AUTUNNO 2005
«Quando arriva il mare grosso, si fa sentire prima. Il vento che dal nulla comincia a soffiare, piano, come un alito, e poi cresce. E ti scompiglia i capelli. E sbattono le finestre. E sale l’odore di salsedine. Ti si appiccica addosso. E l’onda si gonfia come una donna gravida e ruba la sabbia alla battigia formando pozze d’acqua dove i bambini saltano come le acciughe nel sacco della sciabica. Quando arriva il mare grosso, quello spazio immenso davanti a te prende forme paurose. E il rumore…il rumore sembra quello di un esercito che si avvicina: centomila fanti in marcia ma ancora lontani. E tu sai che arriveranno e dovrai essere pronto. Perché il mare grosso non perdona».
Pasquale Zippone, detto Zippo, aveva quarantotto anni, anche se ne dimostrava almeno dieci di più. La pelle del viso bruciata dal sole faceva risaltare le prime rughe sulla fronte e intorno agli occhi, azzurri, ma spenti, come coperti da un velo. I capelli neri raccolti in un codino dietro la testa e la barba folta, lunga un palmo sotto il mento, lo facevano somigliare a una via di mezzo tra un cowboy e un guerriero afgano. Seduto a cavalcioni del muretto di pietra ai margini del viottolo delle Maone che scendeva verso il mare, Zippo spiegava al piccolo Domenico perché mamma e papà si affrettassero a lasciare la casa quella cupa sera di novembre, in un viavai di vigili del fuoco, uomini della protezione civile, personale del 118, volontari che facevano più casino che altro. «E tu cosa farai?» chiese il bambino a Zippo. «Io resto qui a guardare cosa succede» rispose con un sorriso, prima di morsicare un bastoncino di liquirizia con il quale cercava di placare il desiderio di una sigaretta. «E non hai paura?». «Certo, ma sono curioso e anche un po’ matto». «Papà dice che nessuno ti convincerà a metterti in salvo». «Tuo padre mi conosce bene: ha ragione». «Zippo…», intervenne Cisco, padre di Domenico. Non fece in tempo ad aggiungere altro. Zippo lo interruppe: «So cosa vuoi dirmi, ma il mio posto è qua. Non ne esiste un altro al mondo». E sputò un filo di liquirizia che gli era rimasto fra i denti. Provò a convincerlo anche Marilina, la moglie di Cisco, insegnante di italiano alle scuole medie. «Hai fatto tanto per questo posto, Zippo, ma arriva un momento in cui anche arrendersi può essere onorevole». «Lina, non lo faccio per orgoglio, è che…voglio vedere negli occhi la piovra» rispose, accompagnando le parole con una smorfia teatrale e la voce in falsetto. Domenico sghignazzò e Marilina capì che quello, per Zippo, era il modo di chiudere il discorso.
Al Centro meteorologico il dottor Enrico Quintavalle osservava in silenzio l’immagine dal satellite. La perturbazione dall’Atlantico viaggiava un po’ più lenta del previsto. Guardò l’orologio: erano le 18. Quattordici, quindici ore e ce l’abbiamo sulla testa, pensò. Marta Falconi, stagista della facoltà di Fisica dell’atmosfera e meteorologia, gli porse una tazza di caffè. «L’assessore è al corrente?» chiese Quintavalle. «Paolo dice di sì – rispose la stagista – È impegnata, sia stasera sia domani mattina in appuntamenti elettorali ma ha detto di essere reperibile in qualsiasi momento sul telefonino. Ha aggiunto che comunque è opportuno fare riferimento alla dottoressa Marrani, credo sia la dirigente della Protezione civile». «Sarebbe opportuno…» ripeté Quintavalle imitando la voce dell’assessore regionale alla Protezione civile, Cinzia Schiavon. «Guarda qui – indicò l’immagine sul monitor a Marta -: questa non è una tempesta qualunque. Questa è La Tempesta. Avremo raffiche di vento a 160 chilometri l’ora, onde di tre metri e Dio solo sa quante ore di pioggia. In Francia, ieri, sono caduti 500 millimetri d’acqua in sei ore. E a occhio la perturbazione sta prendendo vigore. Fossi nell’assessore tremerei. Deve solo sperare che il dispositivo d’emergenza funzioni come un orologio svizzero».
«Enrico, hanno cominciato ad evacuare i sei paesi dell’elenco – lo informò Marrani al telefono – Quanto tempo abbiamo?». «Meglio concludere nella notte» consigliò Quintavalle. «Ok, erano i nostri piani. Domani sarà l’inferno». «Puoi giurarci» rispose il meteorologo. Nelle successive otto ore furono allontanate dalle proprie abitazioni quasi duemila persone, distribuite nelle palestre di quattro scuole e in una decina di alberghi. Quintavalle non andò a dormire a casa quella notte. Si appisolò un paio d’ore sulla sedia di fronte ai monitor.
La prima scossa fu così violenta che Zippo si trovò steso sul pavimento. La schiena contro la parete ovest, perché in quella direzione si era inclinata la casa. Tutto era scivolato verso l’angolo dove ora stava rannicchiato, con la testa fra le mani per proteggersi dall’impatto del tavolo della cucina che gli veniva addosso come attratto da una calamita invisibile. E così la credenza bianca, pitturata di fresco, che si piegava su di lui con tutto il suo carico di piatti e bicchieri in un fragore assordante. Il vetro della finestra cha dava sulla piccola baia era esploso e ora il montante di legno, in balìa della bufera, sbatteva da una parte all’altra.
Sul pavimento si era aperta una crepa larga due dita che saliva su fino al soffitto disegnando una sorta di saetta. In basso, nell’angolo opposto a quello in cui era sprofondato Zippo, un tubo tranciato scaricava acqua nella stanza. Dieci, forse venti secondi era durato quell’inferno. Non era una scossa di terremoto. Era l’urlo di un pezzo di terra fragile, oltraggiata dall’uomo, che si sgretolava sotto un diluvio e il martellamento delle onde. Quel costone di roccia scivolava lentamente verso il mare; pochi centimetri all’anno, dicevano gli esperti, ma talvolta con “strappi” più forti. Zippo ricordava almeno cinque episodi, sempre nel periodo delle grandi mareggiate, di solito accompagnate da piogge violente. Ma questa volta era diverso. Questa volta la terra franava come un castello di sabbia. Zippo aveva avuto la netta sensazione di precipitare nel vuoto, quando sotto i suoi piedi il pavimento si era piegato come un tappeto di gomma. Nella falesia si era aperta improvvisamente una crepa lunga 150 metri che tagliava in orizzontale la parte bassa della montagna.
Pochi attimi dopo una porzione di villaggio si staccava precipitando in mare con un boato. Sparivano la casa azzurra del maresciallo in pensione, Pasquale Polito, comprata con l’eredità del suocero; la vicina drogheria di Matilde, nel cui retro, si dice, la signora e il marito evocassero i morti con un gruppo di amici, in sedute spiritiche accompagnate da affettati e vino rosso che servivano a consolare almeno il palato, quando il caro estinto non si manifestava. Spariva pure il negozio di souvenir di Violetta e Tino, teatro di furibonde liti tra i due, con lancio di conchiglie, set di piatti e bicchieri decorati, orologi a muro a forma di pesce e altre cianfrusaglie. Stessa sorte per la piccola gelateria Marconi che lavorava cinque mesi all’anno, ma tanto bastava a Vincenzo per svernare ai Caraibi e mantenersi un motoscafo da “caccia alle tedesche”, utilizzabile però solo il lunedì, quando la moglie gli concedeva un pomeriggio di riposo.
I settantatré abitanti avevano abbandonato il villaggio già da ore, da quando cioè la Protezione civile aveva disposto l’evacuazione. L’allerta due faceva immediatamente scattare il piano di sicurezza, dal momento che quel borgo marinaro aggrappato alla falesia era considerato ad alto rischio. Solo Zippo era rimasto barricato in casa. Dieci metri sotto di lui la mareggiata di libeccio proseguiva il suo lavoro. Gli schizzi d’acqua arrivavano fin su, alla mezza dozzina di case bianche che il mare non aveva ancora inghiottito e alla chiesa di San Giorgio, ultimo baluardo, ancora una volta, come ai tempi delle incursioni saracene.
Zippo aveva la gamba sinistra ferita, all’altezza della tibia, e due dita della mano destra fratturate. Le osservava, viola e gonfie, poi spostava lo sguardo sulla gamba sanguinante. Si stupiva di non sentire alcun dolore. E si stupiva anche dei suoi pensieri. Volavano lontano come se il disastro del suo villaggio che scompariva lentamente inghiottito dal mare non lo riguardasse. Come se quel corpo ferito e abbandonato sull’orlo del precipizio non appartenesse più a lui. Provò piuttosto una piacevole sensazione di pace. Alzò lo sguardo in direzione della finestra per cercare la punta del campanile nel grigio plumbeo del cielo di novembre. Gli parve di ascoltare i rintocchi delle campane. Socchiuse gli occhi, stese le braccia lungo i fianchi, i palmi rivolti verso l’alto. Una fitta violenta gli attraversò la schiena mentre l’acqua riempiva la stanza. Fu in quel preciso momento che sul villaggio si scagliò la seconda terribile unghiata del gigante. Un’altra crepa, ancora più grande, tagliò in orizzontale la falesia. Le onde ormai entravano dalla finestra, rimbalzando da una parete all’altra di quella casa che assomigliava sempre di più a un relitto in balìa della tempesta. Anche il campanile di San Giorgio si arrese spezzandosi in due, come l’albero di un veliero.
Il costone di roccia che ora franava trascinò con sé sette villette a schiera, l’ultimo sfregio dell’uomo alla natura e al buon senso. Sotto sequestro da tempo per le crepe apparse sui muri, le “sette sorelle” crollavano come un castello di carte, mentre il piccolo parcheggio collegato ad esse, perso il sostegno del terreno rimaneva sospeso nel vuoto. La scossa questa volta fu più lunga. Zippo vide il tetto squarciarsi sopra di lui, mentre la casa si piegava ancora, sfidando la legge di gravità.
L’uomo sanguinava copiosamente dalla gamba sinistra, questa volta colpita da una scheggia di legno che si era conficcata all’altezza del polpaccio, trapassandolo da parte a parte. Il sangue si mischiava con la spuma del mare che aveva invaso la stanza. I suoi pensieri si persero in quell’immagine. Tornò il ricordo delle teste di sardina che rotolavano nella risacca e del sangue delle prede più grosse pulite dai pescatori, lì sulla spiaggia, appena tirate fuori dalla rete.
Zippo allora aveva otto anni e quello era il primo sangue che vedeva. Lo accomunò a quell’odore forte di pesce e di mare, alle bestemmie dei pescatori e a quelle, ancora più squillanti, della Miglia, una donna di cinquant’anni, forte come un toro, autoritaria e con uno spiccato senso per gli affari. La Miglia era proprietaria con il marito dei cinque barconi che assicuravano ogni giorno un ricco bottino di pesce da vendere alle trattorie di Nardino, un paese di seimila anime, lassù in cima alla montagna dove lei, come la maggior parte degli abitanti del borgo, preferiva non avventurarsi. «Noi siamo pirati – diceva la Miglia – quelli sono signori. Non abbiamo niente da dirci». E sputava per terra quel grumo di sardine crude che masticava tutto il giorno con i pochi denti che le rimanevano, nascosti da labbra sottili bruciate dal sole.
Zippo non sapeva se, come si diceva in paese, la Miglia fosse davvero una discendente di quei pirati saraceni che secoli prima assalirono il villaggio, considerandolo un rifugio ideale. Era però rimasto affascinato dalla leggenda. I predoni fecero a pezzi gli uomini, stuprarono le donne e si fermarono solo di fronte al portone della chiesa, dove nel frattempo si erano rifugiati una dozzina di bambini, il prete e la sua amante. I pirati non si fermarono per rispetto di Dio, ma solo perché nel frattempo una piovra gigantesca salita dal mare, si era parata di fronte a loro con tentacoli lunghi quanto gli alberi di un veliero. Ripresero il largo e nessuno, si dice, li rivide mai più. La piovra invece si risvegliava di tanto in tanto. Scivolava lenta fuori dalla tana per prendersi quanto le spettava da quella comunità di pescatori, in cambio della protezione offerta. «Un giovane all’anno. E’ così da sempre», dicevano i vecchi del borgo. Quando qualcuno annegava in quel tratto di mare (e succedeva spesso perché il fondale roccioso era pescosissimo ma pieno di insidie per i sub meno esperti), era stata la piovra che si nutriva dell’anima dello sventurato, restituendone poi il corpo. Se la vittima era un giovane del villaggio, il suo nome, con la data di nascita e di morte, finiva inciso su una parete di roccia levigata ben visibile dal mare, cosicché la piovra potesse tenere il conto. Zippo e gli amici, da bambini, raggiungevano spesso quella sorta di piccolo santuario pagano i cui unici veri padroni erano i gabbiani. Nidificavano su quella roccia e poi ne marchiavano il territorio con il guano. Il santuario era lungo il sentiero a gradoni che dalla baia saliva su fino alla strada per Nardino. Era stata quella per secoli l’unica via di collegamento con il mondo. Trecentosettantaquattro scalini scavati nella roccia. Al duecentoventunesimo la montagna lasciava spazio a una sorta di piattaforma naturale, a picco sul mare, di non più di sei metri quadrati. Il santuario era lì. Un luogo magico per Zippo, Cisco, Bistecca, Giorgio, Trino e gli altri. C’era una regola: lassù, di fronte alle vittime sacrificali della piovra, si doveva sempre dire la verità, anche quella più dolorosa e da lassù non si scendeva fino a che non fossero state chiarite le questioni che riguardavano il gruppo. La regola fu spesso disattesa. Scoppiò anche qualche zuffa al santuario, ma era riconosciuto da tutti che, per qualche misteriosa ragione, non c’era posto migliore per meditare e trovare risposte.
Dicono che anche la Miglia frequentasse il santuario, di tanto in tanto, all’alba. Ma erano voci. Nessuno in realtà la vide mai lontana più di cinquanta metri dalla sua spiaggia. La presidiava come un condottiero il campo di battaglia.
La Miglia aveva la tempra dei pirati. E l’aspetto. La pelle olivastra, una bandana lercia, perennemente avvolta ai capelli neri e ispidi, gli occhi scuri, piccolissimi, incavati in un volto bruciato dal sole, le braccia muscolose. A cinquant’anni il suo volto ne dimostrava settanta, ma la forza, l’energia erano quelle di una donna nel fiore degli anni. Odorava di pesce, come se il suo corpo fosse coperto di squame. Zippo la guardava mentre cuciva le reti per la pesca del mattino successivo, seduta sulla sabbia, attorniata da gatti, gli unici essere viventi che adorava e premiava con manciate di teste di sardine. Le sembrava una creatura del mare, la figlia reietta di Nettuno, cacciata dagli abissi forse per la sola colpa di essere brutta.
Miglia era nata per comandare. Lo faceva con le bestemmie e mulinando le braccia. I pescatori obbedivano senza battere ciglio. La rispettavano, come rispettavano il marito, Lino, morto in mare una calda notte d’agosto. Era uscito come al solito a calare le reti con il suo barcone bianco e azzurro. Con lui tre uomini, i più fidati. I soliti gesti, le solite battute, laggiù a un miglio da riva, sulla posta del Mangiagatti. Un fondale di cinquanta metri ricco di pesce. Era in piedi, in mezzo alla barca che muoveva lentamente sul mare immobile. Fissava le luci della costa. Silenzioso. Albeggiava. Improvvisamente barcollò, poi si piegò in due, cadde in ginocchio e in quella posizione cessò di vivere tra le braccia di Alfio che dalla prua era saltato giù per evitare a Lino di spaccarsi in due la testa sullo scalmo. Capirono subito che per lui non c’era nulla da fare. Gianni imprecava, mentre gli altri due stesero Lino sul fondo del gozzo con un cuscino sotto la testa. Abbandonarono le reti al loro destino e rientrarono. Ora si era alzata una leggera brezza di tramontana. Puntarono la prua verso riva, con il motore al minimo come a non voler disturbare il sonno del pescatore.
Dalla spiaggia, Miglia, scrutando l’orizzonte, aveva già notato qualcosa di strano. La barca stava rientrando con una buona ora d’anticipo. Fu uno straccio bianco che sventolava a prua a farle intuire la tragedia. Quello era il loro modo di segnalare l’emergenza. E ora che la barca era più vicina poteva notare che il suo uomo non era in piedi come al solito. La Miglia stava piantata sulla battigia, le gambe divaricate, la mascella serrata. In silenzio. Intorno a lei una mezza dozzina di pescatori pronti con i palari e la fune da agganciare alla barca. Zippo rivide quella scena, mentre le onde entrando dalla finestra gli sbattevano in faccia. Il destino volle che quella mattina d’estate la madre lo lasciasse scendere sulla spiaggia prima del solito. Se ne stava in disparte, con un secchiello pieno d’acqua in mano nel quale avrebbe infilato un paio di piccole prede sfuggite alla maglia delle reti e cascate sulla battigia. Nel suo piccolo acquario improvvisato avrebbe potuto osservarle da vicino ancora qualche minuto prima di restituirle al mare. Ma quella mattina il secchiello restò vuoto. Zippo osservava il dolore muto di quel gruppo di pescatori.
Quando la barca fu a una trentina di metri, sulla spiaggia era già tutto pronto ad accogliere la salma di Lino. Lo stesero sulla sabbia, sopra un telo cerato blu. La bestemmia della Miglia fu un grugnito di dolore. Poi si inginocchiò accanto a lui, gli accarezzò i capelli bianchi e si voltò verso il mare mentre gli uomini risalivano la spiaggia portando la salma a braccia, su verso la chiesa.
Non c’era nulla di solenne in quel funerale improvvisato, eppure a Zippo parve di assistere alle esequie di un condottiero vichingo morto in battaglia. C’era qualcosa di magico nel corteo funebre che si era formato in pochi attimi. Nonostante fosse mattina presto, metà degli abitanti del borgo era lì, accanto a Lino. Zippo guardò la Miglia che guardava il mare. Quel mare che ogni giorno le dava da vivere oggi le aveva tolto ciò che aveva di più caro, come a voler ripristinare un equilibrio. Zippo pensò che alla fine i conti della vita finiscono sempre in pareggio. Allora era poco più di un bambino. Di lì a quarant’anni avrebbe capito che non è così.
La morte di Lino lo aveva fatto fantasticare sulla sua. Sì, gli sarebbe piaciuto morire in mare, in quel pezzo di mare di fronte alla minuscola baia del Buonvento, dove era nato. E magari essere steso, anche lui, su quella spiaggia che sentiva casa sua. Avrebbe voluto morire giovane perché gli sembrava più eroico. Invece stava facendo la fine del topo, a quarantotto anni, in una casa che stava per essere inghiottita dalle onde, come il resto del villaggio. Eppure anche questo pensiero non turbava la sua quiete. Sapeva che ormai nessuno avrebbe potuto salvarlo. Né Cisco che dall’alto della scogliera lo pregava di fare un ultimo sforzo per abbandonare la casa, né quell’elicottero dei vigili del fuoco che sentiva volare sopra la sua testa. E tutto sommato era giusto così. Quando il mare volle difendere il villaggio mandò una piovra a scacciare i pirati. Ora la piovra stava sonnecchiando negli abissi. Assecondava un disegno. E Zippo si sentiva parte di quel disegno. Moriva con il suo piccolo mondo, annusando l’aria carica di salino e ascoltando il fragore delle onde contro la roccia. Poteva accontentarsi.
Gli venne in mente il Vecchio. Spuntava solo nei giorni di Ferragosto arrivando chissà da dove. Alto, magrissimo, i capelli bianchi, radi e lunghi sulle spalle, scendeva caracollando dalla stradina che portava all’unica spiaggia della baia che era anche quella frequentata dai bagnanti di Nardino e da qualche turista. Era un uomo consumato dalla vita, una specie di spettro che si reggeva in piedi per scommessa su quelle gambe da fenicottero, la schiena ingobbita, le mani deformate dall’artrosi. Poteva avere settant’anni, ma anche tre volte di più. Per Zippo e gli amici, ancora ragazzini, era una creatura di un altro mondo. Appariva dal nulla e nel nulla spariva nello spazio di poche decine di minuti. A piedi scalzi, con una canottiera bianca sudicia addosso e una sorta di pareo dello stesso colore che gli copriva a malapena le vergogne, il Vecchio raggiungeva faticosamente la spiaggia. Se il mare era agitato, scendeva al tramonto e inscenava uno strano riturale. Si piazzava in piedi, con le gambe appena divaricate, dieci passi indietro rispetto al punto in cui picchiava l’onda. Lo sguardo fisso sul mare come a volerne sfidare la furia, come un domatore di fronte alle fauci del leone. Zippo e gli altri stavano lì, in silenzio, a guardarlo. Incantati. A un tratto il Vecchio cominciava a mulinare le braccia, lentamente, per qualche secondo, per poi tenderle in avanti e fermarsi con i palmi delle mani rivolti verso il mare. Stava in quella posizione, immobile, dieci-quindici minuti, recitando a mezza voce una litania incomprensibile, un ululato con vocali strascicate. E il vento magicamente calava, cambiava direzione, le onde si allungavano. Tornava la quiete. Lo chiamavano il custode delle onde. Aveva chiaramente il cervello “fritto”. Qualcuno provò a rivolgergli la parola ma si arrese di fronte a un nugolo di frasi sussurrate senza senso, pronunciate con lo sguardo perso nel vuoto, come se traesse ispirazione chissà da dove. Dicono fosse un ingegnere meccanico che a ventitré anni, appena laureato, partì per una vacanza in Australia. Qui entrò in contatto con una comunità di aborigeni che lo iniziarono ai piaceri delle piante allucinogene. In breve non ne poté più fare a meno. Visse nove anni in quello stato di torpore in un villaggio nei pressi di Alice Springs. Lo andò a recuperare suo fratello, grazie alla segnalazione di un fotoreporter inglese che lo aveva trovato a strisciare sulla sabbia come un serpente.
Nelle placide giornate di agosto, quando il mare era una tavola, allora il Vecchio scendeva sulla spiaggia reggendo tra le braccia scheletriche una pietra di mare pesante quanto lui, alla quale era fissata una corda spessa un dito. Senza dire una parola si fermava sul bagnasciuga, posava la pietra, si legava al collo l’altro capo della corda, poi dopo aver ripreso tra le braccia il suo fardello scendeva lentamente in mare. Passo dopo passo come un condannato verso il patibolo, si immergeva fino alle spalle. A quel punto le braccia lasciavano cadere la pietra sul fondo e questa, con uno strattone, trascinava dietro il Vecchio che spariva inghiottito dalle acque, fra gli sguardi sbigottiti dei bagnanti. Era la sua esibizione. Quel mucchio di ossa riusciva a rimanere in apnea quattro minuti. Zippo lo ricordava bene perché il divertimento dei bambini sulla spiaggia era contare ad alta voce. E salutare con un applauso la riemersione. Il Vecchio schizzava fuori dall’acqua fino alla cintola con un vigore inaspettato. La bocca spalancata alla disperata ricerca di ossigeno, i capelli schiacciati sul volto. Si sdraiava per qualche minuto ansimante nella risacca, mentre i bagnanti lo circondavano più impietositi che ammirati dall’impresa, poi tirando la corda recuperava la sua pietra e con la mano tesa, sempre senza proferire parola, chiedeva un obolo che infilava in una piccola borsa di cuoio nero che aveva lasciato sulla spiaggia prima di immergersi. Finito il lavoro, con la canottiera e il pareo appiccicati alla pelle ancora bagnata, si arrampicava su per il sentiero e spariva oltre la scogliera. Per quattro anni di seguito tornò ad esibirsi nella baia, con una sofferenza fisica sempre maggiore e ben visibile.
L’ultima volta resistette sott’acqua solo 3 minuti, si trascinò a riva ansimando come un mantice e gli ci volle una buona mezz’ora per ritrovare la forza di rialzarsi. Non chiese denaro, nel rispetto di una specie di patto non scritto con il suo pubblico: una sorta di “soddisfatti o rimborsati”. Aveva fallito la prova. Lo sapeva, nonostante il solito applauso generoso dei bambini. Ed era giusto, per lui, non pretendere nulla. Non lo videro mai più. Nella baia si era sparsa la voce che avesse trovato palcoscenici più prestigiosi, come la grande spiaggia bianca che in estate veniva presa d’assalto da un migliaio di bagnanti. Il suo trascinarsi verso il mare con la pietra in grembo era diventato sempre più penoso. Un calvario. Un giorno, raccontarono a Zippo e Cisco che, allo stremo delle forze, il Vecchio inginocchiato sul fondo non riuscì a sfilarsi il cappio dal collo. Quando qualcuno dalla spiaggia se ne accorse, era già passati dieci minuti. Lo stesero sulla sabbia coperto da un telo bianco in attesa che qualcuno venisse a prenderselo. Il carro funebre arrivò un’ora dopo e dovette farsi largo tra i bambini che giocavano con secchielli e palette intorno al cadavere del custode delle onde.
Quelli erano giorni gloriosi per la baia. I turisti arrivavano da lontano per visitarla. Tutto l’anno. Ma da aprile a ottobre era un vero assalto che il Comune di Nardino regolamentò con il “numero chiuso”: non più di trenta visitatori alla volta, dalle 10 alle 18; e visite di un’ora con l’accompagnatore. Fu costruito persino un grande ascensore che dal belvedere di Nardino scendeva per settanta metri lungo la montagna, trasportando dieci persone per volta. Zippo allora aveva quindici anni. Aveva assistito ai lavori con un senso di rabbia e impotenza, poi si era esaltato quando la Miglia e i suoi pescatori avevano bloccato i lavori occupando il cantiere giorno e notte. Gli operai, spaventati, sparirono per un mese, salvo poi ripresentarsi scortati dai carabinieri. Angelo, Magin e Rino furono trascinati via a braccia e denunciati per resistenza alla forza pubblica. Ma il sindaco Dino Caprazoppa capì che bisognava dare in cambio qualcosa a quella gente, non fosse altro per evitare altri incidenti che avrebbero fatto una pessima pubblicità all’amministrazione comunale. La rivolta dei pescatori contro l’ascensore era finita persino sulla stampa nazionale e in televisione.
In consiglio comunale l’opposizione l’aveva usata come un’arma: «Sindaco, lei è il carnefice della baia e della sua gente. Quell’ascensore piantato nel cuore della montagna è un oltraggio al buonsenso oltre che alla natura. La sua ansia di sfruttare commercialmente quell’angolo di paradiso ne decreterà la morte». Naturalmente ai consiglieri d’opposizione non interessava nulla del futuro della baia del Buonvento, altrimenti si sarebbero preoccupati del ben più grave progressivo sgretolamento della montagna e dei danni provocati dalle mareggiate. Ma a meno di due anni dal voto, quello era un formidabile argomento elettorale. In un Comune tradizionalmente in bilico tra il voto “bianco” democristiano e il voto “rosso” comunista, i centottantotto elettori della baia potevano essere decisivi.
Caprazoppa fece i suoi conti e decise di finanziare con denaro pubblico la tinteggiatura di tutte le facciate delle case del borgo, recuperando i colori tradizionali ormai cancellati dal tempo. Scese al villaggio a piedi, accompagnato da un paio di notabili del partito, quindici giorni prima del voto. A settant’anni suonati scendere per quella scala scavata nella roccia gli parve un’ingiusta penitenza. Ogni gradino era una fitta alla schiena, ma d’altra parte, utilizzare l’ascensore sarebbe apparsa una provocazione. E gli avversari politici non aspettavano altro. Si fermò tre volte lungo il percorso. Quando arrivò al bar di Elio, ad attenderlo erano in quattro: Zippo, Elio, il Killer (un ex benzinaio alcolizzato), e Magin, un ragazzotto di ventidue anni con la forza di un toro e il cervello di una sardina, che la Miglia utilizzava per spaventare il “nemico”. Caprazoppa chiese di lei, consapevole dell’ascendente che quella donna aveva sugli abitanti della baia. «Sta cucendo le reti» rispose Magin con il tono di chi non ammette repliche. «E tutti gli altri?» chiese il sindaco. «Sono stati avvertiti» allargò le braccia Elio, accompagnando il gesto a un sorriso beffardo. «Zitto, il nemico ti ascolta!» disse il Killer, attingendo a caso al suo vocabolario di frasi senza senso. Il sindaco lanciò uno sguardo smarrito ai suoi accompagnatori. Aspettarono ancora una ventina di minuti gli eventuali ritardatari, sorseggiando vino accompagnato da gustose olive nere. Non si presentò nessuno. Allora si sedettero intorno a un tavolo, tutti meno il Killer che se ne stava appoggiato con il gomito al bancone e da dietro gli occhiali scuri scrutava minaccioso i due funzionari comunali. Il sindaco tirò fuori dalla borsa la delibera con l’impegno di spesa e illustrò il progetto. «Questo è il nostro regalo a un borgo meraviglioso – sottolineò Caprazoppa – Avete domande da fare?». Seguì un silenzio che alla delegazione del Comune parve interminabile. Magin sputò nel bicchiere vuoto un nocciolo d’oliva e alzandosi grugnì: «A me quel giallo non piace». «Sui colori si può ancora..». Il sindaco non fece in tempo a concludere la frase, che Magin sentenziò con tono solenne: «Casa mia resta com’è». Elio versò altro vino nei bicchieri, nel tentativo di allentare la tensione. «Alla salute» esclamò il sindaco” con l’occhio spento di chi già sa di aver fallito la missione. «Alla Baia» rispose Elio. Caprazoppa perse le elezioni per un pugno di voti e le case non furono tinteggiate.
Il nuovo sindaco, che aveva messo in croce Caprazoppa per la faccenda dell’ascensore, non solo non lo fermò, ma estese di un’ora l’orario delle visite dei turisti. Giovane e ambizioso, Guido Federici non si pose neppure per un attimo il problema di tutelare la baia: i turisti attratti dal suo fascino erano la fortuna dei ristoranti di Nardino. E la famiglia di Federici ne possedeva tre. L’abile campagna promozionale del sindaco varcò anche i confini nazionali. Il “Villaggio che scompare” fu oggetto di un reportage su una rivista di turismo tedesca. E i crucchi non si fecero attendere. Ci volle un giornalista tedesco per sbattere in faccia all’opinione pubblica i dati di una catastrofe che si stava consumando anno dopo anno. Arrivò un venerdì di giugno, accompagnato da un fotografo di origini italiane che gli faceva da interprete. Si fermò tutta la mattina nel borgo intervistando la gente, poi salì a Nardino per ascoltare il sindaco e alcuni esperti che avevano studiato il movimento della montagna e l’azione erosiva del mare. Una settimana dopo la rivista girava di mano in mano. Fu Berto a portarla nel bar di Elio. «Guarda qui, i tedeschi ci hanno già organizzato il funerale». “Il paradiso condannato” era il titolo del reportage: quattro pagine dedicate alla baia del Buonvento e al suo villaggio di pescatori “appeso alla montagna e affacciato a un mare verde smeraldo”. Un villaggio che si stava lentamente svuotando, come dimostrava un grafico. Negli ultimi vent’anni i residenti erano scesi da 396 a 243, il 70 per cento dei quali sopra i cinquant’anni. I giovani non erano più di una ventina, tutti gli altri, raggiunta la maggiore età, avevano “scalato” definitivamente la montagna. Una fuga inarrestabile. Nel frattempo avevano chiuso una trattoria, un piccolo albergo di otto camere, un negozio di alimentari e si era assottigliata anche la flotta della Miglia. Da nove i gozzi erano scesi a cinque e la Miglia aveva dovuto via via ridurre il numero di pescatori alle dipendenze dalla sua piccola azienda. Ne erano rimasti dodici.
Ma le notizie peggiori erano altre. Negli ultimi cinquant’anni quella dannata roccia a picco sulla baia, tempesta dopo tempesta, scossa dopo scossa, era scivolata verso il mare di mezzo metro. Dell’unica spiaggia, una volta profonda quaranta metri, ne rimaneva una striscia appena sufficiente a mettere in secca le barche. Il giornalista metteva inoltre in evidenza che non esisteva alcun progetto concreto per salvare il villaggio. Sembrava che tutti fossero rassegnati alla sua scomparsa. Tutti, meno chi ci viveva. E tra questi Zippo.
La prima volta che cercò di ribellarsi al destino del villaggio aveva sedici anni e l’ultima mareggiata si era appena portata via la baracca dove Lucia educava lui e i suoi amici ai piaceri della carne. Una volta alla settimana, la domenica, dopo la messa. Avevano cominciato mettendosi in fila per un bacio con la lingua, poi le pretese erano cresciute e Lucia non si tirava indietro.
Zippo irruppe nel bar di Elio, anch’esso ormai destinato a finire nello stomaco immenso del mare. «Fai qualcosa, facciamo qualcosa tutti insieme. Stiamo affondando. Guardate là fuori, la baracca non c’è più e presto non ci sarà più neppure questa topaia». Elio tracannò un bicchiere di rosso senza proferire parola. Aveva fatto un conto: il mare saliva, o meglio, il villaggio scivolava dalla montagna, dieci-venti centimetri l’anno; dunque, il suo bar aveva ancora almeno vent’anni di vita: giusto il tempo che si era dato prima di abbandonare la baia e finire i suoi giorni in qualche ricovero. Insomma, Elio non si dava pena. Men che meno il Killer. A lui l’alcol aveva da tempo bruciato il cervello e tolto qualsiasi preoccupazione. Nelle sue fantasie era un poliziotto spietato, una sorta di guardiano della giustizia dal grilletto facile. Ma non avrebbe fatto male a una mosca e la pistola che ogni tanto faceva occhieggiare dalla tasca del giaccone grigio sdrucito, era un giocattolo per giunta di pessima qualità. Il Killer, con il gomito appoggiato al bancone, stile cowboy, ascoltò lo sfogo di Zippo ciondolando la testa appena più grossa degli occhiali scuri che gli coprivano giorno e notte il volto, poi cominciò a mulinare il braccio sinistro nell’aria come a volerla fare a fette. Aveva capito che quel ragazzino aveva segnalato il pericolo, ma faticava a comprendere quale fosse il nemico. «Se quello viene qui io LO TAGLIO!», disse, accentuando l’ultima parola e simulando con la mano una lama. Era la sua frase. La pronunciava quando si sentiva sotto pressione, braccato dalle migliaia di fantasmi che vedeva intorno a sé. Toni, un omino alto un metro e cinquanta con le braccia del lottatore, la testa completamente pelata e le dita gialle di nicotina, sputò invece la sua sentenza: «Siamo condannati ragazzo. Mettiti il cuore in pace». Aveva ragione lui, ma quella frase pronunciata con un mezzo sorriso sulle labbra ebbe su Zippo l’effetto di uno schiaffo. Il ragazzo non poteva accettare il concetto della resa. Avesse seguito l’istinto avrebbe spaccato a Toni una bottiglia sulla testa. Ma si trattenne. Uscì dal bar e si arrampicò verso la chiesa.
Don Giulio non era solo. Con un lieve cenno della mano chiese a Clara, la sua compagna, di allontanarsi e si rivolse a Zippo: «So cosa vuoi dirmi. Che il tuo mondo, che il nostro mondo sta sparendo, ingoiato dal mare. Ed io ti rispondo: facciamo le valigie e scaliamo questa benedetta montagna. Saliamo lassù, al sicuro. Non è un segnale di resa, Zippo. E’ la scelta della ragione. Qui per voi giovani non c’è futuro».
Don Giulio aveva trent’anni. La Chiesa lo aveva spedito in quel minuscolo paese di pescatori per punizione. Si innamorava di tutto, come un bambino. Soprattutto delle donne. E quando il suo parroco intercettò la lettera che il giovane sacerdote aveva scritto a una catechista, si aprirono le porte dell’inferno. Che di lì a sei mesi si materializzò nella chiesetta di San Giorgio, aggrappata alla montagna e frequentata da non più di venti devoti. Don Giulio si ambientò in fretta. I suoi occhi scuri, penetranti, e i suoi modi gentili conquistarono Clara, sua coetanea che fino a quel giorno aveva sacrificato la vita accanto all’anziana madre invalida. Naturalmente tutto il paese sapeva. Ma per quella gente abituata a combattere con la montagna e il mare, imbastardita dal sangue dei pirati e dimenticata da Dio, la relazione tra il prete e la giovane donna era un raggio di luce.
«Don Giulio, tu conosci la gente che conta lassù – gli disse Zippo – conosci i politici, sai come prenderli. Devi convincerli a fare qualcosa per noi». Il prete tacque e si congedò con un sorriso. Zippo pensò che ormai don Giulio avesse deciso di abbandonare quel posto per rifarsi una vita con Clara. Lontano. Ma si sbagliava.
Il prete rubacuori salì più volte la scogliera nei mesi successivi. Bussò alla porta del sindaco, dell’onorevole, del vescovo, del vice prefetto (perché il prefetto aveva cose più importanti di cui occuparsi). Documentò l’erosione del mare con fotografie sue e di altri anziani del villaggio. Scaricò sulla scrivania del sindaco una cartellina piena di ritagli di giornale. Gli articoli scandivano anno dopo anno i tempi della tragedia imminente. Tirò fuori dal portafogli un ritaglio di giornale che gli aveva affidato come una reliquia, Dario, lo storico della baia. Era di otto anni prima. Un geologo spiegava che senza imponenti opere a protezione della scogliera il mare l’avrebbe sbriciolata nel giro di venti-trent’anni, inghiottendo il villaggio. Il geologo svelava anche il mistero delle mareggiate che colpivano con sempre maggiore violenza: «La causa è il nuovo molo frangiflutti del porto, laggiù oltre il promontorio. Ha modificato il giro delle correnti…». La Miglia dava una spiegazione più suggestiva: «Quei bastardi hanno riempito di cemento la tana della piovra e lei si vendica alzando queste onde. E un giorno rivedremo i suoi tentacoli». Miglia non ci credeva, ma ci sperava. Sognava che un giorno la piovra tornasse a portarsi via tutto. A fare piazza pulita di un mondo che in fondo sopravviveva contro il volere di tutti. E che forse non aveva più senso.
Il sindaco Federici, per rispetto del vescovo che lo aveva aiutato in campagna elettorale l’anno precedente, ascoltò don Giulio per una buona mezz’ora. Fece perfino finta di leggere con interesse l’intervista al geologo. Infine promise solenne: «Mi interesserò della questione. Serve, innanzitutto, una perizia più aggiornata». «Mi permetta, sindaco: e poi denaro, tanto, per mettere in sicurezza il villaggio», l’interruppe il sacerdote. «Eh, caro don Giulio, questo è il problema più grosso. Ma facciamo un passo alla volta».
Il ricordo della visita del geologo mandato dal Comune riaffiorò nella mente di Zippo mentre sentiva gridare la montagna come un gigante colpito a morte e l’acqua nella stanza lo aveva ormai raggiunto alla cintola. Zippo stava aggrappato alla maniglia della porta, in piedi, con le ultime forze che gli rimanevano. Trascinata dall’acqua gli passò accanto la fotografia di quel 27 luglio. Si erano fatti immortalare lui, don Giulio, Clara, Dario, Cisco, Lucia, Elio, Toni, Bruno, Livio e il Killer. Tutti accanto al dottor Covelli, geologo, docente universitario, gran bevitore di grappa. Sullo sfondo, il mare.
Covelli era stato tre giorni sulla montagna, accompagnato da due giovani studenti svogliati. Lui no. Prendeva sul serio il lavoro. Osservava la montagna, in silenzio, e i vetrini che aveva lasciato otto anni prima un suo collega in alcuni punti della scogliera per spiarne i movimenti. Ne erano rimasti una mezza dozzina. Tutti spezzati.
Ascoltava la montagna, come fa il medico con i bronchi del paziente. Poi scendeva giù verso il mare, seguito dai suoi collaboratori. Prendeva misure. Scuoteva spesso la testa, ma ancora più spesso tracannava grappa dalla boraccia che aveva appesa al collo, nascosta sotto una lunga barba bianca. A metà pomeriggio del terzo giorno, dopo aver riempito un taccuino di appunti, fece una cosa assolutamente anomala per un professionista. Chiese a don Giulio di convocare per la sera tutto il villaggio nel bar di Elio. Offrì da bere dandosi da fare più di ogni altro. I bicchierini di grappa entravano ed uscivano dalla sua barba come in un gioco di magia, accompagnati da sorrisi e pacche sulle spalle. Sembrava una festa. Ma quando il geologo chiese ad alta voce qualche minuto d’attenzione, l’atmosfera mutò improvvisamente. «Vivete in un posto bellissimo – esordì Covelli, stringendo gli occhi sotto le folte sopracciglia, come a voler mettere a fuoco qualcosa -. In tre giorni me ne sono innamorato. Ma questa montagna ha ormai perso la sua battaglia con il mare. Sta franando, inesorabilmente. Non so dirvi quanto reggerà ancora. Però è tempo che pensiate seriamente a lasciare le case, a trasferirvi altrove». Dal mormorio si levò la voce stridula della Miglia. Con le braccia sui fianchi e indosso un grembiule di tela cerata macchiato dalle viscere dei pesci puliti con cura per essere venduti su in paese, la donna protestò: «La nostra vita e qui. E il vostro dovere è salvare questo posto, altro che balle! Se ne torni da dove è arrivato e dica al sindaco di scendere quaggiù, se ne ha il coraggio, a spiegarci perché siamo stati abbandonati». Quelle parole ebbero l’effetto di una miccia sulle trenta persone accorse ad ascoltare il geologo. Cominciarono ad imprecare contro «quelli che vivono sopra la montagna e si ricordano della baia solo quando arrivano i turisti a curiosare e a portare loro i soldi». Il Killer iniziò la sua danza gridando «ti taglio….ti taglio!». Alfio era furibondo. Il pescatore della Miglia batté i pugni sul tavolo per richiamare l’attenzione mentre Covelli si era lasciato cadere sulla sedia con le braccia larghe e un sorriso amaro sulle labbra. «Non ricordo nemmeno più le volte che abbiamo occupato il municipio per essere ascoltati – ringhiò Alfio, in piedi, con il corpo proteso in avanti e le mani che stritolavano lo schienale di una sedia -. Siamo gente di mare e abbiamo spiegato che l’unico modo per salvare il villaggio era erigere delle barriere frangiflutti, per frenare l’impeto delle onde. Ce le promisero la prima volta quindici anni fa, poi ad ogni campagna elettorale. Ed ora lei ci dice che è troppo tardi…». Zippo osservava il geologo. Covelli aveva mandato giù, uno dietro l’altro, tre cicchetti di grappa, quindi aveva cominciato a strofinarsi la barba guardando dritto negli occhi Alfio. Non provò neppure a placare gli animi. Lasciò che la rabbia della gente si sfogasse in quel crescendo di rivendicazioni e insulti. Fu Elio, dal bancone del bar, a chiedere una tregua. Covelli approfittò dell’attimo di silenzio per rialzarsi. «Se io torno lassù con i risultati veri della perizia, sgombrano il villaggio del giro di un mese, per ragioni di sicurezza. Non lo farò, per consentirvi di maturare con più calma quella che però è l’unica scelta possibile: andarvene. Il costone di roccia che sta franando ha la cubatura di due palazzi di sei piani. Non c’è più modo di “contenerlo”. Mi spiace ma il vostro mondo si sta inabissando». Zippo quel giorno festeggiava i diciotto anni. Dopo Covelli non vide più alcun geologo affacciarsi alla baia del Buonvento. E la roccia tenne duro ancora a lungo.
Don Giulio rinunciò presto a risalire la montagna, per trovarsi una parrocchia più comoda per sé e per Clara. Al vescovo era arrivata la voce della relazione del giovane sacerdote. Non si preoccupò neppure di verificarne la fondatezza. Semplicemente, si dimenticò della chiesetta di San Giorgio, non prima di averla ripulita dei pochi oggetti di pregio che Clara custodiva con amorevole cura. Quattro operai si presentarono una mattina di settembre con una lettera firmata dal monsignore, che li autorizzava a portare via quasi tutto. Gli oggetti erano scrupolosamente elencati nella missiva, con tanto di numero di inventario. Riempirono tre casse sotto lo sguardo di don Giulio che li pregava di usare la massima attenzione, «perché quelle sono cose preziose e delicate». Clara osservava la scena dall’alto. Era salita in paese a comprare medicine per il cuore malandato di Vito, l’anziano commendatore che a ottant’anni, rimasto solo al mondo, aveva scelto di tornare nel luogo della sua infanzia. Vide gli uomini agganciare le casse alla carrucola che le avrebbe sollevate fino alla piazzola in cima alla scogliera. Vide don Giulio richiudere la porta della sacrestia. E capì che quello era il benservito del vescovo al prete peccatore. Dieci minuti dopo Clara era di fronte al suo uomo. «E’ una giornata bellissima – disse lui – Oggi tiriamo fuori il tavolo e mangiamo qui fuori».
Ora l’elicottero era proprio sopra la sua testa. Zippo lo vedeva dallo squarcio che si era aperto nel tetto. Dondolava pericolosamente nella bufera. Tentò qualche attimo di resistere alle folate, poi come un gabbiano che asseconda la direzione del vento virò verso la montagna e sparì. Zippo era di nuovo solo, come voleva. Il livello dell’acqua era sempre più alto nella cucina. Si aggrappò allo stipite della porta per non essere trascinato via da un’onda che penetrando dalla finestra rimbalzò contro la parete, lo colpì con la forza di un pugno e lo inghiottì per interminabili secondi. Riemerse allo stremo, attingendo all’ultima risorsa d’ossigeno che gli era rimasta nei polmoni. Non si era mai sentito così vicino alla morte, anche se l’aveva vista tante volte nel borgo, ma era la morte degli altri. Quella di Mara gli si parò di fronte agli occhi come se fosse stata l’onda a sollevarla dal fondo del mare, dal buio dove era nascosta ormai da decenni e a scaraventarla fuori, alla luce del sole, come uno di quegli incubi orribili che l’inconscio si diverte a rimettere in scena nei sogni notturni. Rivide Ettore muoversi goffamente lungo il vicolo della Marina, quello che portava alla spiaggia dei pescatori. Scendeva al mattino presto con il solito sacchetto bianco che la Miglia gli avrebbe riempito di sardine. Era la sua mansione quotidiana e la svolgeva con puntiglio. Sceglieva le sardine una ad una, scuotendo la testa se quella che il pescatore gli stava infilando nel sacchetto non era delle dimensioni a lui gradite: né troppo grosse, né troppo piccole. Non parlava, si esprimeva con versi che solo i suoi genitori sapevano comprendere. A dodici mesi aveva subito un trauma cerebrale che lo aveva ridotto in quelle condizioni. Era invalido al 100 per cento. Un ragazzone di 140 chili, alto quasi un metro e novanta, con le braccia come due tronchi di quercia, inadatto a qualsiasi lavoro, eppure forte e resistente come un toro. Il padre, Luigi, falegname, lo utilizzava nel suo piccolo laboratorio, per i lavori più pesanti che Ettore eseguiva canticchiando melodie che lui solo conosceva. Aveva la voce sottile di un bambino, intonata, persino melodica. Un altro scherzo che la natura gli aveva giocato. Quando scendeva, giù verso la spiaggia, si faceva annunciare proprio dai suoi gorgheggi, per poi apparire con l’incedere di un gorilla. Non aveva amici Ettore. Li cercava, a modo suo, con esibizioni di forza. Lanciando enormi macigni in mare di fronte agli sguardi esterrefatti di Zippo e gli altri che poi si divertiva a mettere in fuga con una gragnuola di sassi. Era potenzialmente il pazzo più pericoloso del mondo, ma non aveva mai fatto male a nessuno. Aveva compiuto ventidue anni quella tiepida sera di giugno. Zippo e gli amici se ne stavano seduti sul muretto di pietra di fronte al bar di Elio. Sulla porta il Killer in posa plastica da cacciatore di taglie. Le due mani strette intorno al calcio di una pistola immaginaria, le gambe divaricate a cercare l’equilibrio giusto prima di premere il grilletto. Sparava ai suoi fantasmi, come sempre. Dentro al bar quattro avventori poco più sobri di lui giocavano a tarocchi tirandoseli, avendo perso ormai da un pezzo la capacità di distinguere una leccia da una figura. I ragazzi distinsero immediatamente il passo pesante di Ettore che scendeva dal vicolo. Cisco lanciò uno sguardo interrogativo a Zippo quando capì che il bestione quasi correva sulle pietre. E non cantava. Non era da lui. Sbucò all’improvviso dalla penombra con un sorriso ebete stampato sul volto e un rivolo di bava che gli scendeva dalla bocca e colava sul collo. Ettore stringeva nella mano destra uno strofinaccio da cucina avvolto intorno a qualcosa. Si fermò a tre metri dai ragazzi e alzò il braccio in aria, urlando. Mostrava il suo trofeo avvolto nello straccio. Solo allora Zippo e gli altri si accorsero che un liquido stava lentamente inzuppando la tela bianca. Era il sangue di Mara. Là dentro c’era la sua testa mozzata. Ettore aveva decapitato la madre con un coltello da macellaio. Non c’era una ragione, o forse sì, nella sua mente malata, ma non seppe mai spiegarla. Al processo disse una sola frase: «Mamma non era buona con me». La stessa che aveva ripetuto ai carabinieri il giorno dell’arresto. Poi baciò il padre, stringendolo forte al petto e lasciò l’aula circondato da quattro agenti, intonando una strana cantilena a mezza voce. Di lui non si seppe mai più nulla al villaggio. Il padre, invece, tornò per completare la credenza di ciliegio alla quale stava lavorando con Ettore. Impiegò un paio di settimane fino a che, una mattina, arrivarono in quattro, se la caricarono sulle spalle e la portarono via. E con la credenza se ne andò anche il falegname. Per sempre.
Quell’estate Zippo era partito per il servizio militare. Non capì mai perché, il fatto di essere orfano di padre, non servì ad evitargli di indossare la divisa. A casa lasciava una madre con il fisico ancora sano ma con la psiche logorata da continue crisi depressive. «Non mi sono più ripresa dalla morte di tuo padre», diceva al figlio. Ma a Zippo sembrava di ricordare i suoi pianti fin da bambino. E con il marito forse non c’era mai stato vero amore.
Con Zippo avrebbe dovuto raggiungere la caserma anche Beppe, un ragazzone cresciuto troppo in fretta. A diciotto anni aveva già le sembianze dell’uomo maturo. Anche lui, forse, discendente dei pirati, con quella carnagione olivastra, il naso imponente piantato in mezzo a due occhi grandi e scuri, la barba fitta, il fisico slanciato e muscoloso. Attaccabrighe, violento, ribelle. Si diceva che una delle ragioni per cui il padre un bel giorno abbandonò la famiglia, fosse la paura del figlio che più d’una volta l’aveva picchiato, probabilmente per vendicare il disinteresse dell’uomo per la madre, l’unica che riusciva a tenere testa al figlio, a domarlo, solo con le parole. Di fronte a lei, Beppe si placava.
Il giorno del reclutamento, anziché salire sul treno con Zippo, prese la strada dell’ospedale militare con il braccio sinistro al collo. Frattura scomposta dell’ulna certificò la radiografia. «Ci rivediamo tra novanta giorni» gli disse l’ufficiale medico. Beppe si alzò, lanciò un’occhiata furtiva alle reclute che attendevano pazientemente in coda il loro turno e una volta fuori dalla stanza non riuscì a trattenere un urlo liberatorio. Tornò al villaggio sventolando il foglio del congedo. E lo stropicciò sul volto di Chicco, il suo complice. Il pomeriggio precedente si erano chiusi in cantina. Beppe aveva attirato Chicco con una scusa: «Vieni che diamo un’occhiata al motore della barca. E’ la terza volta che mi lascia in mezzo al mare». Si presentò davanti all’amico con una spranga di ferro in mano. «Vedi questa? Mi devi colpire con tutta la tua forza. Qui». E indicò l’avambraccio che nel frattempo aveva steso sul bancone da lavoro. «Tu sei matto, non ce la farò mai». Beppe si alzò di scatto agguantandolo per i capelli. «Non voglio marcire un anno in una caserma, lo vuoi capire? C’è un tizio su a Nardino che mi offre un lavoro in officina. Tu sei l’unico che può aiutarmi: picchia qui!». Chicco sapeva che non avrebbe potuto tirarsi indietro. Impugnò la spranga e colpì il braccio di Beppe che scaricò il dolore lancinante su una striscia di cuoio che teneva stretta fra i denti. Il colpo non era stato abbastanza forte da spaccare l’osso. Con gli occhi iniettati di sangue Beppe gli fece cenno di provarci ancora. Chicco obbedì un’altra volta, tenendo gli occhi chiusi. Poi s’arrese. Beppe piangeva dal dolore. Strappò la spranga dalle mani di Chicco e fece da solo. Un ultimo terribile fendente che spezzò in due l’osso.
Quando, un anno più tardi, Zippo tornò al villaggio, la madre era sempre stesa su letto. Viveva nella penombra di una minuscola stanza con libri sparsi sul pavimento che lei di tanto in tanto raccoglieva per leggerne un paio di pagine e poi lasciarli cadere sul petto, sopraffatta dal sonno o dai suoi pensieri di depressa cronica. Covelli aveva mantenuto la parola data alla gente, dipingendo al sindaco una situazione meno grave di quella che era nella realtà dei fatti. E il sindaco ne approfittò per accantonare un’altra volta qualsiasi progetto per proteggere il villaggio dalle mareggiate.
«Esci di lì Zippo, sta crollando tutto…Testa di cazzo, non puoi morire così». Gridò Cisco con un megafono, dall’alto della scogliera.
I ricordi, in quegli ultimi minuti della sua vita, lo tempestavano con lo stesso impeto delle onde. Ma disordinati, casuali, come fossero scritti su fogli di carta abbandonati al vento. L’elicottero intanto era sparito dal cielo. Cisco aveva smesso di urlare. Zippo era finalmente solo, ma solo davvero. Onde spaventose continuavano ad abbattersi sulla casa. Calcolò: ancora due-tre mazzate e affondiamo. Laggiù, nel buio profondo, oltre la schiuma, lo attendevano la piovra e il Vecchio, il custode delle onde. Si fece il segno della croce e sparì nella pancia del mare, con il resto del villaggio, accompagnato dal fragore di un tuono.