XIII.
Sono le cinque del mattino e il suo nome è stampato in testa a caratteri cubitali: Akim Pashkyeen. Credo che tutto sia cominciato a causa sua. Inizio a odiare la Russia, pur non essendoci mai stato. Russa è la mia maestra d’armi, russo era il suo mentore e russo l’uomo che ha dato origine ai miei guai.
Marc e il barista mi avevano avvertito, ma io non avevo dato loro ascolto e ho compiuto l’unica azione coraggiosa della mia vita. Pessima scelta.
Sono motivato a recuperare informazioni. Da Lue. Da Aleksandra. Dai bambini che incontro. Intanto mi muovo. Cammino. Pulisco la tenda. Aiuto a tagliare e raccogliere la legna. In un capanno trovo attrezzi da lavoro e ne rubo uno: un’accetta che serve per rifinire i tronchi. Non solo, può squarciare una persona con più facilità che a mani nude. La nascondo sotto la brandina, legata alla rete, così che nessuno possa accorgersene. È maneggevole, adatta a qualsiasi scopo e leggera da portarsi dietro.
C’è un piccolo orto in un angolo nascosto, vicino al fiume. Tre bambini sono addetti alla semina, un semplice sistema d’irrigazione lo collega alla corrente del fiume. Mi ero completamente scordato in che stagione fossimo. Inizio maggio, più o meno, ma non ne sono sicuro. In inverno mangiare in scatola, ma per l’estate verdura fresca. Peccato non potersi fermare.
Ipotizzo d’essere stato rapito una decina di giorni prima. Non resta molto tempo.
Aleksandra è l’unica che può uscire dal campo, eccetto il lupo naturalmente. Insieme si occupano delle cibarie, una volta la settimana rientrano con due zaini a testa, colmi di scatolette di ogni genere. Ogni tanto, lepre arrosto. Per l’acqua c’è una fontana alla quale tutti possono accedere.
Resta il mistero di dove trovino il cibo.
Il Maggiore è il braccio destro. Coordina le pulizie, si occupa dei litigi tra i bambini, pochissimi nei pochi giorni trascorsi con loro. La punizione è una sola, per tutti, un’ora da soli in roulotte e un’ora con Aleksandra nel camper.
– Ci parla di cosa abbiamo fatto – mi spiega Lue – e perché siamo stati puniti.
Le chiedo se è capitato anche a lei. La mia mente è alla ricerca di qualcosa che non funzioni, in questo piccolo paradiso gestito da una strega.
– Avevo… insomma… – è imbarazzata – avevo iniziato a fare delle cose con Paul, lo hai conosciuto, è sempre seduto vicino a noi a pranzo, e ci hanno scoperto.
– Cos’è successo?
– Una sgridata e un’ora da sola a pensare a quello che avevo fatto.
Mi sto chiedendo se è così grave che due bambini si facciano qualche effusione, quando lei irrompe nei miei pensieri e continua a raccontare.
– Poi Aleksandra mi ha spiegato che quello non è il modo giusto per dimostrare affetto, alla mia età. Ce ne sono altri, tipo aiutarsi e proteggersi, un po’ come faccio con te. Mi ha insegnato che non devo fare quelle cose per far star bene gli altri, perché poi io sto male. Le persone che ti vogliono bene davvero non chiedono nulla in cambio.
E qui capisco che non si trattava di semplici carinerie. Nuova lezione per un accademico come me, che a quarant’anni deve imparare che bastano poche parole ma giuste, per fare la differenza. E una disciplina di ferro, naturalmente.
Non esprimo giudizi sui metodi di una Veggente che ha imparato il dolore sulla sua pelle e che comunque ha dato una risposta. È sempre qualcosa. Tre regole e una sola punizione per tutto.
Poco dopo sono nel letto di Aleksandra. Ci faccio l’amore e non penso a strampalate ipotesi o a come finirà questa storia, ma al suo corpo che inizia a reagire in modo diverso alle mie carezze. È dolce e malinconico il suo tocco ed io faccio più fatica del solito a fare il mio lavoro.
Scopro ancora molte cose, perché quando il sesso si veste di emotività è facile superare le barriere. Gli uomini in grigio non sono molti, ma non è necessario che lo siano. Per il Villaggio è una festa quando arrivano. Portano sigarette, marijuana, qualche puttana trovata chissà dove e si prendono un bambino.
– C’è una sola regola al Villaggio – mi confida Aleksandra – e su questo Patrick è irreprensibile: gli adulti possono fare ciò che vogliono ai bambini, ma non devono avere segni sul corpo o le ragazzine rimanere incinte.
Per il resto libero sfogo allo schifo che si nasconde nei peggiori esseri umani esistenti.
– E non solo – continua – non devono essere denutriti.
Bestie da macello ben pasciute che subiscono ogni nefandezza nell’anima o nel corpo, ma senza ferite evidenti. Eccezion fatta per le donne. Dopo una certa età c’è un cambio di direzione, mi spiega, è permesso tutto. Non importa a nessuno, di certo non agli uomini in grigio, se il corpo viene martoriato o se qualche donna rimane incinta.
– La seconda condizione – dice improvvisamente dopo alcuni minuti.
– È che vi aiuti a fuggire – concludo per lei.
Sorride.
– Non potevi dirmelo subito. Dovevi aspettare che stessi qualche giorno con voi, così che mi affezionassi – le dico.
– Volevo solo che tu capissi. Che facessi parte, per un breve periodo, di questo. Devo portarli via, non posso proteggerli ancora per molto.
Mi avvicino e inspiro l’odore acre della sua pelle.
– Non avete mai tentato di andarvene?
Mi accenna un no.
– Non è così facile, anche se gli uomini del Villaggio, quelli in grado di fermarci, non sono molti. Ma non ce la posso fare da sola.
– Be’, ora ce n’è uno in meno.
– Grazie a te. Ma ne ho contati ancora una trentina, di pericolosi intendo. Sto aspettando che alcuni bambini raggiungano almeno i dieci anni, per farli combattere. Poi ci sono il Maggiore e lui, sempre che decida di unirsi a noi: non bastiamo.
– E credi che io possa fare la differenza?
La sua schiena è una pianura che accoglie le mie mani.
– Sai quanti omicidi ci sono stati negli ultimi vent’anni? – chiede a sua volta.
– Dove vuoi arrivare?
– Due – continua – il primo era Yacov, l’uomo che mi ha fatto crescere, e l’altro – indica me.
– Scherzi, ero convinto che non ci fosse alcuna legge e gli omicidi fossero all’ordine del giorno.
– A nessuno conviene uccidere. Scopare, mangiare, dormire, gli uomini in grigio pensano a tutto il resto, basta stare agli ordini. Patrick è un ottimo capo, sa perfettamente cosa permettere per conquistare il favore del popolo. Io sono l’unica anomalia concessa, ma sta per finire. Non ci sono quasi più bambini nel Villaggio, tra poco arriveranno anche qui.
– Allora tu non hai mai…
– …ucciso qualcuno? No. Ne ho evirato un paio, questo sì, ma non ho mai tolto la vita. Credo che non sia facile. Forse il fatto che nel profondo tu abbia ancora un po’ d’umanità, ti rende peggiore di tutti noi.
Lei, demone dell’inferno, mi ha fatto credere di essere un cucciolo d’uomo, ora invece scopro di essere uno dei pochi assassini nei paraggi.
– Ciò non vuol dire che io non sia in grado di farlo, se necessario – termina di dire.
Salvare i suoi figli. Forse null’altro è importante per Aleksandra.
– Come facevi a sapere di me? E non iniziare con i poteri di preveggenza, non ci casco.
– È una lunga storia.
– Non devo andare da nessuna parte.
– Forse, dopotutto, meriti di saperla.
Mi racconta di come le provvigioni giungono dal cielo. In uno specifico luogo nella Foresta, una volta la settimana, atterra un elicottero e abbandona un carico di vettovaglie. Lei arriva prima degli altri e recupera il necessario per il campo. Patrick lo sa, ma fa finta di nulla.
Ed è qui che entra in gioco un uomo. Dalle sue spiegazioni sembrerebbe dell’esercito o di qualche guardia armata, fatto sta che quest’uomo, che pilota l’elicottero, per un guasto tecnico atterra con troppa decisione. La cabina prende fuoco. È solo e sarebbe morto se non fosse intervenuta.
Ora ha un debito di vita nei suoi confronti. Aleksandra non vuole molto, solo informazioni.
È così che ha saputo di me. Un dottore, o qualcosa di simile, sarebbe stato lasciato in mezzo alla Foresta. Girava voce che avesse fatto qualcosa di stupido a una persona importante, forse il figlio di uno dei potenti.
– Ho provato a scoprire cosa succedesse ai bambini, dove finissero, quale fosse il motivo di tutto questo. Nulla. Faceva parte di un gruppo di mercenari al soldo di qualcuno. Il suo compito era quello di portare il carico e a volte uomini, direttamente nel Villaggio. E naturalmente prelevare i bambini.
– Sei ancora in contatto con lui? Ci può aiutare?
– Lascia stare.
– Ma ti deve la vita – insisto.
– Non è quel tipo di uomo. Ha fatto fin troppo e in cambio ha voluto anche…
Non le permetto di finire la frase.
– Scusa. Non c’è stato un momento, da quando sono finito qui, che non abbia pensato che a me.
Si avvicina. Copre i seni con le lenzuola. Capelli corvini, spettinati e ricci. Nessuna lacrima.
– Vai a fare in culo. Non provarci, non sono un fenomeno da baraccone, non sono un tuo paziente. Non sai un cazzo di me, né di quello che ho dovuto fare per proteggerli.
L’abbraccio. E per la prima volta è un abbraccio sincero.
Infila le unghie sotto il mio mento, stringe la carotide e fissa i suoi grandi occhi nei miei. Mi bacia come fosse l’ultimo bacio che la vita possa concederci. Morsica il mio labbro fino a farlo sanguinare, poi si ferma e inizia a essere dolce.
– Prendo solo quello che voglio dagli uomini. Solo quello che voglio.
Lo so, piccola strega, non hai mai avuto altra scelta.
Ma io non sono qui per te, continuo a ripetermi.
XIV.
Me ne vado.
Non c’è altra soluzione. Mi sono serviti, ma ora ho più possibilità da solo. Esco dal camper a mezzanotte e Aleksandra non dice nulla. Trovo Lue addormentata. I capelli sulla guancia, le braccia aperte e il viso sereno, di chi si sente al sicuro. Una gamba è piegata e forma una piramide con le lenzuola. Infilo la mano sotto e gliela allungo. Lei si stira, tira su col naso e mi stringe il braccio. Lo libero.
Mi muovo silenzioso. Jeans, maglietta, felpa verde, giubbotto mimetico. Un coltello serramanico da caccia, preso in prestito, e l’accetta infilata nella cintura. La bacio sulla fronte e mi sento una merda. Tornerò, non le dico, uscirò da qui e tornerò con qualcuno che possa aiutarvi. Invece la verità è che sono diventato uno stronzo.
Il piano è semplice: tornare da Iris, uccidendo tutto ciò che mi divide da lei. Ho un’accetta, un corpo che ho imparato ad amare e ancora uno sprazzo di gioventù nelle vene.
Per un istante penso di andare in paese, afferrare per il collo Patrick, vendicarmi e poi farlo parlare. Ma solo per un istante. Non sarebbe un gran colpo di genio. Prendo la via del fiume, che scende dalla collina. Seguendolo raggiungerò certamente a un posto di blocco.
Forzarlo, arrivare in cima, superarla e approdare in una valle libera. Forse troverò qualche essere umano come me. Salvo che il mondo non finisca tra il Villaggio e la Foresta e questo non sia davvero un limbo dove espiare le mie colpe.
Cammino lentamente, per la paura che il lupo si accorga della mia fuga. Il bosco è fitto e non ha nulla a che fare con quanto visto durante le passeggiate diurne, con la mia piccola infermiera. Sento il respiro degli alberi, la luna è alta nel cielo e inventa ombre sul sentiero. Rumori di uccelli in vicinanza e di animali sconosciuti più lontano. Non ricordo di esser stato avvolto dall’oscurità di un bosco, eccezion fatta per la notte del mio arrivo, la notte nella quale lei mi ha violentato. Se di quello si trattava. Il mio corpo ha reagito, senza erezione non sarebbe stato possibile. Ha voluto farlo con un uomo per una volta, ma a modo suo, e non con una delle bestie del Villaggio. E lo volevo anch’io. Il fiume è molto rumoroso. Illuminato dai raggi appare come un insieme di lucciole coordinate in un balletto frenetico.
Paura. Eccitazione. Voglia di sentirmi vivo. Di tornare e godere di ciò che consideravo banale.
Incazzatura. Di ciò che ho subito. Visto. Lasciato. Sono incazzato perché ieri, per la prima volta in quattro anni, non ho sentito la mancanza di Elodie. È come se trascorrere una giornata senza di lei dentro la pelle mi abbia alleggerito, anche se solo per un attimo. La vita continua, una stupida, povera, orribile vita, ma continua. Sono incazzato perché ora che ho toccato questa sofferenza, ora che mi sono trasformato da morto vivente in uomo, ho scelto comunque di partire, o fuggire, dipende dai punti di vista. Non sono nessuno, in fin dei conti, ma questo non mi fa stare meglio.
L’aria è pungente e dovrei concedermi un pensiero su me stesso, dopotutto è il mio lavoro. Riflettere su come le sovrastrutture abbiano una funzione, non solo stringere con i denti la propria anima, o qualsiasi sia il nome che vogliamo darle, ma soprattutto proteggendola dal caos e dalla follia. Ed io ne ho soverchiate più di un paio in questi ultimi tempi. Rammentare i corsi che ho tenuto sulla rimozione. Di come sia impossibile che mi sia quasi dimenticato di aver ucciso un uomo e che mi sembri un semplice passo verso la libertà. Di come la rimozione sia uno dei meccanismi di difesa, diretti solitamente al controllo della propria vita affettiva, per esigenze di gestione della realtà esterna. In parole semplici, si fa finta di niente, perché conviene per non dar fuori di matto.
Ora mi sembrano un mare di stronzate. Respirare, continuare a vivere e lottare per ciò in cui si crede, il resto è aria.
Tre ore a camminare. Se non avessi scelto il fiume, mi sarei già perso. L’alta collina si offre a me, tra due alberi. I loro rami si uniscono a volta e mi mostrano l’uscita dal mio personale inferno. Le gambe non reggono la fatica, ma il cuore ancora funziona. La meta è lontana, stimo ancora un paio d’ore di cammino senza interruzioni. Scorgo la cima che risplende pallidamente alla luna e mi rendo conto che non sarà una passeggiata, forse è più di una semplice collina. Per quel che me ne intendo, potrebbe non superare i mille metri.
Sto facendo troppo rumore. Rametti spezzati sotto il mio passo e il respiro che si fa affannoso. Speriamo che il frastuono della corrente copra ogni cosa.
Il tempo trascorre lento. Odori di natura. Sento il mio cuore spingere. Le cicatrici friggere. Il sudore che scende dalla schiena. Le stelle poco luminose e l’eterea luna. Osservo le linee delle mie mani sotto quella luce.
In lontananza, un fuoco. Non è sulla mia strada ma spostato di qualche centinaio di metri. A destra ho il fiume. È impossibile che riescano a sorvegliare ogni passaggio alla cima, come mai nessuno è mai riuscito a scappare?
Non ci vuole molta strada perché la risposta mi si stagli di fronte. Ed è alta sette metri circa, una parete di filo spinato, suppongo elettrizzato. Il muro di ferro continua fino al fiume, poi si unisce a una barriera di cemento, dal quale si vede sgorgare l’acqua, come se oltre ci fosse una diga. Rimango senza fiato. Un lavoro monumentale, non c’è che dire. Che dispendio di soldi e fatiche, per costruire questa prigione. O riserva.
Non posso superarlo, ma solo sperare che quei fuochi rappresentino un insediamento umano, forse un varco, che Patrick, o quei maledetti uomini in grigio, ha voluto per motivi sconosciuti.
Mi muovo a quattro zampe, sono molto vicino. C’è un ricovero attrezzi di legno, forse adibito a baracca, e un falò. Due uomini si scaldano di fronte al fuoco, una donna sta lavorando su uno di loro, e l’altro guarda. Non sono armati, o almeno non lo sembrano. Ricado in quel mondo. Non ho la più pallida idea di cosa fare, difendere la propria vita è una cosa, progettare di eliminare due persone è un’altra.
Prendo l’accetta che mi sono portato e mi chiedo se un colpo secco, con il manico di legno, possa far svenire un uomo.
Stringo l’arma e affronto un attacco di panico che mi fa tornare alla realtà. Sono un vigliacco, questo già lo sapevo. Ma non ha nulla a che fare con me, per una volta.
Chiudo gli occhi e respiro. Poi infilo una mano sotto i pantaloni, seguo la linea della ferita e, quando trovo un punto ancora sensibile, spingo con forza.
Dolore. Adrenalina. Vita.
Striscio come un lombrico fino alla capanna e prendo una corda appesa. Uno per volta. Se anche l’altro mi vede, deve attaccarmi a mani nude, o col pugnale al massimo. Senza armi da fuoco posso almeno tentare. Non voglio ucciderli, se non è necessario.
La terra è umida. Mi accoglie una melma amica, silenziosa, calda. Il fuoco illumina i loro visi e il culo della donna. È a quattro zampe, un animale che soddisfa un altro animale.
Mi sollevo e con la corda blocco la testa del più vicino, da dietro. Non fa un gemito, perché stringo subito con tutta la mia forza. I suoi capelli bianchi, unti, mi solleticano il naso. Puzza di birra, questo è un buon segno. Prova a reagire. Io non mollo. Per un istante l’altro non sembra accorgersene. Poi sferra un calcio alla donna, che cade all’indietro come un sacco di concime, si tira su i pantaloni e mi vola addosso.
Lascio il compagno, senza curarmi se sia o no morto, certo non sarà un problema per quella sera.
Non si ferma. Mezza età. Piccolo. Tozzo. Sporco. Capelli rasati. Faccia da pitbull. Mi travolge come una frana. È sopra di me e mi afferra la gola. Io allungo le mani sotto di lui e cerco tra le sue cosce. Poi gli afferro le palle con tutte le mie forze. E stringo. Mi molla e si accartoccia, quando è inoffensivo, alzo l’accetta e lo colpisco col manico fino a farlo sanguinare, fino a fargli perdere conoscenza.
L’altro non si è ancora alzato, ma si sta riprendendo. Lo libero dalla corda e utilizzo la stessa per legarlo. Mani e piedi insieme, come un maiale al macello. Non una parola, solo gemiti. È stato quasi facile. Sto bene come non mi capitava da molto.
Poi scorgo qualcosa muoversi dietro di me. Un dolore lancinante alla base della testa: cazzo la donna.
– Ne hai fatta di strada, amico mio – mi sveglia la voce di Patrick.
Odore di caffè. Quattro pareti e un tetto sopra la testa. Legno ovunque. Un tavolo in un angolo. Lui seduto con una tazza in mano. Io su una sedia. Legato. Le mie mani dietro la schiena. Le caviglie unite. Nudo.
– Falla finita – sputo le parole come fossero denti rotti.
– I miei hanno fatto molta fatica a trascinarti fin qui – sorseggia il caffè.
– Fanculo.
– Li hai ridotti male. Però hai sottovalutato le nostre donne. Sei un romantico, alla fine, convinto che una donna non possa essere una semplice troia.
Si accende una paglia. Odore di marijuana nella stanza.
– Mi hai preso. E adesso?
– Ora devo capire chi ti ha aiutato per tutto questo tempo.
– Nessuno.
Sorride.
– E dove avresti preso vestiti e armi?
– Al campo di quei fottuti bambini e di quella pazza – rispondo.
Aspira e mi soffia in faccia un alito di fumo.
– Sono quasi morto nella Foresta – continuo – quel bambino mi avrebbe… mi avrebbe mangiato. Sono fuggito. Ho trovato un insediamento, volevo chiedere aiuto, ma quando ho visto quella, ho rubato ciò che potevo e me ne sono andato.
– Non lo so – si avvicina e mi alza il mento nella sua direzione – lei è la prima che ti ha trovato, lo ricordo.
Tossisco.
– Anch’io. Mi ha stuprato e quasi ucciso, non voglio averci niente a che fare.
Urla, rivolto alla porta, ed entrano i due che mi hanno catturato. Hanno in mano un asciugamano bagnato e non ci vuole un genio a capire.
– Cambio d’ordini. Nessun segno questa volta, ragazzi. Andateci comunque pesante, Armand era un amico e questo stronzo l’ha fatto fuori.
Il primo colpo raggiunge l’orecchio e da quel momento in poi il suono, da quella parte, è ovattato. Ciò non m’impedisce di sentire il dolore.
Uno davanti. L’altro dietro. Fianco destro. Stomaco. Schiena. Collo. Pancia. Uccello.
Nodo triplo nell’asciugamano. E via. Si riparte.
È peggio di una martellata sui coglioni. Peggio di qualsiasi cosa io ricordi. Isolo la mente, o almeno ci provo. Torno al mio pensiero felice, sperando di poter davvero volare via da tutto questo.
Non funziona. Mi piscio addosso. Sento la mia urina gocciolare fino al pavimento. Il legno della seduta è duro e sta diventando tutt’uno col mio sfintere. Dovrei aver imparato qualcosa dal mio arrivo, e così è, infatti. Riesco a non cagarmi addosso.
– Fermi. Uscite ora.
Lacrime.
– Dove eravamo rimasti? Certo. Allora, come hai fatto a raggiungere il confine?
– Basta, ti prego.
Suppliche.
– Ti ho detto la verità. Non sono uno stupido. Ogni fiume ha una sorgente e quando ho visto la collina, ho pensato che – sputo sangue – non poteva che essere lì. Volevo seguire il fiume e superare la cima.
– Non ce l’avresti fatta. I miei comunque non avevano la chiave. Erano di vedetta. C’è un solo modo per uscire da qui ed è passare sul mio corpo.
– Che cazzo vuoi da me?
– Io nulla. Interessi a loro.
– Loro chi?
– Non penserai che ti risponda.
Certo che no, ma non posso tradirmi.
– Anche tu, alla fine, sei un prigioniero.
– Non hai capito un cazzo. Nessuno di noi è obbligato a stare qui. Il Villaggio è una nostra scelta. Noi dettiamo legge. Abbiamo solo un buon accordo: cibo, materie prime, donne.
In cambio di carne fresca, bambini per chissà quali motivi. Sono mercanti di schiavi, non vittime.
Sono sfinito.
– Ora ti saluto – fa un cenno con la testa – dormi bene, perché potrebbe essere la tua ultima notte. Domani torneranno e non credo ci rivedremo. Non nel mondo dei vivi, almeno.
Entra un uomo, porta gli occhiali e una siringa in mano. Non sento l’ago entrare, ma qualche secondo più tardi la mia bocca si storpia in un sorriso, non riesco a trattenere la saliva, che scende da un lato. L’ultima cosa che vedo è il suo muso che ghigna.