole, abbastanza bastante, prestante, inquietante, poco inquinante. Prendetemi! Lo provi! Just do it! Just do eat? Non facciamo gli affamati adesso! Stay hungry, stay foolish! Qui il fool sono io.
Entrate signori e signori: qui troverete quello che non potete neanche immaginarvi: come vostra suocera che tace o un avvocato onesto. L’incredibile è possibile! E’ il possibile che diventa incredibile! Signora, lei non può. No, per lei il prodotto non c’è. Ne cerchi un altro. Questo è selettivo, è intuitivo, è captivo. No, ma che cattivo! Signora, lei non capisce proprio niente! Captivo. Con la Pt di Pterodattilo. Antico metodo di scrittura accelerata. A macchina, a mano, a macchia di leopardo, a zampa di elefante (o di gallina) e a brodo di pollo.
E sul bordo? Che vedo sul bordo? Sul bordo c’è l’abisso! Sul bordo dell’abisso, dice lei? E invece, qui sta il trucco, ma non si vede, sul bordo c’è già l’abisso! Uno, diciamo una che è meglio, arriva sul bordo. Pensa, mi spingo fino sul bordo. E invece quello è già l’abisso. E poi non si torna indietro. Perché mi si da credito. Perché ispiro fiducia. Perché sono il mago, l’illusionista, il prestigiatore. Sono l’imbonitore, vi intorto di parole.
… Finché raucedine vi salvi …
Pensa un numero? Aggiungi 7, togli 3, togli il numero che hai pensato. Ora scegli la lettera dell’alfabeto corrispondente: 1 A, 2B, 3C, così via. E ora pensa, ma non dirmi … Non dirmi ho detto! Sei incontinente? Quanto ti scappa la risposta la devi dire per forza? Signora, curi suo figlio che gli scappano le parole dalla bocca. E’ grave! Con questo difetto potrebbe diventare un politico! Pensa una nazione che inizia con la lettera che hai trovato. Ora aumenta di uno e pensa un animale. Ora aumenta di due e scegli un colore … Ma non è possibile! Non ci sono elefanti grigi in Danimarca! Applausi! Come? Aveva pensato a un emù verde in Dakota? Quale Dakota? Nord o sud? Nord? Eccolo l’errore! Come quale errore? Non ci sono emù verdi! E il Dakota dici? Cosa c’entra il Dakota? Non c’entra niente, ma quando ci vai mandami una cartolina, così io vengo qui a fare il prossimo spettacolo!
Signori e signori non fatevi turbare dai piccoli inconveniente e seguitemi, seguitemi, per di qua, sono solo quattro passi … Sì, dei miei. Ma non è colpa mia se io sono sui trampoli e voi siete piccolini! Ammirate il padiglione delle streghe. Le streghe non ci sono: le abbiamo dovute licenziare. Ci costavano troppo in prodotti di bellezza, ma il padiglione è rimasto. E questa è magia! Cosa vuol dire che è un padiglione auricolare? Significa che ci si sentirà meglio! Come dopo aver bevuto un caffè. Lei signore quanti ne beve di caffè? Sette al giorno? Per questo è così nervoso! E’ così teso che i peli delle braccia sembrano gli aculei di un porcospino. Se finisce sotto una macchina coi suoi peli le buca le gomme! Datevi tutti la mano! Avanti. Connecting people! Di qua … anzi, no. Di là (inverte la marcia). No! Di qui (cambio di direzione). Mi sbaglio sempre! Si va di qua (torna indietro). Insomma la volete smettere di seguirmi? Mi confondete! Think different! Se io penso una cosa vuoi pensatene un’altra. Ha visto il signore del Dakota? Lei signora a che stato avrebbe pensato? La Danimarca, lo sapevo! E gli elefanti? Rosa! Come rosa? Un colore che inizia per “G”: gray, no? Al massimo green, ma rosa mai! E che è? Dumbo?
Entrate, signori e signori entrate e guardate l’uomo più forte del mondo che spezza le catene soltanto con lo sguardo. Come fa? Semplice: quando voi gli guardate gli occhi lui prende un tronchese e taglia le catene. Poi la bellissima donna barbuta. Bearded not barded! (barbuta, non bardata!). Pensate: è nuda! Questa sembra una pelliccia, ma è solo la sua barba! Ci costa uno sproposito in dopobarba … ma molto poco in vestiti. Allora … chi vuol provare il giro della morte? Forse tu? O tu? O magari, perché no, voi due? Tanto è un’esperienza molto rapida: si fa una volta sola. Poi siete morti!
“Capo d’accusa” di Rino Casazza
Eva si era appena afflosciata sullo schienale del divano con un singulto.
Sullo scoppio dell’ennesima cannonata dell’Armata Rossa, Adolf Hitler portò alle labbra la capsula di cianuro, avvicinando alla bocca la canna della luger.
In quel momento, la luce nello studio privato cambiò. Assunse una tonalità più luminosa, e trasparente, simile a quella di un acquario. E lui si ritrovò immobile, come immortalato insieme a tutto il resto in un’istantanea.
Questo succede, quando si muore?pensò. No: lui non aveva ancora inghiottito il veleno né tantomeno si era sparato il colpo di grazia. Entrambi i gesti erano rimasti grottescamente incompiuti.
Davanti alla scrivania, a qualche metro da lui, la superficie irreale del misterioso fotogramma di realtà che lo imprigionava incominciò a scurirsi, sino a formare un’immagine. Era una figura umana, non c’erano dubbi. Totalmente incongrua rispetto al luogo, ma era lì. Pian piano prese forma più distinta, anche se rimaneva sbiadita. Era un uomo alto, in divisa, una divisa grigia che lui, pur da sempre appassionato di uniformi, non aveva mai visto. I pantaloni e la giacca, attillatissimi, aderivano al corpo come una guaina. Il berretto, di foggia bizzarra, aveva una visiera esageratamente sporgente. Gli stivali erano squadrati tanto da sembrare antiestetici scatoloni. Mancavano le spalline come qualsiasi altro segno per identificare il grado. C’era solo una breve striscia sul lato destro della giacca, che riportava una scritta incomprensibile. Chiunque avesse disegnato quell’ abbigliamento militare, non aveva il minimo gusto.
La grottesca figura mosse la bocca, e ne uscì una voce impersonale che sembrava registrata.
«Io, agente Vettanio Colubr della Polizia Temporale, su mandato della Somma Corte Terrestre, la dichiaro in arresto per grave crimine transtemporale contro l’umanità »
Se avesse potuto muovere i muscoli del viso, Hitler avrebbe fatto una smorfia di amara ironia: sin dagli inizi della sua avventura di Fuhrer del Terzo Reich aveva convissuto col rischio di sentirsi ritorcere un’accusa del genere, e quando oramai sembrava che, grazie al cielo, non ce ne fosse più il tempo, invece …
«L’arresto avverrà trasferendola da questo punto spaziotemporale all’Anticamera di Giudizio della Somma Corte. La sua presenza verrà sostituita con un similcadavere. Prima del trasferimento, ha diritto a una dichiarazione. Può parlare»
Hitler d’istinto ne approfittò per rispondere nel modo che aveva preparato per simili evenienze: «Contesto la legittimità del giudizio»
Lo strambo agente Colubr non parve impressionato. «Dichiarazione acquisita» disse «Pronti all’estrazione»
Hitler sprofondò di colpo nell’incoscienza, facendo tuttavia in tempo a pensare che quello, forse, era il suo estremo incubo di moribondo, dettato dall’angoscia dell’aldilà.
Invece si risvegliò.
La cosa non lo rallegrava, ed ancor meno il luogo dov’era finito.
Una stanza spoglia, con pareti grigie che non erano fatte di materia ma di una specie di campo di forza.
Come il sedile squadrato su cui sedeva.
L’unica nota di colore era la fascia rossa con la croce uncinata stretta alla manica della giubba beige. Aveva voluto compiere l’ultimo atto della sua vita in uniforme, come si conveniva a chi s’era sempre inchinato alla potenza della guerra.
Quanto alla situazione attuale, avrebbe sopportato, pur non desiderandolo, di sopravvivere alla morte, ma detestava esser giudicato.
Conosceva bene l’imputazione che tutti gli muovevano e, ci si poteva scommettere, avrebbero continuato a muovergli nei secoli dei secoli: aver perseguito lo sterminio di quanti si opponevano alla grandezza del popolo tedesco.
Beh, lui riconosceva agli altri popoli il diritto di affermarsi, ma proprio per questo pretendeva reciprocità: mors tua vita mea. Aver fallito nel suo disegno di dominio gli bruciava molto, però non aveva niente in contrario se i popoli che gli avevano impedito di portarlo a termine volessero schiacciare la razza ariana. Solo che non ne avevano la forza. La stirpe germanica, pur sconfitta, non gliel’ avrebbe permesso.
Davanti ai suoi occhi si manifestò il fenomeno che aveva preceduto la comparsa dell’agente Colubr. Questa volta però non fu la figura di quest’ultimo a materializzarsi, ma quella di un’altra persona.
Il nuovo arrivato portava una toga di foggia essenziale, con drappeggi appena accennati, e un tocco da magistrato privo di pennacchio. Grigi entrambi come la divisa di Colubr.
«Salve» disse, con una voce quasi indistinguibile da quella dell’agente «Sono Peor Norrix, Avvocato d’accusa.»
Adolf Hitler, cui aver rinviato la morte aveva fatto riacquistare l’arroganza consueta, lo apostrofò con un: «Si può sapere cos’è questa pagliacciata?»
«Certamente» rispose l’altro «La procedura prevede che lei sia informato.»
Indicò una delle pareti, su cui si tracciò il riquadro di un monitor, con l’immagine di una cupola opaca in mezzo ai ghiacci.
«Quella che vede è la sede della Somma Corte Terrestre. Oggi, 30 aprile 2113»
«Mi vuol far credere che sono passati 168 anni dall’aprile del 1945??»
«La procedura prevede un’informativa ma non facoltà di domanda per l’imputato.» precisò Norrix.
«Me ne fotto delle vostre proced… » Hitler si ritrovò con le corde vocali bloccate. La “Somma Corte Terrestre”, come la chiamavano, non tollerava l’indisciplina. Nonostante non fosse abituato ad esser messo a tacere, ed anzi lo considerasse un affronto, quella prova di forza gli piaceva: il potere doveva farsi rispettare, sempre.
«La Somma Corte Terrestre è l’ultima traccia di civiltà umana rimasta sul nostro pianeta. Ed è condannata a perire in un futuro molto vicino. Non prima di aver adempiuto alla sua missione: giudicare e condannare i responsabili della fine del genere umano»
Caspita!, pensò Hitler, ma che cosa è successo dopo la mia morte? Ho eliminato un bel po’ di esponenti delle razze inferiori, e mosso guerra alle marce democrazie europee, ma sono stato sconfitto e costretto al suicidio. Eppure questi fanatici giustizialisti attribuiscono a me la responsabilità di una catastrofe che si compirà più di centocinquant’anni dopo!
«La Somma Corte dispone di una tecnologia per l’esplorazione spaziotemporale. Può inviare emissari indietro nel tempo, ma senza interferire. Individuati i criminali, non può neutralizzarli, ma solo estrarli dal percorso spaziotemporale pochi istanti prima della loro morte, quando non potranno più alterare il corso degli eventi»
Una breve pausa, poi: «Gli imputati hanno diritto di difesa. Possono ricorrere ad un avvocato d’ufficio, o sostenerla da soli. Nei precedenti cinque giudizi, questa è stata la scelta »
Cinque giudizi …, pensò Hitler, …a quanto pare faccio parte di una élite…
«In caso di assoluzione, l’imputato verrà aggregato alla Somma Corte come giudice aggiunto. In caso di condanna c’è la pena di morte.»
Hitler era elettrizzato!
Forse era stato troppo pessimista. Non avrebbe dovuto rifiutarsi di fuggire, come molti gli avevano suggerito e come i posteri, c’era da giurarci, avrebbero continuato a sospettare avesse fatto veramente.
La guerra, naturalmente, era persa senza scampo e nel giro di pochi giorni, se non di poche ore, le truppe sovietiche sarebbero piombate nel bunker.
Ma con ogni evidenza i suoi ideali, malgrado la sconfitta, avevano fruttificato.
Il Terzo Reich era caduto, ma l’idea del nazionalsocialismo no. Aveva continuato a covare sotto la cenere, per riproporsi più avanti con forza rinnovata e miglior successo. Qualche altro leader tedesco era riuscito dove lui aveva fallito: asservire il mondo alla razza ariana, costruendo il Grande Reich.
Chissà cos’era successo …
Forse qualcosa era andato storto anche questa seconda volta. Ah, lo sapeva bene che i nemici della supremazia teutonica si annidavano in ogni angolo. Le false ideologie pacifiste ed egualitarie erano dure a morire.
Ci sarà stata qualche guerra terribile, con conseguenze catastrofiche: quella cupola sperduta in mezzo ai ghiacci ne era la prova.
Alla fine, come al solito, la responsabilità era ricaduta sulla legittima volontà di potenza della razza superiore, come se causa della rovina non fosse proprio non voler accettare la legge del più forte.
Ecco il significato dell’imputazione per … come aveva detto quel Colubr?, ah sì: “grave crimine transtemporale contro l’umanità”.
In quando padre e ideologo del nazismo gli addebitavano la catastrofe avvenuta.
Tra gli altri cinque imputati, c’era di sicuro il suo successore.
Come gli sarebbe piaciuto incontrarlo!
Ed anche gli altri!
Chissà chi erano … Gengis Kan? Attila? Saladino? Anche il suo avversario russo, Stalin, se ne aveva ben compreso la scorza, gli sembrava degno di stare in quella ristretta cerchia…
«Che cosa sceglie?» chiese Norrix.
«Non ho mai avuto bisogno di nessuno nei momenti che contano» proclamò il Fuhrer.
«Bene.» commentò Norrix, nel suo tono asettico «Adesso potrà visionare le immagini sul suo capo d’imputazione. La tecnologia della Somma Corte consente di riprodurre qualsiasi evento dello spaziotempo. Prima un chiarimento: la Somma Corte ha a lungo dibattuto se sottoporre a processo anche frau Eva Braun, decidendo alla fine di archiviare la sua posizione.»
Hitler sussultò di sorpresa.
Che c’entrava Eva?
Lei era stata solo la sua donna.
L’unica sua colpa era di averlo amato. Sinceramente, appassionatamente.
Quel tribunale denunciava sempre più una rigidezza ossessiva. Non avrebbero nemmeno dovuto porsi il problema di una complicità della sua compagna.
O forse lo sottovalutavano, pensando che potesse farsi manovrare da una donna.
Ma avrebbero dovuto saperlo che nessuno poteva comandare al Fuhrer perché il Fuhrer era l’incarnazione stessa del comando!
La responsabilità di ciò che il nazismo aveva fatto, che poi non era nemmeno una responsabilità ma semplice estrinsecazione della sua natura, ricadeva tutta su di lui.
Non aveva intenzione di condividerla con alcuno dei suoi gerarchi: non con Goebbels, non con Goering, tantomeno con Bormann.
«Se non ha obiezioni, procediamo.» sentenziò Norrix.
Hitler avrebbe voluto protestare per l’ingiustificato coinvolgimento di Eva, ma decise di lasciar perdere.
L’immagine della cupola scomparve dallo schermo.
Hitler sapeva da dove avrebbero cominciato: i lager polacchi.
La maledetta “questione ebraica”, l’aveva sempre saputo, gli sarebbe rimasta appiccicata.
Eppure lui non aveva fatto niente di così abominevole, come pure si cominciava a vociferare nell’ultima parte della guerra.
Era anche sicuro che la propaganda sionista dopo la sua caduta avrebbe ingigantito l’efferatezza della “soluzione finale”.
Ma non c’era stato alcun accanimento verso i giudei.
Il nazionalsocialismo voleva eliminarli tutti nel modo più indolore.
Non a caso aveva messo a capo della macchina organizzativa che doveva realizzare loro soppressione l’Obersturmbannführer Adolf Eichmann: un efficientissimo, puntiglioso esecutore.
Se qualcuno aveva sofferto, era stato per marginali disfunzioni di quella macchina.
I giudei dovevano essere asfissiati con lo “zyklon b”, cremati e dispersi in cielo.
Il tutto con appropriata gradualità.
Niente di più.
Chissà cosa gli sarebbe toccato di vedere.
Le urla dei piccoli giudei atterriti (sciocchezze, i bambini piangono sempre, sono un fastidio infinito, sopportabile solo perché in un futuro non lontano si trasformeranno in ariani adulti); i rantoli dei prigionieri gassati (figuriamoci: lo zyklon b agiva in fretta, e quando uno è morto non può ricordarsi dell’agonia); le lugubri cataste di cadaveri (santi numi, aveva scelto la cremazione di massa proprioper far sparire in fretta quegli sgradevoli spettacoli!); ecc ecc.
Chissà, magari a qualche addetto alla soluzione finale erano sfuggiti atti di crudeltà, stupidi prima ancora che inutili, e adesso glieli avrebbero addebitati per “responsabilità oggettiva”. La responsabilità oggettiva era barbara, ma lui nel nome dell’ideale della razza l’avrebbe accettata.
Sullo schermo comparve l’immagine inconfondibile di una camera operatoria.
Maledizione!
Josef Mengele!
L’aveva sempre pensato che quel medico avesse una vena di follia assassina!
Non avrebbe mai dovuto commettere l’errore di mandarlo a compiere i suoi esperimenti nei lager.
Gli ebrei, d’accordo, erano cavie sacrificabili, ma c’era un limite a tutto!
Lui, ad esempio, aveva sempre aborrito la vivisezione, specie sui cani (il ricordo della povera Blondi lo aggredì violento).
Mengele si era di certo macchiato di crudeltà inaccettabili.
Si diceva che avesse una passione per la chirurgia su pazienti svegli. Li aveva sempre ritenuti pettegolezzi calunniosi, ma evidentemente…
Quando lui aveva dovuto uccidere la sua adorata cagna, l’aveva risparmiandole ogni sofferenza…
L’inquadratura si restrinse al tavolo operatorio.
Alla luce livida del proiettore, sotto un lenzuolo stava distesa una donna, con gli occhi aperti, molto tristi. Aveva inserito in un avambraccio l’ago di una fleboclisi. Con l’altra mano stringeva quella di un uomo.
Hitler rimase di pietra.
Quei due erano lui ed Eva.
Infatti l’inquadratura si aprì, rivelando la sua inconfondibile presenza a fianco del tavolo operatorio: in uniforme, più giovane di qualche anno, l’espressione severa.
«Riconosce questa circostanza?» disse Norrix.
Hitler la riconosceva. E il fatto che quel Tribunale del futuro volesse imputargliela dimostrava che i loro pronipoti, sconvolti per aver distrutto il pianeta, avevano perduto il senso delle proporzioni.
Eccome se ricordava! Era stato uno dei momenti più penosi della sua vita, e della sua relazione con Eva.
La sua donna era rimasta incinta. Pur sapendo che lui era contrario ad avere figli, dopo averglielo nascosto per qualche tempo, l’aveva affrontato proponendogli di tenere il bambino.
Era andato prima su tutte le furie, poi si era intenerito per la sincerità dell’aspirazione di Eva.
Ma era stato irremovibile: il Fuhrer del Grande Reich poteva avere successori (sperando che fossero degni di lui …) ma non eredi.
Doveva rimanere unico. Era, unico.
Quanto l’aveva pregato, Eva, di liberarsi dall’ossessione della propria unicità!
Non doveva temere che un figlio non fosse all’altezza, gli aveva detto. Pensava che dentro di sé lui covasse il complesso della propria inferiorità fisica, e non tollerasse di vederla rispecchiata in un figlio.
Ma non era così: lui era nato per fare grande la Germania e questa passione, questa missioneera incompatibile con la paternità.
Così Eva, pur con la morte nel cuore, aveva acconsentito ad abortire. E lui aveva deciso di stare al suo fianco mentre si sottoponeva a questo sacrificio necessario, di cui le era grato.
In verità, lo riteneva la più grande prova d’amore che lei gli avesse offerto.
E adesso i giudici supremi, autoarrogatisi tali, di quella Corte morente di un mondo in agonia, invece di occuparsi di crimini davvero rimarchevoli dal loro punto di vista “umanitario”, si accanivano contro un misero aborto, addirittura ponendosi il problema se condannare la donna che vi era ricorsa solo per dedizione al suo uomo!
«Il silenzio verrà considerato risposta positiva.» lo sollecitò Norrix.
«Mi fate pena.» disse Hitler «Siete così miseri che meritate l’estinzione.»
«Si attenga ai fatti. Ammette o no di aver procurato la morte di Herbert Hitler?»
«Cosa??» Hitler era più stizzito che sorpreso.
« Herbert Guntmar Hitler, nella linea temporale alternativa in cui frau Braun non ne interrompe la gravidanza, nasce nello chalet “Berghof”, a Bertasgaden, il 25 agosto 1940. La sua esistenza rimane nascosta fino alla caduta del nazismo, nel maggio del 1945. Sono i comandanti dell’Armata Rossa a scoprire, tra le carte del bunker, che il bambino è stato messo in salvo negli Stati Uniti, dove vive in un esclusivo collegio di Philadelphia. Il governo di Washington si dichiara disponibile a fornirgli asilo e lì rimane fino alla maggiore età, nonostante lo scalpore e le polemiche che la notizia suscita.»
«Non ho intenzione di ascoltare questo ridicolo cumulo di invenzioni!»
«Invece dovrà ascoltarle. Potrà anche vederle, se vuole. La tecnologia della Somma Corte consente di riprodurre le linee temporali alternative. Questa è una delle sei che conducono a un futuro senza morte della terra.»
«E’ una follia!» strillò Hitler.
«Lo è quando accaduto in seguito alla non nascitadi suo figlio, invece … Ma ascolti: Herbert avrebbe avuto straordinarie qualità, da lei avrebbe ereditato un trascinante carisma naturale, dalla madre il carattere dolce ed aperto. Sarebbe stato alto, robusto, con gli occhi azzurri. Portato per gli studi, si sarebbe iscritto al corso di economia all’Università della Pennsylvania, laurendosi a pieni voti nel 1969. Malgrado nella Germania Federale non sarebbero mancati tentativi di coinvolgerlo in una rinascita del nazionalsocialismo, non ci sarà mai persona più avversa di lui alle ideologie totalitarie e razziste. Le riassumo le tappe della sua carriera. Nel 1973 sarebbe rientrato in patria, per fondare il Partito della Pacificazione, che due anni dopo avrebbe ottenuto uno straordinario successo alle elezioni per il Bundestag. Nel 1980 il Partito della Pacificazione avrebbe conquistato la maggioranza dei seggi nel parlamento, con un programma rivoluzionario, il “capital-altruismo”, o “capitaluismo” che prevede il coinvolgimento attivo dei cittadini in una crescita industriale a misura d’uomo, bilanciando gli squilibri sociali attraverso forme di solidarietà spontaneamente finanziate e gratuitamente gestite dai privati. Herbert sarebbe stato nominato cancelliere, portando al successo nell’arco della legislatura il “capitaluismo”, che si sarebbe diffuso in tutta Europa, e poi in tutto il mondo …. Avrebbe avuto un figlio degenere, Fuhrer… » commentò sarcastico Norrix, venendo per una volta meno al suo tono ufficiale.
Hitler fece una smorfia di disgusto.
“Il caso sbagliato” di Davide Pappalardo
Qualcuno mi aveva ordinato di seguirla. E di non parlarle. Non subito almeno.
Chi era quella ragazza e perché dovevo starle alle calcagna con la bocca cucita?
Non lo sapevo. Il mio unico obbligo, per il momento, era di correrle dietro come un mastino con le corde vocali recise.
Bell’affare. In quei giorni non avevo mica tempo da perdere in capricci e misteri insondabili. Dovevo, non necessariamente nell’ordine, procacciarmi clienti, scucire soldi per le bollette e scappare a gambe levate davanti ai creditori. Per quest’ultima ragione spesso e volentieri dormivo della grossa. Mi rimpinzavo di energie che poi bruciavo coi miei scatti da centometrista per evitare gli accattoni a cui dovevo denaro.
Ce n’erano parecchi da cui stare alla larga: il lattaio del vicolo in cui avevo messo su la mia stamberga, la signora Mary, così gentile quando pagavo la pigione e così pronta ad adombrarsi quando questuavo un piccolo posticipo e John, quello che mi spaventava di più, l’enorme macellaio dal grembiule unto di macchie rosse. Temevo che quegli ornamenti non fossero dovuti solo al sangue di quarti di bue, polli, conigli e compagnia bella.
Ma vuoi o non vuoi, in quei tempi grami per le mie tasche affamate di pecunia, ero in qualche modo inorgoglito. Mi aggiravo a testa alta tra le strade del quartiere che va dall’acciaieria al cimitero di Saint Rose, sfoderando il mio sfavillante sorriso, momentaneamente a trentuno denti.
Qualche frammento di incisivo l’avevo sputacchiato nel cesso di uno dei migliori ristoranti della zona, il Lady Ruth, una stanzaccia che puzzava di whisky, segatura e latrina da un miglio di distanza. Tanto lurida che la schifavano pure i frequentatori delle mense dell’esercito della salvezza.
Un tizio che chiamavano Il Lettone non aveva gradito le mie critiche al terzino della squadra di calcio locale: troppo leggerino, non teneva bene la difesa, impacciato nei movimenti. Ebbi persino l’ardire di definire di legno le gambe del beniamino. Il Lettone, tifoso sfegatato della squadra, pur riconoscendo la validità di qualche mia lagna, dopo un vivace e articolato dibattito, aveva confutato le mie tesi con argomentazioni perentorie.
Non so come era riuscito in un sol colpo a mandare in aria pezzettini di incisivo e a far quasi capitolare i miei canini. Non erano saltati via, ma da quel giorno li avrei avuti leggermente storti. L’incisivo mi era stato poi risistemato da un dottorino alle prime armi con un’otturazione alla buona.
Comunque sia mi aggiravo per le strade del quartiere come un’adescatrice dei bassi elargendo ammiccamenti a destra e a manca. I miei occhi castani, nascosti dagli occhiali alla John Lennon, erano pronti a scrutare potenziali clienti. E anche a cogliere tra la folla i miserabili che pensavano di rivalersi su di me frugando le mie tasche. In saccoccia, purtroppo per loro, solo cicche di sigarette e qualche briciola di pane raffermo. Ma io dispensavo lo stesso sorrisi a dame e signori. Un politicante in campagna elettorale.
Presto detto il motivo del mio orgoglio. Qualche giorno prima, con due grossi chiodi arrugginiti che sembravano presi in prestito dalla croce del Calvario, avevo fissato una targhetta di legno alla parete del tugurio affittato dalla signora Mary.
Sull’insegna la scritta: Björn Ungaretti. Agenzia Investigativa.
Dietro la montatura dorata mi luccicavano gli occhi. Anche se più in là della targhetta non c’era altro che una stanza con le pareti ricoperte di macchie di muffa, un divano che significava cambiali, e polvere, soprattutto tanta polvere, mi sembrava di aver inaugurato l’Agenzia Pinkerton.
E poi sì, qualche cliente c’era già. Nella zona non mancavano i motivi per rivolgersi a un investigatore privato giovane e a buon mercato: corna, ammanchi sul lavoro, piccole ripicche tra amici. Le solite belle cose che fanno pascolare gli uomini come me nei verdi campi della vita. Roba da brucare la troverai sempre se l’essere umano rimane il meschino che è. E non c’è motivo che cambi.
Il lavoro cominciava ad arrivare dunque ma qualcuno, il verme, mi aveva chiesto di occuparmi di quella donna.
Non si dimentica una così. Mi era entrata in circolo nelle vene già la prima volta che l’avevo adocchiata. Roba da andare in brodo di giuggiole. Snella, un seno che appariva morbido come un cuscino quando non tocchi un letto da tre giorni, labbra leggermente arcuate. Sembrava avesse un docile broncio permanente. Due occhi grandi e neri, accompagnati da un’espressione smarrita, ti facevano venir voglia di proteggerla per tutta l’esistenza terrena e anche oltre. Capelli lunghi fino al collo, castani e lucenti, e davanti una frangetta corta che le dava un’aria giovane. Doveva avere poco più di vent’anni o forse era proprio la frangia a ingannarmi.
Di lei conoscevo solo l’aspetto. Per ora quanto bastava per seguirla. Poi magari avrei dovuto trovare anche il modo di parlarle.
L’occasione si presentò durante una mia incursione solitaria nel quartiere.
Quella sera le strade erano bagnate e rilucevano illuminate dai fanali delle auto di passaggio. Al primo piano di un fabbricato dai mattoni rossi, un tizio fumava una sigaretta. Dietro di lui un giradischi gracchiava un blues. Dall’altra parte della strada la ferrovia.
Nel mezzo, sul marciapiedi, io. Avvolto in un impermeabile beige che ricopriva il mio corpo massiccio e immerso nei miei pensieri: i conti, l’appuntamento col barbiere per una sforbiciata ai miei capelli rossi ora troppo lunghi per essere dominati da una parvenza di pettinatura, i tempi in cui con mio fratello Eiran giocavo ai soldati tra la boscaglia dietro casa e il muro di cinta del negozio del signor Mauser.
Quasi senza accorgermene, forse per scacciare questi pensieri, diedi un calcio a una lattina di birra.
Dovevo esserci andato giù pesante. La mia gamba, memore dei trascorsi da mediano di mischia nel rugby, aveva impresso una bella forza al calcio. La lattina era schizzata in alto verso il tipo del primo piano e poi era scesa lenta per andare a sbatacchiarsi qualche metro più avanti contro un cassonetto della spazzatura.
Una figura sottile di donna sussultò a qualche metro da me.
Quella donna! Era proprio lei.
Quel qualcuno mi aveva raccomandato solo di seguirla e raccogliere informazioni, senza farmi notare.
Un accidenti! La splendida si era girata, i capelli si erano mossi rapidi da una parte all’altra e i suoi occhioni neri si erano piantati su di me. Me li ero sentiti addosso. Come tentacoli di un polipo si erano allacciati ai miei.
Bofonchiai una scusa abbassando gli occhi e, curvo nell’impermeabile, svoltai l’angolo. Mi infilai nel primo bar a disposizione.
Ingollai una pinta di birra dopo l’altra. Nel frattempo cercavo di mettere in campo una strategia. Quel qualcuno, il verme che mi aveva commissionato il lavoro, mi aveva raccomandato di stare attento a non farmi vedere le prime volte. Ma mi ero fatto beccare come una comare che ciarla di un segreto nel bel mezzo di un cortile affollato.
Cosa sai di lei? Mi chiesi. Dovevo averlo detto ad alta voce.
Un uomo sui quaranta che salmodiava non so quali lamenti aveva interrotto il discorso e si era girato verso di me. Il tizio con un pizzetto scuro che gli stava accanto sembrava interessato ai suoi argomenti quanto un cultore di pittura a un match di pugilato.
Stavo per chiedere spiegazioni ma l’uomo aveva già ricominciato a sputare parole sui problemi dell’acciaieria e su quello stronzo del suo capoturno. Un giorno o l’altro gli avrebbe immerso la testa in un contenitore per acidi. Il tipo col pizzetto annuiva ciondolando la testa avanti e indietro e ogni tanto dava un’occhiata ai muscoli delle braccia del suo interlocutore che guizzavano svelti.
Ripresi a rimuginare. Ecco quanto ne sapevo: giovane, bella, gira da sola per il quartiere come se stesse cercando o aspettando qualcuno. Ero proprio arguto. Notizie che avrebbe potuto raccattare anche un passante orbo preso a caso. Magari anche aggiungendo altre considerazioni, senza dubbio più interessanti delle mie.
Il tizio accanto a me continuava a questionare, era tutto un muoversi di braccia, fasci muscolari, terminazioni nervose che saettavano. Il suo interlocutore? Per la pazienza dimostrata meritava di vincere almeno alla lotteria rionale, il massimo che si concedeva era una grattata al pizzetto e un sorso di birra.
Il brusio della saletta mi stava disturbando. Non riuscivo a ragionare e quando non ragioni che fai? Bevi o ti accanisci sui ricordi e per non rimestare nei ricordi bevi, ma se bevi i ricordi cattivi riaffiorano e allora devi soffocarli con un’altra pinta e così via. E va a finire che se ti butta bene sei uno straccio dopo un paio d’ore e se va male l’indomani mattina ti raccolgono nel vicolo con un cucchiaino insieme ai trucioli della vicina segheria e alle bucce di arachidi del locale. Non avevo intenzione di farmi ammazzare dai ricordi e mi stavo rinfilando l’impermeabile, quando colsi un cambiamento in sala.
Si era fatto silenzio. O meglio il brusio era diminuito parecchio. Sbirciai i due tizi accanto a me al bancone. L’operaio che voleva superare le incomprensioni col capoturno con metodi extra sindacali ciancicava adesso qualcosa al tipo col pizzetto. Entrambi guardavano verso l’ingresso. Anche altri avevano lo sguardo diretto all’entrata e non stavano certo ammirando l’attaccapanni in legno massiccio che, perdiana, non era mica male. Ne avrei avuto certo bisogno per l’agenzia ma non poteva essere quello l’oggetto delle attenzioni di tutta quella gente. Non aveva mica le fattezze della ragazza che era appena entrata. Lei.
Si era guardata intorno sgranando gli occhi. Il suo sguardo smarrito aveva pestato il piede sull’acceleratore del mio ritmo cardiaco. Gli avventori del bar, in gran parte maschi della classe operaia del quartiere, dopo qualche attimo di incanto erano tornati a poggiare le labbra sui boccali e a parlare di calcio, politica e di turni e capiturno.
Solo io ero rimasto ancora a bocca aperta, a cercare di sondare il mistero di quella donna.
Scelse un tavolo rotondo, nero e per due, a pochi passi da me.
Sembrava non avermi visto. Mi asciugai il muso per cercare di darmi contegno. Mia madre, poverina, aveva avuto i suoi bei problemi ad allevare due cuccioli in questo quartiere, dove se sei gentile quantomeno vieni bollato come finocchio e se non sai difenderti alla prima occasione torni a casa con un occhio pesto, alla seconda scatta il pronto soccorso e non arrivi alla terza perché hai già cambiato zona. Ma non aveva dimenticato di insegnarmi le buone maniere, mia mamma.
La ragazza mi avrebbe di certo scorto e quindi avrei dovuto avere un’aria rispettabile.
Quel qualcuno, responsabile di tutta la vicenda, mi aveva però detto di non avvicinarmi le prime volte. Sarebbe stato pericoloso. Perché? Quali minacce potevano arrivare da una giovane fanciulla dall’aspetto così delicato?
Forse quel qualcuno mentiva, era un sabotatore, mi stava conducendo fuori strada per chissà quali motivi.
La ragazza aveva un rossetto tenue sulle labbra e quel broncio non aveva nulla di quei bronci sensuali e impertinenti che hanno certe donne. Le dava anzi un tocco di dolcezza che avrebbe sciolto financo il mio vicino di bancone che instancabile adesso declinava i vari metodi per far fuori il suo capoturno.
Investirlo con la macchina nello stradone alberato nei pressi della segheria, avvelenare il caffè, assoldare un disperato che per una dose è disposto a far fuori anche l’intera fabbrica, figurati un uomo soltanto.
Sapevo che il tipo dai muscoli guizzanti non avrebbe mai fatto un cazzo. Li conosco quei tipi. A parte parlare, parlare e parlare, non fanno nulla. Il tizio si stava solo sfogando con un amico delle nefandezze di un altro fesso. Soverchierie di un disgraziato peggio di lui che conduceva una vita infame. E si rivaleva sul mondo con quel poco di squallido potere destinatogli in questa terra.
Me lo immaginavo il suo kapò, chiuso in casa a guardare uno sceneggiato in tv, a languire con cibo precotto, birra economica e vino in cartone, fra quattro mura fredde. Ma l’indomani glielo avrebbe fatto vedere lui al mondo, li avrebbe strigliati per bene i suoi ragazzi e poi la sera sarebbe tornato solo di nuovo nel suo buco di culo di stanza.
Quasi mi veniva voglia di ridere a sentire così tante stronzate. E forse lo feci. O almeno sorrisi. Perché, meraviglia delle meraviglie, alzando gli occhi verso il tavolo della misteriosa fanciulla dagli occhi neri, vidi che anche lei sorrideva. Mi sorrideva. Fu un attimo.
In seguito pensai di essermi sbagliato, forse per giustificarmi.
Comunque, in quel preciso momento, ebbi l’impressione che quella donna stesse sorridendo a me. Mi si seccò la gola all’istante. Era come se una volpe miope scambiando un riccio per un pollo lo avesse inghiottito, conficcandosi gli aculei nel palato.
Mi tornò in mente il consiglio di quel qualcuno che mi aveva commissionato tutto: “Non avere fretta di parlarle, Björn”.
Ma ero giovane e i giovani, si sa, devono anche infischiarsene dei moniti e così cominciai a meditare di infrangere la prima regola del mio committente.
Ma sì, mi dissi, smuovi il tuo poderoso sedere dallo sgabello e piazzati nel tavolo rotondo.
Però aspetta, magari non subito. E’ troppo sfacciato. E poi cosa dirle?
Era già tardi. Molti degli avventori erano andati via, presto la sveglia avrebbe rotto il sonno senza sogni di parecchi di loro.
Un giovane stava già pulendo alcuni tavoli. Mi distrassi a guardarlo perché somigliava a mio fratello, per via delle lentiggini. Manda via questi pensieri, mi dissi e alzati. E così saltai dallo sgabello e dritto e fiero mi diressi verso il tavolo rotondo.
Vuoto.
“E’ filata via”, mi disse con uno sguardo complice il tipo muscoloso che stazionava ancora al bancone. Il suo amico doveva essere rincasato. E così finii la serata a discutere degli orari di lavoro in fabbrica, del calo della produzione dell’acciaio, degli investimenti nel settore, del governo porco e, ovviamente, del capoturno e di come ammazzarlo.
Le settimane passavano. Avevo risolto un paio di casi di corna ed ero corso dal macellaio. Dapprima mi aveva guardato torvo ma, quando avevo sganciato un po’ di biglietti sul freddo tavolo di marmo e chiuso i debiti, si era allargato in un sorrisone. Per sferrarmi poi una pacca che doveva somigliare tanto al gancio destro di Rocky Marciano. Io e la mia scapola sinistra ce la saremmo ricordata per il resto dei nostri giorni quella pacca, segno tangibile di una stima duratura.
Ma restava il caso della donna. Quel qualcuno si era rifatto vivo e mi aveva pure dato del coglione perché non avevo parlato con la ragazza.
“Ma come, prima mi dici che devo solo seguirla e che non devo parlarle per nulla al mondo? E poi sono un imbecille di prima categoria per non aver aperto bocca?”
Quel qualcuno mi aveva risposto che il sorriso della ragazza aveva cambiato tutto.
“Che razza di investigatore e di uomo sei se ti attieni alla lettera alle istruzioni dei tuoi clienti? Te lo dico una volta sola: se vuoi crescere fidati del tuo istinto, ascolta i consigli ma scegli. Non aspettare che qualcosa accada o che capiti per grazia degli altri”.
E così, per essere stato obbediente alle regole di ingaggio, mi ero beccato addosso una bidonata di umiliazione.
Risolvendo i due casi di tradimento mi ero imbattuto più volte nella ragazza. In un’occasione si era anche girata. Preoccupata.
Poi ero riuscito a cavare qualche informazione dal tipo che aveva voglia di menare il capoturno. La conosceva di vista, abitava tra il droghiere e la ferramenta di Hardy. Mi spiattellò che frequentava il pub Alce bianco.
Così ogni maledetta sera facevo una capatina al pub o mi aggiravo nei dintorni leggiucchiando un giornale, fingendo di chiamare dal telefono pubblico, sbocconcellando frittelle al freddo e sventolando la licenza quella volta che le guardie mi chiedevano conto del mio bighellonare.
Quando capitò ero dietro a un lampione e stavo prendendo appunti sull’ultima grana da risolvere: Olga temeva che il marito Adam la tradisse con una certa Wilma, una rossa tutta pepe, un po’ in carne. Stavo segnando orari e spostamenti di Adam quando la ragazza misteriosa mi passò davanti inebriandomi con un profumo che sapeva di primavera. Seguii con gli occhi la scia di vapore lasciata dal suo corpo mentre tagliava la nebbiolina e si dirigeva verso l’Alce bianco.
Posai gli appunti nella tasca interna dell’impermeabile. Promisi a quel qualcuno di mia stretta conoscenza che stavolta avrei risolto la questione.
Risoluto entrai nel locale. Davanti mi trovai tre donne in età pensionabile, a sinistra un vecchio sbevazzone con una lunga sciarpa di lana che doveva risalire ai tempi di Matusalemme, a destra guappi di fabbrica. Nessuna traccia di quella donna. Solo calici che si alzavano, pinte di birra sui vassoi, spillatrici in funzione, chiacchiere e risa sguaiate.
Guardai di nuovo e la vidi, nel tavolo dietro al vecchio. Sorrideva. Splendida. Gli occhi neri, di ossidiana, le brillavano di una luce nuova. Ed era bellissimo stare dentro quella luce. I capelli soffici sembravano animati da un vento dolce che li carezzava. Tutto emanava un lindore che rendeva più bello a vedersi chi la circondava. Anche il vecchio sbevazzone. La sua sciarpa sporca e infeltrita sembrava adesso una candida stola di visone, la sua barba incolta pareva scolpire il viso di un anziano filosofo, gli occhi opachi, spenti sotto una sottile striscia trasparente, nuotavano in scintille di intelligenza e saggezza.
Mi persi in quell’aura di splendore che attorniava la donna e stavo per sedermi accanto a lei quando vidi che non era sola. Sorrideva sì, non a me, ma al giovane bruno che le stava accanto. Nemmeno lo guardai. Seppi che ormai era tempo perso.
Feci una retromarcia improvvisa. E andai a sbattere contro il tavolo del vecchio. Non era Seneca né Platone ma pronunciò una sequela di improperi dimostrando di essere un alfiere del suo ramo.
Tornai in ufficio, deciso a saldare i conti in sospeso. Innanzitutto con quel qualcuno di mia conoscenza.
Mi sedetti alla scrivania. Sul tavolo appunti sparsi, qualche foto, un grosso telefono rosso che non squillava mai. Accesi la radio per ascoltare il notiziario, ma la spensi subito, quelle voci mi confondevano.
Accavallai le gambe e buttai i piedi sullo scrittoio, presi uno specchio, tolsi dal naso la montatura color oro, guardai dentro al vetro.
Non sembravo un angelo, solo un diavolone dai capelli rossicci. Un buono che la vita, i sensi di colpa e le esperienze avrebbero reso via via più duro.
Che avevo da chiedere a quel qualcuno?
Risi, di quelle risate amare che sembravano più un ghigno da bestia ferita.
E allora gli dissi fesso.
Fesso, dissi a quel qualcuno che mi aveva bloccato.
Ma pronunciai quell’unica parola quasi con compassione, senza usare troppa durezza nei confronti di quel volto che mi guardava intontito dallo specchio.
Mi ero imposto di seguire la ragazza, semplicemente perché mi piaceva. Avevo poi solo avuto paura. Sabotato dalle mie incertezze.
Avrei imparato la lezione? Mi chiesi, senza penarmi tanto di darmi una risposta.
Poi tolsi gambe e stivali dalla scrivania, spazzai con la mano qualche pietra e un po’ di terra bagnata che era caduta su, rassettai i fogli alla bell’è meglio.
Presi una pezza, andai fuori, lustrai per benino l’insegna.
Rimasi a guardarla per tre minuti buoni.
Björn Ungaretti. Agenzia investigativa.
Faceva un certo effetto.
Rientrai, mi gettai a peso morto sul divano e dormii per ore e ore. Una pila di fogli mi aspettava sulla scrivania. Appunti su Wilma e Adam.