Che lo stesso uomo entrasse in casa di Mila due volte non accadeva mai. Fuori potevano vedersi quanto e quando volevano, potevano fare ogni cosa, anche scopare in macchina davanti al portone della chiesa, ma quando arrivavano a entrare in casa beh, allora le cose cambiavano. Mila diventava come un animale nella tana, diffidente e aggressiva al primo segnale di allarme. E se qualcosa andava storto, e qualcosa andava storto sempre, allora al maschio del momento non restava altro da fare che prendere la porta sperando in una seconda opportunità che non sarebbe arrivata mai. E c’era una cosa sola che poteva andar male in casa di Mila: Anna. Sua figlia. Anna che non aveva parola, ma in cambio un profondo senso del gusto attraverso il quale cercava di conoscere tutto il mondo. E i maschi, puntualmente, cadevano al primo incontro con lei. A parole non sembrava un problema insormontabile, al solo vederla non era diversa dalle altre bambine della sua età. Il primo segnale di disagio però gli uomini l’avevano quando la guardavano negli occhi e scoprivano che in quegli occhi non c’era niente. Non c’era la curiosità guizzante che hanno tutti i bambini, non c’era vivacità, né voglia di scoprire il mondo, né quel primo, acerbo, impulso di malizia che di solito si condensa in una timidezza a volte fintamente esagerata. No. Anna si metteva in piedi di fronte al nuovo venuto e lo guardava come se non lo vedesse, senza alcuna reazione o emozione. Non provava paura, né dolore, né interesse. Era come un contenitore vuoto, cosa questa che avrebbe messo a disagio chiunque. Era a quel punto che tutti realizzavano che non sarebbe stata facile l’eventuale convivenza. Quando il lui di turno, sotto gli occhi attenti di Mila, si accovacciava e allungava la mano per salutare la piccola, immaginava un abbraccio o un bacetto o – alla peggio – totale indifferenza. Invece lei osservava la mano e all’improvviso la leccava. A volte la mordeva anche. Il gesto istintivo di reazione era quello di ritrarsi come di fronte a un animale pericoloso. Allora Anna si bloccava e fissava colui che l’aveva respinta. Anche in questo caso non provava né rabbia, né odio, né qualsiasi umano sentimento. Era tornata a chiudersi come sempre, mentre la madre cacciava fuori dalla tana colui che improvvisamente si era trasformato in un intruso. Il pacchetto Mila comprendeva anche Anna e chi non riusciva a relazionarsi con lei, che andasse pure affanculo. Capitava che qualcuno se ne andasse senza dire una parola; capitava che qualcun altro la prendesse male, o la insultasse. Una volta era capitato perfino che uno dei maschi, un esemplare piuttosto robusto, avesse rivelato il suo vero aspetto e avesse provato a usarle violenza nonostante la presenza di Anna. Ma Mila, che era avvezza a subire le prepotenze e quindi a gestirle, era riuscita a chiamare aiuto e la serata si era conclusa in una caserma dei carabinieri. Ma era successo solo quella volta.
Mila non portava a casa ogni uomo che frequentava. Per l’incolumità di Anna e per la sua. Accadeva quando sentiva di potersi fidare, quando aveva bisogno di capire se lui era in grado di accettare la presenza di Anna, di occuparsene, di trattarla come una figlia. Non era una cosa facile, a volte si sbagliava. Tuttavia aveva imparato a distinguere gli uomini che da lei volevano una cosa sola da quelli che andavano oltre, che veramente si innamoravano di lei. Per i primi non era esclusa – se le piacevano – una serata di sesso lontano da casa. Per i secondi c’era la prova del nove, e tutti crollavano di fronte all’incapacità di relazionarsi con quella bambina, che non sapeva conoscere il mondo se non attraverso il gusto. Persone comprese.
Con Franz fu diverso. Lui era entrato a far parte dello staff del ristorante “La Spiaggia”, sul lungo molo di Viareggio, dopo che Mila aveva fatto il diavolo a quattro con il titolare per avere un aiuto cuoco in previsione della stagione balneare. Il capo aveva ceduto quasi subito e aveva assunto Franz su consiglio di un vecchio amico, anche lui titolare di un ristorante, che gli aveva parlato del ragazzo come di un fuoriclasse tra i fornelli. Era tedesco, Franz. Tutte le estati lui le passava in Versilia, il giorno al mare, la sera a lavorare come cuoco. Diceva che così poteva godersi le vacanze e mettere anche da parte qualcosa. Parlava benissimo l’italiano e aveva una dolcezza negli occhi che ispirava fiducia. Era la classica persona a cui, a pelle, affideresti qualcosa di prezioso. Franz ci sapeva davvero fare in cucina, era attento e preciso in tutto e sembrava che fosse in dieci posti nello stesso momento. Mila lo vedeva intento a sminuzzare le cipolle per il soffritto, girava gli occhi ed eccolo dall’altra parte della cucina a impiattare due porzioni di spaghetti allo scoglio. Poi, di nuovo, se lo ritrovava accanto ad evitarle di scottarsi togliendo dal fuoco l’acqua bollente un attimo prima che lei ci andasse a sbattere contro. E ogni tanto consigliava Mila di aggiungere questo o quest’altro ingrediente ai piatti, a volte anche con abbinamenti insoliti, che si rivelavano al palato come qualcosa di unico. Oppure, quando aveva tempo, prendeva l’iniziativa e cucinava pietanze che sembravano nascere dalle sue mani quasi per caso. Si metteva a frugare nel frigo o nei cesti delle verdure con apparente incertezza e le mescolava a occhio, senza nemmeno pesarle. Chi lo avesse visto lavorare avrebbe pensato a un pasticcione. Eppure i risultati erano eccellenti. Mila era la prima e spesso l’unica ad assaggiare i piatti di Franz. Lui non lo faceva per mettersi in evidenza o per sedurla. Lui lo faceva perché gli piaceva e basta, perché la cucina era la sua passione, la sua arte. E a Mila piaceva proprio questo di lui, questa sua non curanza. E il valore aggiunto delle risate. Franz era divertente anche quando lavorava. Lo humor era l’ingrediente più prezioso che aggiungeva alle sue pietanze e Mila ne era affascinata. Aveva lavorato con molti uomini, nel corso della sua carriera, ma mai con uno come Franz. Mai con uno che avrebbe potuto essere il primo chef in qualsiasi ristorante del mondo, e invece aveva scelto di fare l’aiuto cuoco in un piccolo ristorante di provincia. Mai con uno che la rispettava, che la consigliava senza aggiungere quella sfumatura di “so tutto io”. Mai con uno che non sembrava provare interesse per lei. Mai con uno che avesse voglia di comunicare davvero con sua figlia. A volte Mila era costretta a portarla al ristorante. Capitava quando nessuno poteva occuparsi di lei. Allora Franz si accostava alla bimba in modo naturale. Anna non era una bambina come tutte le altre, e gli altri avevano sempre avuto nei suoi confronti una atteggiamento di distacco, come se volessero tenerla lontana, come se ne avessero paura. Lui no. Non le parlava solo perché non era il modo migliore per relazionarsi con lei, non le sorrideva solo perché lei non voleva sorrisi, ma le stava vicino in silenzio come a volerle far capire che non era sola, e soprattutto non ne aveva paura. Non si ritrasse la prima volta quando Anna gli prese la mano e la leccò per conoscerlo. La morse appena per capire se era un uomo buono o uno cattivo. E non si spaventò quando Mila gli disse, sorridendo un po’ stupita: “Le piaci.” Ma soprattutto piaci a me, avrebbe voluto aggiungere.
Era stato Franz a scoprire il talento per il gusto di Anna. Riusciva a identificare tutti gli ingredienti di un piatto dopo un semplice assaggio, cosa questa che aveva sbalordito la stessa Mila. Sapeva che la figlia aveva questo dono, ma non aveva mai capito fino a che punto potesse spingersi. Franz faceva partecipare Anna alla messa in atto delle sue ricette e questo faceva sentire la bambina viva. Le piaceva stare in quella cucina con quell’uomo dagli occhi azzurri, che quando era al telefono parlava una strana lingua. Franz aveva capito che Anna nascondeva enormi facoltà in quella sua piccola lingua e un giorno la mise alla prova. Le chiese non solo di riconoscere gli ingredienti di una quiche di carne e verdura, ma anche di scriverne i dosaggi e il procedimento con il quale erano stati miscelati. Anna la assaggiò e di getto scrisse su un foglio gli ingredienti senza tralasciarne nemmeno uno. Poi aggiunse le quantità e descrisse il procedimento. Franz dovette mettersi a sedere, incredulo. Anna aveva commesso solo qualche errore sulle quantità, ma si trattava di margini di pochi grammi. Mila era sbalordita. Anna li guardava come se avesse fatto la cosa più semplice di questo mondo. E forse per lei lo era. Mila non aveva mai pensato davvero alle potenzialità della figlia. Anna, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto un giorno essere uno chef eccezionale, in grado di lavorare a livelli mai raggiunti da nessun altro. Mila lo confessò a Franz, una sera che erano rimasti soli nel ristorante, e lo ringraziò per averle aperto gli occhi. Lo baciò, tra pentole e fornelli, ma lui la prese per le spalle e la guardò dritta negli occhi. Non voleva che in qualche modo Mila strumentalizzasse il potere – perché quasi di un potere magico si trattava – della figlia. Sarebbe stata lei e solo lei a decidere. Naturalmente la cosa non riguardava Franz e lui lo sapeva, ma era sicuro che Mila avrebbe recepito il messaggio. Non era una stupida, Mila, e l’amore che provava per Anna l’avrebbe convinta a seguire la strada più giusta. Quando Mila disse che aveva capito, Franz la baciò di nuovo e Mila scoppiò a piangere. Non si era mai sentita tanto vulnerabile con un uomo come in quel momento. Franz la strinse a sé e disse che aveva in mente la cosa giusta per farla stare meglio. Armeggiò in cucina e le preparò pere e salmone, condite con un filo di olio, pepe, e qualche seme di sesamo. Un abbinamento semplice e insolito, che Mila affrontò con un certo sospetto. Non aveva fame, eppure la curiosità ebbe la meglio. Mila assaggiò e le piacque a tal punto che spazzolò tutto sotto gli occhi divertiti di Franz. Bevve un bicchiere di vino bianco e si sentì subito meglio. “Questo potremmo aggiungerlo al menù” disse pulendosi la bocca. “Non lo ordinerebbe nessuno” rispose Franz.
Fu quella sera che Mila confessò che se Anna non parlava la colpa era sua. Non l’aveva mai detto a nessuno e il dirlo fu come levarsi una sasso dalla pancia. “Anna non è nata così, ha smesso di parlare a sei anni.”
Franz la ascoltava senza interrompere, lasciando che Mila raccontasse le sue emozioni seguendo il proprio flusso di pensiero. Non arrivò mai al nocciolo della questione, non spiegò il motivo per cui Anna aveva perso la parola. Forse era troppo duro da raccontare, orribile al solo pensarci, e Franz non fece domande, non insisté. Mila ripeté più volte che avrebbe preferito morire piuttosto che veder crescere sua figlia in una condizione di disagio che sarebbe stata discriminante. Sua figlia aveva smesso di parlare, come poteva relazionarsi con il mondo? Raccontò che gli psicologi che avevano visitato Anna avevano riscontrato il problema in un blocco mentale dovuto a un forte trauma, ma nessuno di loro, nonostante i tentativi, era riuscito a rimuoverlo. Forse, ma solo forse, se lei avesse rivissuto la vicenda avrebbe potuto esorcizzarla, quindi superarla. Ma era vero anche il fatto che solo Anna sapeva esattamente cosa fosse successo quel giorno, e se lei non era in grado di comunicarlo, nessuno avrebbe mai potuto aiutarla.
Franz non disse nulla. Per lui il privilegio quella sera era ascoltare cose che nessun altro aveva ascoltato prima. Era entrato in comunicazione con Mila più di ogni altro, senza quasi sfiorarla aveva raggiunto un’intimità con lei che nessun uomo aveva raggiunto. In quel momento non c’era bisogno di parole. Come con Anna, e in questo madre e figlia si somigliavano. Mila non cercava consolazione, non cercava espiazione ai suoi sensi di colpa, giustificati o ingiustificati che fossero. Mila voleva solo essere ascoltata. Così come Anna voleva solo essere capita. Franz era in grado di fare entrambe le cose. E lo voleva. Per questo Mila, qualche ora dopo nel suo letto, fissava il soffitto senza riuscire a prendere sonno. Pensava a Franz e al fatto che, forse, con lui aveva trovato la sua strada.
Quando le mise davanti il piatto, Anna ne aspirò ogni aroma e restò a fissarlo. Franz sedette al tavolo davanti a lei e la guardò. Non sorrise. Non serviva. La guardò dritta e annuì appena. Anna deglutì, turbata, raccolse la forchetta e un po’ di carne dal piatto. Franz indicò un pezzetto di mela, le raccomandò di strofinarla nella salsa e di mettere in bocca anche quello. Anna eseguì e chiuse gli occhi. Franz non disse altro, lasciò che la bambina assaporasse ogni sfumatura dello stufato. Era una ricetta nuova, creata apposta per Anna. Ci aveva lavorato su tutta la notte: stufato di maiale alle mele con salsa di cipolle e mirtilli. Anna assaporò solo due o tre bocconi, poi lasciò cadere la forchetta e restò immobile a fissare il piatto. Franz la guardava senza dire nulla. E continuò a non dire nulla anche quando la bambina cominciò a piangere. E i pianti divennero convulsioni, tanto che quasi rischiò di cadere dalla sedia. La presenza di Franz era ridotta al minimo indispensabile. Si limitò a tenerle una mano sulla spalla, giusto per farle capire che non era da sola in quell’esperienza. Le convulsioni di Anna tornarono pianto, e il pianto lentamente tornò silenzio.
Mamma. Mamma?
Anna tirava su con il naso e fissava il piatto. Franz, dietro di lei, non osava nemmeno respirare.
Non c’è la mamma, tesoro.
E dov’è?
La bambina raccolse la forchetta e infilzò un nuovo pezzo di stufato. Infilzò anche una mela e strofinò il tutto nella salsa, raccogliendone una discreta quantità.
E’ al ristorante, tesoro. Torna presto. Tu ora stai qui buona.
Lo mise in bocca e cominciò a masticare lentamente, mentre Franz la osservava con emozione.
Sei buona tu, vero?
Sì.
Il sapore era qualcosa che Anna non aveva mai sentito. Ogni volta che con i denti schiacciava la carne la bocca le si inondava di sugo e un’ondata di pensieri le attraversava i sensi, accendendo ricordi che Anna nemmeno sapeva di possedere.
Ci sono io qui con te. Vieni qui, sul divano accanto a me.
Anna deglutì il boccone e restò a lungo ad assaporare il gusto sapido della carne, quello farinoso delle mele cotte e quello appena aspro della salsa. Respirò a fondo, lo fece entrare dentro di sé fin nelle viscere, fin nel profondo della mente.
Dai, vieni qui accanto a me.
Mise in bocca ancora un pezzo di carne. Da solo, stavolta. Era tenero sotto i denti, morbido. Facile da schiacciare, come un cucciolo che si fida di te.
Così, ecco. Brava. Sei un bambina ubbidiente.
Carne tenera. Come quella di una bambina che non sa che il mondo può essere cattivo. Anche in casa propria.
Sai che è una buona cosa essere bambine ubbidienti, vero?
Anna deglutì il boccone e ne pescò un altro. E un altro ancora. Fino a riempirsi la bocca di carne. Carne tenera. Saporita.
Mamma non vuole.
Oh, sì che vuole. Mamma lo sa.
Anna pianse di nuovo. In silenzio. Le lacrime scivolarono dai suoi occhi lungo le guance, fino a carezzarle le labbra e aggiungere un nuovo ingrediente al piatto di Franz. Quello che mancava: il dolore.
Stai ferma, tesoro. Guarda che poi lo dico alla mamma quanto sei stata cattiva. Tu vuoi che io le dica che sei stata cattiva? Eh? Vuoi questo?
Anna piangeva e il dolore arrivava al cuore di Franz, che soffocò la voglia di abbracciarla. Anna gridò e si contorse sulla sedia. Ma continuò a masticare la carne, deliziosa e orribile allo stesso tempo perché sapeva di innocenza e dolore insieme.
Mamma! Mamma!
Smettila di chiamare la mamma. Lei non c’è e non può venire adesso. Ora siamo soli io e te. E lei lo sa.
Anna masticò anche un pezzetto di mela e le si sciolse in bocca. Era dolce, sapeva di natura e di aria, di verde, di sole. Ma le lacrime salate lo cambiarono.
Se non smetti di piangere te ne do un altro. Ci siamo capiti bene?
Anna smise di piangere di colpo. Dopo un ultimo singulto silenzioso smise di versare lacrime. Buttò giù la mela e ne prese un altro pezzo.
Lo vedi? Sei una brava bambina quando vuoi.
Lo immerse nella salsa di mirtilli e il pezzetto si colorò di blu. Come la pelle macchiata da un ematoma.
Una puttanella. Una brava, piccola puttanella. Non lo sai ancora cosa vuol dire puttana, vero?
Il sapore aspro del mirtillo fu come una violenza. Penetrò nei suoi sensi come un chiodo gelido e la fece sussultare.
Dovresti chiederlo a tua madre, ché lei lo sa bene.
Anna spinse giù un ultimo boccone, poi si fece pallida in viso. Le lacrime sembrava che avessero scavato dei solchi lungo le sue guance. Franz si allarmò e interruppe per la prima volta il suo silenzio chiedendole se andava tutto bene. La bambina, per tutta risposta, si lasciò scivolare sulla sedia e perse i sensi.
Si risvegliò in una stanza bianca, tanto bianca da non permetterle di tenere gli occhi aperti. Sua madre era china sopra di lei, le carezzava la fronte e le ripeteva di non preoccuparsi, che non era niente. Ma al tempo stesso le chiedeva scusa e la supplicava di essere perdonata perché aveva commesso un altro errore. E non sarebbe successo più. Aveva sbagliato già una volta con lei, ma aveva voluto fidarsi di nuovo di qualcuno. Lo aveva fatto per Anna, ma anche per sé stessa. Eppure era andata male, e continuava a carezzarle il viso e a chiederle cosa le avesse fatto quell’uomo. Franz. Che aveva chiamato il 118 allarmato perché la bimba aveva perso i sensi. Non doveva lasciarla da sola con lui. Non doveva. Non lo conosceva, che ne sapeva di quell’uomo? Solo perché aveva trovato il modo di comunicare con Anna, non significava che fosse un uomo buono. E il fatto che l’unica volta in cui erano rimasti da soli lei fosse finita al pronto soccorso, lo dimostrava. Il primo medico che l’aveva visitata, aveva parlato di grosso trauma e Mila aveva fatto due più due. Aveva preso Franz a calci e pugni, gli aveva sparato addosso tutta la rabbia che sentiva ed era decisa, una volta fuori dell’ospedale, a denunciarlo per violenza. Aveva denunciato anche l’altro, quel bastardo di cui si era fidata senza sapere che era un demone con la faccia d’angelo. Quell’uomo le aveva tenuto nascosto il suo passato e il fatto che Anna era la terza bambina a cui dedicava le sue attenzioni. Era stata la più sfortunata, perché unica ad aver condiviso con quell’animale un’intera casa e tutto il tempo del mondo. E a metterla nelle sue mani era stata proprio Mila, offuscata da un sentimento che le aveva impedito di guardare sotto la maschera. Lo stesso sentimento che le aveva impedito di guardare sotto la maschera di Franz.
Mila faceva queste riflessioni a bassa voce, china sul lettino dove Anna stava dormendo. Pianse, Mila. Appoggiò la testa alla branda e pianse in silenzio. Uno che avesse guardato, avrebbe capito che quella donna stava piangendo guardando le sue spalle che andavano su e giù. E mentre piangeva, continuava a chiedere scusa a sua figlia.
Fu svegliata da qualcosa di piccolo e caldo che le sfiorava i capelli. Si tirò su di scatto e ci mise un po’ prima di realizzare che si trovava in ospedale. Sua figlia era davanti a lei e la guardava. Seria. Mila la chiamò per nome e le chiese come stava. Era un abitudine istintiva quella di domandare le cose anche se non poteva ricevere risposta.
La luce del tardo pomeriggio penetrava dalla grande finestra e sembrava cospargere tutto con polvere d’oro. E accadde qualcosa che nessuno si aspettava.
– Mamma?
Era una parola. Stirata, deformata e quasi irriconoscibile. Ma era una parola. Mila spalancò gli occhi, incerta se credere a un miracolo o a un sogno. E proprio mentre cominciava a convincersi di aver avuto un’allucinazione, sua figlia la chiamò di nuovo. Mila scoppiò a piangere e l’abbracciò. Anna parlava. Con difficoltà, certo, ma parlava. Avrebbe avuto bisogno di esercitarsi, di ripartire da dove si era fermata. Forse ci avrebbe messo anni per acquistare una proprietà di linguaggio accettabile, ma parlava. E questo contava. I sensi di colpa di Mila scivolarono via come acqua sporca e pensò a Franz, scusandosi mentalmente con lui per averlo accusato di una cosa orribile. Qualunque cosa fosse successa in quel ristorante, era merito suo se Anna aveva ripreso quello che era suo di diritto.
Si alzò in piedi, faticando a staccarsi dall’abbraccio di Anna. Madre e figlia si guardarono a lungo e stavolta non ci fu bisogno di parole per capire a cosa stessero pensando entrambe. Quando Mila si voltò, Franz era sulla porta. La guardava. E sorrideva.