Non mi è mai piaciuto comprare roba usata, ma quella borsa di El Campero mi ha subito conquistato. Bella, ben conservata, pelle solida, cuciture robuste, rivestimento interno con un tessuto a fiori discreto ed elegante. Degli anni Settanta, mi ha detto la signora dalla gonna lunga e i capelli grigi, gli occhi azzurri e sorridenti, che stava dall’altra parte della bancarella. Io vado pazza per le borse, ne avrò quaranta stipate nell’armadio, e non ho saputo resistere. Sarà stata l’aria festosa della fiera dell’antiquariato, o la luce radente del tardo pomeriggio domenicale che illuminava di sbieco i Navigli, fatto sta che me ne sono subito impadronita senza neppure tirare sul prezzo.
«Ho fatto acquisti!», trillo di gioia mentre sto aprendo la porta di casa e mi accoglie il profumo forte e aromatico della pipa di Guido. «Guarda che meraviglia!»
Guido è ancora lì, dove l’ho lasciato tre ore fa, al computer, a scrivere la sua relazione per il consiglio di amministrazione di domani e non solleva neppure lo sguardo dallo schermo.
«Oh, smettila, dacci almeno un occhio!»
Gliela metto davanti al naso, lui la sfiora con la mano.
«Bella, sì.»
«Eh? mi mancava una così.»
«Sei proprio una maniaca, se adesso che hai trent’anni ne hai così tante, di borse, quando sarai una sessantenne quante ne avrai? Dovremo prendere una casa più grande solo per quelle.»
In un altro momento gli avrei risposto per le rime, ma adesso sono troppo eccitata per il mio acquisto, non gli bado neppure e corro in camera a studiare i particolari di quel meraviglioso manufatto. L’accarezzo, palpeggio la morbidezza della pelle, la tengo in mano mentre passeggio su e giù sul parquet, mi siedo sul letto, la apro, ne scopro le tasche interne, faccio scorrere uno zip, poi l’altro…
Una fotografia! Ma guarda… Che bell’uomo. Se non fosse per la data direi che somiglia a Guido. E’ impossibile, ovviamente. 10 giugno del 1973, Guido è nato l’anno dopo! Certo che la somiglianza è straordinaria, alle volte uno non ci pensa ma chissà quanti sosia ci sono in giro di ciascuno di noi.
Più tardi, a cena, anche Guido prende in mano per un istante quella fotografia sbiadita, ma dice di non notare alcuna somiglianza. Io invece lo osservo con attenzione, quel trentenne dallo sguardo intelligente: capelli lunghi, barba, maglione col collo alto, jeans. Mi concentro sulla faccia di Guido, e cerco di immaginarmelo acconciato anche lui in quel modo.
«Ti piacerebbe essere vissuto allora?», gli chiedo.
Lui ci pensa un attimo, una ruga gli passa sulla fronte, poi mi risponde che è una domanda senza senso, uno vive quando gli tocca, in un altrove temporale lui non sarebbe mai potuto esistere né mai potrà farlo, non riesce nemmeno a concepirlo, tanto diverse sono le situazioni.
«Be’, dicevo così, tanto per parlare», faccio io, contrita e leggermente stizzita per la sua reazione. Ma Guido è così, solido, concreto. Proprio figlio del suo tempo.
Lui si accorge che mi ha un po’ sconcertata e sorridendo mi dice:
«Pensa che non c’erano né i computer, né la posta elettronica né i cellulari… Non ci saremmo neppure potuti conoscere! E poi, un periodo come quello, pieno di disordine e di violenza, ma per carità…»
Gli accarezzo la mano, lui mi guarda, solleva leggermente un sopracciglio, mi fa un buffetto sulla guancia, si alza e se ne va a lavorare.
Sul retro della foto c’è qualcosa. Un nome, una frase. Ma non riesco a leggerla, è cancellata da tratti di biro fitti fitti, quasi rabbiosi. Rigiro tra le mani quel cartoncino vecchio di 38 anni. Mi intriga, non c’è che dire, e mi viene un’idea. Mentre Guido torna al suo posto di lavoro io vado nel mio studio, accendo il computer e scansiono la foto e il retro. La frase mi accorgo che è scritta con un inchiostro blu, mentre i tratti che l’hanno coperta sono neri. Carico il programma PhotoControl e gli dico di fare sparire il nero. Il programma prontamente esegue, però si capisce ancora poco, compaiono solo piccoli tratti e puntini blu, difficile risalire a qualcosa di comprensibile, scritto per di più in corsivo… Ci vorrebbe un sistema esperto che cercasse di interpretare quell’insieme di segni e mi proponesse alcune alternative… Domani chiedo a Francesco, il mio collega che si occupa di queste cose. D’altronde lavoro in una società di informatica, no? Anzi, gli mando subito una mail, lui ci gode con queste cose, magari riesce a tirare fuori qualche risultato. Chissà se riesce a ricavare un nome da dare a quel bel ragazzo degli anni ’70.
Di chi sarà mai questa borsa? Chi è l’uomo della foto, che fine avrà fatto? Adesso avrà quasi settant’anni, i capelli bianchi, se ne starà tranquillo in una casa di campagna dove ogni tanto lo andranno a trovare i suoi figli e i nipoti. La borsa sarà stata di sua moglie, forse è morta, per questo ho trovato la borsa al mercatino, o forse è morto anche lui e i figli si sono disfatti di tutte le cianfrusaglie che lui si teneva in casa per ricordo. Mi prende una stretta al cuore mentre vado in camera da letto, a luce spenta rimetto la foto nella borsa che poi appoggio sulla cassettiera. La borsa tutt’a un tratto è pesante. Non è gioiosa come quando l’ho presa al mercatino, è come se avesse voglia di nascondersi, di celarsi alla vista Forse perché le ho strappato il segreto della fotografia che ha conservato per tanti anni, troppi anni, anche se non mi sembra possibile che una donna l’abbia usata per tutto quel tempo senza accorgersene, forse ha di proposito lasciato lì la foto, nella sua tasca interna, magari in un certo particolare momento ha voluto, o dovuto, cancellare quell’uomo dalla sua vita, poi però non se l’è sentita di eliminarlo davvero e l’ha conservato in un posto dove non fosse costretta a vederlo, ma con la consapevolezza che comunque c’era, era vicino, nonostante tutto quello che potesse essere successo.
Ho il cuore gonfio di una strana inquietudine, sarà il buio della notte, il silenzio della nostra casa isolata, il chiarore lieve che filtra dal soggiorno nel quale Guido sta lavorando alla luce di una lampada da tavolo. Un’inquietudine fatta soprattutto di malinconia, mi piacerebbe che Guido smettesse di battere sui tasti del computer e venisse qui da me, per andare insieme sotto le coperte e fare l’amore a lungo, vorrei davvero perdermi nella dimensione senza tempo di un abbraccio, e mi scende un brivido giù per la schiena quando mi accorgo che la borsa mi sta fissando, immobile, come se volesse dirmi qualcosa, e meccanicamente torno ad avvicinarmi, la apro e riprendo in mano la fotografia. Ho un tremito mentre la trattengo tra le dita, e non voglio accendere la luce, non voglio rovinare quell’attimo nel quale percepisco nettamente il palpito di vita che è lì, a bussare impaziente dalla superficie di quel cartoncino, a voler uscire finalmente dall’accumulatore di passato che l’immagine imprigiona nell’aspetto sorridente e sbarazzino di quell’uomo, soprattutto in quegli occhi più vivi che mai.
Mi scuoto quando improvvisamente un fascio violento di luce investe la mia figura e vedo Guido fermo sulla porta che mi guarda perplesso:
«Ma che succede? Cosa stai facendo?»
Non lo so, mi dico. Sto tenendo la fotografia con entrambe le mani, sono sudata, la borsa è sulla cassettiera, una normale borsa di pelle El Campero, e poi l’armadio, e il letto, i libri sullo scaffale dietro la testata…
Sono invasa da una tristezza infinita, le lacrime affiorano dai miei occhi, gli occhi blu che un tempo facevano impazzire d’amore il mio Guido, mi tremano le labbra e gli tendo le braccia, lui mi viene incontro, mi toglie la foto di mano, l’appoggia sulla cassettiera e mi porta sul letto, come una bambina. Mi abbraccia in fretta, mi sorride e mentre mi asciuga il viso mi dice, con la sua voce calda e ferma:
«Adesso riposati, qui, tranquilla. Ti porto una tisana, vuoi?»
No, non voglio la tisana, voglio te, voglio appoggiare la mia testa sul tuo cuore, sentirne i battiti, il sangue che circola, vorrei che andassimo a letto a fare l’amore, a starcene stretti l’una all’altro, a goderci la presenza forte dei nostri corpi e delle nostre anime intrecciate. E invece no, non dico nulla, sto in silenzio, perché lui mi accuserebbe di essere la solita sentimentale, che non mi comporto da persona adulta.
«Vieni qui anche tu…», gli sussurro con un filo di voce.
«Più tardi, amore, lo sai che devo finire la relazione.»
Ed è notte fonda quando mi sveglio di soprassalto con la sensazione che Guido non sia più lì con me. Lo scopro in soggiorno, in piedi, nudo, con la fotografia in mano. E lui si volta lentamente verso di me, con un sorriso fisso sul viso e gli occhi carichi di angoscia, in una scissione anche fisiognomica spaventosa. Urlo di nuovo, ed è la volta che mi sveglio davvero, con Guido accanto a me che apre per un attimo gli occhi assonnati e mi attira verso di lui bofonchiando un “Dormi, amore” prima di sprofondare di nuovo nel buio nero della notte.
«E’ un bel problema quello che mi hai messo in mano!», mi sta dicendo il mio collega Francesco. «Il sistema standard non riesce a ricostruire la scritta, ieri sera ci ho provato in tutti i modi ma non c’è stato verso, devo quindi trovare un’altra strada. E forse, miracolo!, forse ce l’abbiamo… Sì perché per una banca abbiamo sviluppato un software che “legge” con un raggio laser le densità delle scritture, sai, serve per controllare l’autenticità delle firme. Bene, venendo a noi, se al programma riusciamo a fargli distinguere i punti dove la densità dell’inchiostro è doppia, dove cioè compare sia la scritta che la cancellatura, rispetto a quelli in cui c’è solo la scritta oppure solo la cancellatura, è fatta. Dai, penso di darti i risultati entro stasera, al massimo entro domani. Tu però non dirlo al capo che sto trascurando il lavoro per fare un favore a te, lo faccio solo per i tuoi occhi, lo sai, eh?»
«Ma smettila!»
Gli do la fotografia. Francesco è un tesoro, un vero amico. Forse l’unico vero amico che ho.
Sono lì, alla mia scrivania, davanti al computer e agli altri accessori del mio lavoro, e nella mia mente non riesco a staccarmi dall’immagine della fotografia, ne ripercorro i tratti, i capelli, gli occhi, il sorriso… Lo so che devo concentrarmi sul progetto che ho in corso d’opera, mi giustifico però pensando che siamo alla fase finale, il beta test è quasi completato, in anticipo sui tempi previsti. Da un’immagine bidimensionale, opportunamente elaborata, siamo riusciti a estrarre una possibile rappresentazione tridimensionale. Il lavoro più impegnativo è stato quello di analizzare le luci e le ombre, in modo da calcolare il grado di curvatura delle superficie, le eventuali asperità, le profondità degli oggetti contenuti nell’immagine. E’ chiaro che, in assenza di simmetrie, il retro di questi oggetti è ricostruito sulla base di mere ipotesi, ma già così il risultato è notevole. Ha ragione Guido, in fondo, come potevano fare a meno, gli uomini degli anni Settanta, di tutto quello che oggi la tecnologia ci offre? Chissà cosa direbbe il tizio della fotografia se potesse vedere il punto cui siamo arrivati!
Il tizio della fotografia. Già. Ci penso e un brivido mi assale la schiena. E’ fine ottobre, il riscaldamento è acceso, eppure ho freddo, eppure sudo, mi sento mancare il respiro, devo alzarmi, faccio due passi lungo il corridoio, poi torno indietro, infine mi decido ad andare a prendere un caffè, ad è là che incontro Francesco che mi dice, con fare complice:
«Ci siamo quasi! Ora tolgo un po’ di impurità e ti porto quella scritta su un vassoio d’argento. Bacio?»
Il test del software di cui mi sto occupando è OK. Dalla fotografia di un cane sono riuscita ad ottenere una rappresentazione tridimensionale, che ruoto come voglio sullo schermo del computer, brava!, mi dico, dopo tutto sono davvero in gamba! Sto per spegnere tutto per tornarmene a casa quando mi arriva l’ultima mail. Il testo è breve, tre parole: “Il tuo Guido”. Ho un tuffo al cuore, penso a qualcosa che mi può aver inviato mio marito, un biglietto d’amore in allegato, o l’invito a cenare fuori in un ristorante elegante, è tanto tempo che non usciamo la sera, del resto lo capisco, povero Guido, è un brutto periodo questo, con la crisi e tutto il resto, e lui deve prendere delle decisioni spiacevoli, tipo licenziare un po’ di dipendenti per riorganizzare l’azienda…
Non me l’ha inviato Guido quel messaggio. Il mittente è Francesco. E io rimango impietrita a rileggere quelle tre parole. “Il tuo Guido”. Allora l’uomo della fotografia si chiamava Guido. Come il mio, di Guido. E l’aveva sicuramente regalata a una donna. Che poi, per qualche motivo sconosciuto, aveva cancellato la dedica. Senza però buttar via la foto. Mi precipito da Francesco, ha in mano la fotografia, la agita per aria con un’espressione divertita.
«Allora», mi dice, «che ne facciamo di questa? La rivuoi? E tu cosa mi dai in cambio?»
Guido! Guido non viene a casa stasera, ha una cena di lavoro. L’ennesima cena di lavoro. Sono sola, al buio, ho in mano la fotografia di Guido, che mi osserva incuriosito, in attesa di qualcosa, lo guardo e lui mi parla, ma non capisco che cosa mi stia dicendo, ho la testa in fiamme, e fuori ammicca una luna pazzesca, e io vorrei essere là sul viale a passeggiare, le foglie secche che volano dagli alberi sul controviale, vorrei calpestarle e sentirne il rumore, e respirare intensamente l’aria fresca e tenue di questo fine ottobre.
D’improvviso, l’idea.
Ma sì, nel mio studio ho tutta l’attrezzatura necessaria, me l’ero installata per fare dei test a casa sul secondo step del software su cui sto lavorando: la creazione di ologrammi dalle immagini tridimensionali. Forse non funzionerà perfettamente, ma perché non provarci, domani al lavoro mi scarico l’ultima versione del programma e nel pomeriggio mi prendo mezza giornata di permesso. E faccio rivivere Guido.
E’ stato facile stamattina convincere il mio capo che era meglio che facessi i test a casa, senza essere disturbata dai colleghi e da mille telefonate, così non ho nemmeno dovuto chiedere il permesso. Sono al culmine dell’eccitazione, nella solitudine del mio studio, mentre inserisco il CD nel lettore del computer, vedermi Guido in tre dimensioni, davanti a me, come se fosse vero, reale, un ragazzo di tanti anni fa che mi viene a trovare, l’idea mi pervade la mente e il corpo, non riesco quasi a stare seduta sulla sedia, il CD trema nelle mie mani, finalmente è inserito, vai sul programma, la freccina del mouse sull’icona giusta.
Il rumore fastidioso delle chiavi che girano nella serratura della porta d’ingresso. Guido. Guido che arriva proprio mentre sto attivando il software. E’ tornato a casa alle tre del pomeriggio, come è possibile, proprio oggi doveva arrivare così presto!, ho il cuore che mi batte all’impazzata, non voglio che si accorga di quello che sto facendo, spengo tutto e gli vado incontro in soggiorno. Lui è sorpreso nel vedermi, si è appena tolto il giaccone, rimane un attimo in silenzio, poi si accorge della fotografia che tengo in mano, si guarda attorno e non ce la fa più a trattenersi, mi urla contro:
«Ma cosa fai qui, invece che essere al lavoro! Almeno mettessi un po’ di ordine in casa, sono stanco di tutto questo caos, libri per terra, prendi le cose e non le rimetti a posto, guarda che roba, sono stufo, hai capito? Che cos’hai lì in mano? Ancora presa con quella cazzo di fotografia, mi hai rotto le scatole, finora sono stato fin troppo comprensivo, adesso basta, basta, ora me ne vado a giocare a golf, tu vedi di sistemare tutto ‘sto casino e soprattutto non voglio più vedere quella fotografia, chiaro?»
Io sono confusa, mi ronzano le orecchie, mi accorgo appena che sta rimettendosi il giaccone, che sta cercando con gli occhi la sua sacca da golf, e sento a malapena la sua voce che mi chiede se l’ho vista in giro, con tutto questa confusione non si trova mai nulla, te la prendo io, tesoro, le parole mi escono dalla bocca, erano lì, ferme, parcheggiate, ormai senza alcuna connessione con il resto di me, del mio corpo, del mio essere. Le pronuncio, ma senza rendermene conto, così come non mi rendo conto che sto estraendo dalla sacca e afferrando a due mani un ferro 3, ottimo per i tiri ravvicinati e precisi, forgiato, preciso, sensibile e potente, come dice la pubblicità, e lo sto portando sopra la mia testa per poi calarlo in avanti con tutta la mia forza…
«Guido…»
«Ciao, piccolo fiore.»
«Tu sei…»
«Sì, sono io, Guido. Il tuo Guido.»
«Ma non è possibile, non puoi essere Guido, tu sei un’ombra, un ologramma…»
«Oh no, sono reale, lo sai benissimo. Sono il tuo Guido. Il Guido che avresti voluto, che però hai tentato di cancellare dalla tua mente. Tutto per salvare un matrimonio…»
Mi accorgo che sto tremando, non riesco a proferire parola.
«Ci hai provato, ma non ci sei riuscita. E ora sono qui, sono tornato, vivo più che mai, dal momento che l’altro Guido è morto.»
Io sto in silenzio, incantata. Una dolcezza languida ed estenuante mi invade il corpo, le gambe molli, il sangue che circola leggero, quasi evanescente. E prima di socchiudere gli occhi sento me stessa sussurrare:
«… e non mi lascerai mai, vero?»
«Mai più tesoro mio. Sono tuo, e lo sarò per sempre.»
Una risposta a ““Ferro 3” di Alessandro Bastasi”
Very impressive blog.
Interesting article right on the subject.