“Fiera Nera” di Carlo Frilli


Nel gabbiotto battuto dal vento gelido di quella mattina di dicembre c’era il solito Paolo, detto “Chissenefrega”,  che con un gesto del capo mi fece uno svogliato saluto. Alzai la mano per ricambiare borbottando un vaffanculo all’interno della mia utilitaria.
Lavoro alla Fiera del Mare di Genova da circa una decina d’anni, il mio ufficio è nella palazzina di fronte al Palasport e da lì vedo il mare e il cielo cambiare il loro colore, gente di tutti i tipi transitare avanti e indietro per i più disparati eventi, ma mai mi era capitato di trovare il posteggio delle auto quasi completamente vuoto.
Sceso dalla macchina mi guardai ancora attorno, diedi un’occhiata all’orologio e fui quasi pervaso da un sensazione di essere su “scherzi a parte” o semplicemente di trovarmi in una di quelle domeniche che ti svegli pensando sia un giorno lavorativo. Mentre sono alle prese con questi pensieri, vedo dirigersi verso di me un’auto della polizia dall’entrata principale. Mi fermo alle porte della palazzina, la macchina si posteggia davanti a me e ne scende un poliziotto.
“Buongiorno. Stiamo cercando altro personale di Fiera per portarli in questura”
“Buongiorno. Ma cos’è successo?”
“Un operaio che lavora qui sembra essere scomparso e con lui anche sua moglie”
“Di chi si tratta? Sono a contatto con quasi tutti gli operai di Fiera e in questo periodo stiamo portando avanti i lavori del nuovo padiglione.”
“Ramon Perez è il nome dell’operaio e la moglie si chiama Maria Perez, li conosce?
“Certo che li conosco. Ramon è una persona come si deve e qui aveva un sacco di amici. La moglie la conosco poco”
“Le devo chiedere di venire con noi. Se vuole possiamo accompagnarla noi e poi riportarla qui una volta finito”
“Va bene, grazie.”
Mille pensieri, domande, immagini. Ramon silenzioso, taciturno, introverso, mezzo sorriso e mezzo busto, come qualcuno lo aveva soprannominato. Maria gran lavoratrice, sempre con secchio, ramazza e scopa, occhi bassi, Una figura triste che si aggirava nei padiglioni e negli uffici.

Ho conosciuto parecchi sudamericani, alcuni solo sul lavoro, altri anche sui campi da calcetto. Ricordo bene Richard, un peruviano non tanto alto dal fisico tozzo e tarchiato. Ogni volta che arrivava al campo pensavo a lui immaginandomelo nelle vesti di un azteco o di un inca. Capelli nerissimi che non ti permettono di dargli un’età precisa, una caratteristica comune un po’ a tutti i sudamericani. Anche di Ramon non avrei saputo stimare un’età, ma sono certo che se avessi pensato a lui come un trentenne forse sbagliavo di una decina d’anni a rialzo. Comunque lui, a differenza del mio compagno di pallone Richard, non era un abile attore, anche se a dire il vero non l’ho mai visto nelle vesti di calciatore. Richard aveva un’abilità su tutte, quando riceveva un lieve contrasto di gioco si buttava a terra, forse per perdere tempo se la sua squadra stava vincendo, e tenendosi la gamba o la caviglia si rotolava come morso da una tarantola. Lo chiamavamo Marlon, ma Brando, a onore del vero, si sarebbe offeso a morte viste le scarse qualità di recitazione del soggetto. Sempre serio e pensieroso, invece, il nostro Ramon, si era fin lì sempre dimostrato un valido e instancabile lavoratore. Gli faceva difetto un umore sempre al limite tra il triste e l’incazzato, ma nessuno di noi aveva mai pensato di chiedergli qualcosa in più delle solite battute e varie indicazioni lavorative. Sapevamo poco di lui e lui sapeva poco di noi, o almeno credo. La moglie, dal canto suo, era ancora più silenziosa e chiusa di lui.
Questo fu quello che grosso modo raccontai alla polizia.

“Grazie signor Furfante” il mio cognome faceva sempre scappare un mezzo sorriso a chiunque si rivolgesse a me, ormai mi ero abituato e a mia volta mi lasciavo coinvolgere di risposta con un sorriso comprensivo.
“Se avremo bisogno saremo costretti a disturbarla ancora” il commissario era un uomo di mezza età, burbero ma con gli occhi buoni. Mi alzai dalla sedia e gli strinsi la mano.
“Sapete dove trovarmi, spero saltino fuori presto”.
La macchina con i due agenti dell’andata mi aspettava fuori dalla questura. Feci un cenno ad uno dei due che stava in piedi davanti alla portiera fumando una sigaretta.
“La riportiamo in Fiera, venga dottor Furfante” il sorriso fece capolino e per tutta risposta sorrisi anch’io.
“No, grazie. Preferisco farmela a piedi così mi sgranchisco un po’ le gambe. Arrivederci” tra me e me sperando di non rivederli, la polizia non mi ha mai fatto nulla, ne’ io a loro ovviamente, ma ho sempre pensato che meno li vedevo e meglio stavo.
Mi incamminai a passo lento, il vento non aveva smesso di farsi sentire e da Via Brigate Partigiane,;socchiudendo gli occhi verso l’orizzonte, scorgevo gli schizzi delle onde infrangersi sugli scogli alla Foce.
Ripensai agli ultimi fatti ma non riuscii a convincermi che realmente Ramon avesse potuto commettere qualche gesto sconsiderato. Ma in fondo cosa ne sapevo di lui e delle sue questioni personali? Magari la moglie lo tradiva e nel più banale dei cliché lui l’aveva scoperta e,in preda alla collera, l‘aveva uccisa.
Nei corridoi non si parlava d‘altro. Entrai nel mio ufficio e mi chiusi dentro per non ascoltare i colleghi intenti in questa nuova mansione. Poggiai il giaccone sulla sedia e mi sedetti alla scrivania accendendo il pc e aspettando si completasse l’operazione aprii il primo cassetto per prendere alcuni documenti. Il biglietto cadde sulla moquette. Era uno dei miei biglietti da visita che usavo per alcuni fornitori di Fiera o quando ero in veste di responsabile per qualche evento. Sul retro una calligrafia che non riconoscevo, stentata, quasi infantile.
“Grazie e scusi. Molo 16”.
Ramon. Tra le poche cose che ci eravamo detti c’era la questione che spesso le persone si dimenticano l’abc dell’educazione. Un giorno ci trovavamo in coda alla mensa, ognuno con il proprio vassoio che facevamo scorrere sulla pista di acciaio lucida dinnanzi ai contenitori delle portate. Mangiammo assieme quella mattina a pranzo e ad un certo punto gli parlai di persone che con la maleducazione sembravano aver stretto un gran bel rapporto abbandonando i grazie e le scuse. Ci trovammo d’accordo. Quella fu una delle poche volte che Ramon sorrise. Credo che fino a quel momento non sapessi neppure se sapesse farlo ne’ se avesse dei denti da mostrare. Un bel sorriso, raro, che partiva dagli occhi.

Molo 16.
Uscendo dall’ufficio non avevo detto a nessuno dove stavo andando.
Più però mi avvicinavo al molo e più pensavo che forse sarebbe stato meglio farlo. Non sono mai stato eccessivamente saggio, direi piuttosto impulsivo. Di certo al molo avrei trovato Ramon. Lui sapeva di quell’imbarcazione sequestrata che si trovava a mollo da diversi mesi. Il proprietario l’aveva lasciata dopo aver ricevuto svariate richieste di pagamento dell’affitto. Si venne poi a sapere, durante la visita della Guardia di Finanza, che neppure la barca era mai stata pagata e che veniva così confiscata e posti i sigilli.
I sigilli erano spariti dopo qualche tempo, dei vandali o qualche senza tetto vi era andato per smaltire una sbornia o semplicemente per dormire al caldo in qualche gelida nottata.
Anche oggi faceva parecchio freddo e il vento tagliente mi fece lacrimare un occhio e poi subito dopo anche l’altro mentre mi avvicinavo al pontile del molo 16.
Lo sciabordio dell’acqua mista al rumore del vento giungeva sino a me, bagnandomi appena la faccia di salino. Misi il primo piede sulla passerella di collegamento all’imbarcazione. Scricchiolò sotto il mio peso e il dondolio instabile mi fece affrettare ad attraversarlo. Ero sulla “Desperado”, un nome un programma, ma non stava a me giudicare dal nome. Sorrisi. La porta a vetri era socchiusa, i sigilli penzolavano da un lato oscillando appena.
“Ramon, sei qui? Sono Corrado, Corrado Furfante” lo dissi a voce alta mettendo la testa dentro alla sala con sontuosi arredamenti. Non ci fu nessuna risposta. Solo qualche scricchiolio. Poi un rumore diverso, forse dei passi a seguire. Da sotto?
“Ehi Ramon, non aver paura, sono solo!” appunto, ero solo, in cuor mio speravo di non aver a che fare con un delinquente ma del solito bravo Cristo di Ramon, così come lo avevo sempre visto e giudicato.
Un altro rumore, più vicino, più nitido. Mi girai e Ramon era lì, in piedi davanti a me. Ci guardammo per un attimo negli occhi. I suoi erano diversi, vacui e profondamente segnati da ore di insonnia.
“Cosa succede? Tutti ti cercano…” lo dissi con un filo di voce e forse con un pizzico di tremore.
“Oggi è venuta la polizia. Credo siano stati allertati da tuo figlio. Maria è sparita e temono per lei…”. Si mise le mani in faccia e si sedette sul divano in pelle. Piangeva scosso da singhiozzi. Non era una confessione, ma una reazione più eloquente di questa non avrei potuto avere come risposta.
“Dai Ramon, non fare così. Se avete litigato poi vedrai che ritorna e fate pace…” non ero convinto neppure io di quello che stavo dicendo. Avevo la netta sensazione che le cose fossero ben più complicate.
Non feci a tempo neppure a continuare in questo mio vano tentativo di tranquillizzarlo che le porte a vetri si spalancarono e fecero irruzione due poliziotti armati con giubbotti antiproiettili e tutto il resto. D’istinto alzai le mani e feci alcuni passi indietro. Che cazzo di situazione…che coglionazzo, e adesso?
Ramon non si era mosso e adesso mi guardava con tristezza mista a odio.
Gli agenti lo immobilizzarono in pochi secondi. Mani dietro la schiena e manette.
C’erano stati comandi urlati che echeggiavano all’interno della sala ma che le mie orecchie non riuscivano a mettere a fuoco. Ero immobile e un agente mi fece abbassare le braccia che stupidamente avevo ancora alzate.
“Dottor Furfante…” come cazzo si fa a sorridere in una situazione del genere, eppure lui ce la faceva. Non risposi con un sorriso, ero stordito. Vidi che portavano fuori Ramon che si girò guardandomi ancora per un’ultima volta.
Non lo vidi mai più. In seguito dai giornali e dalla tv si seppe che interrogato a lungo lo avevano arrestato per l’omicidio di sua moglie Maria Rosita Perez. Il corpo però, nonostante la caparbia voglia di verità della polizia, non volle mai dire dove lo aveva nascosto. Ipotizzarono tutti che fosse dentro ai pilastri di cemento del nuovo padiglione. Anzi alla fine tutti si convinsero di questa ipotesi. Ma io so bene che fine fece la povera Maria e credo che non fu così fortunata, credo anzi che per lei la morte non ebbe nessuna pietà, riservandole con molta probabilità una fine atroce.
Impossibile che fosse nel cemento di qualche pilastro, quei lavori li avevo seguiti in qualità di geometra assieme ad alcuni miei uomini. I piloni all’epoca della sparizione di Maria erano già stati sistemati. C’era ancora qualche lavoro di muratura ma non adatto a coprire e nascondere un truce omicidio e l’occultamento di un cadavere.
Un mese prima di questi fatti avevano installato in banchina il nuovissimo e innovativo sistema di pompe idrauliche a servizio del padiglione. Questo sistema avrebbe garantito, tramite l’immissione di acqua marina aspirata con eliche di enormi dimensioni, l’apporto di liquido di scambio per gli enormi gruppi frigoriferi e scambiatori di calore presenti. Una volta riempito il grande vano di acqua in banchina, filtrata e passata da eliche trituratrici e griglie, la stessa viene convogliata agli scambiatori per sottrarre energia per poi essere pronta a fare il percorso inverso ed essere nuovamente scaricata in mare poco lontano.
Ramon era presente alla spiegazione del tecnico romano che venne a illustrare il suo funzionamento. Ci trovavamo nei pressi di uno dei tanti tombini di spesso acciaio proprio sopra quell’enorme vascone che ospita le pompe marine. Questi era sollevato. Un uomo solo, nonostante l’attrezzo apposito per alzarlo, avrebbe fatto una gran fatica, ma ci sarebbe riuscito, meglio se in due ad ogni modo per evitare di spezzarsi la schiena o farsi venire un’ernia.
“Non ve auguro de cascarci giù quando sta in funzione…avete presente la carne macinata?” un brusio tra i presenti, una risatina seguita da qualche colpo di tosse.
“Aò e mica ve recuperano più. Il tutto viene buttato in mare aperto per i pesciolini. Ce semo capiti?”
Venne chiuso il tombino e con esso tutti i discorsi a lui connessi.

Maria Rosita Perez non fu mai più trovata.

 


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