Sua madre fu l’ultima ad accorgersene. Succede sempre così. I ragazzini i segreti se li portano appresso come bagagli con la chiusura a combinazione. Decidono loro quando aprirli e con chi. Le ragazze trascinano bagagli più grandi. Hanno più cose da metterci dentro. Almeno così si dice. I bagagli non sono tutti uguali. C’è chi viaggia leggero, chi invece ha bisogno di aiuto. Su una cosa però tutti sono d’accordo: la serratura dev’essere inattaccabile. Tuttavia pochi pensano che la serratura più robusta sia quella che nessuno ha intenzione di forzare.
Mia: il suo bagaglio conteneva un solo articolo. Uno solo, ma tanto grande da gonfiare l’involucro a dismisura. Anzi, esso sembrava aumentare di volume giorno dopo giorno, come uno sciame d’api in estate. E gonfiava le pareti molli del bagaglio a tal punto che prima o poi lo avrebbe fatto scoppiare. Non c’era serratura, perché su quel bagaglio non serviva. Era come se ci fosse scritto APRITE, SE VOLETE, MA ATTENZIONE: LO FATE A VOSTRO RISCHIO. Mia per questo non aveva amici. Nessuno si preoccupava di aprire il suo bagaglio. Nessuno si chiedeva che cosa ci fosse nascosto dentro. Nemmeno sua madre. Però la guardavano. Quello sì. Perché tutte quelle cicatrici non passavano inosservate. Solo sua madre sembrava non vederle, presa a cercare la sua verità sul fondo di ogni bottiglia che trovava.
Una volta sola qualcuno chiese a Mia delle sue cicatrici. Una professoressa del liceo. E Mia rispose che non aveva importanza: “Se nessuno ha intenzione di entrarti in casa, lasciare la porta d’ingresso aperta o chiusa non fa differenza.”
Lo fece per la prima volta a dodici anni. Non fu un atto volontario, ma solo un caso. E solo per un caso non si fece male sul serio. Divideva una focaccia e si tagliò alla mano sinistra. Un taglio netto tra pollice e indice, profondo e sanguinante. I lembi della carne viva erano sollevati e mia li guardò senza provare paura, né dolore. Restò con la mano in aria, mentre il sangue le colava lungo il braccio fino a inzupparle il maglioncino. Ciò che sentiva era sollievo. Come se qualcuno avesse tolto pressione a una caldaia sul punto di esplodere. E poi calore. Tanto. Era il sangue. La teneva in vita scorrendole dentro. Le riscaldava la pelle quando usciva fuori. Il sangue era l’unica fonte di calore nella vita di Mia.
Mia sanguinò di nuovo quella notte. Fu svegliata dalla mano ferita, avvolta nelle bende. Il sangue pulsava talmente forte da farle provare un dolore insopportabile. Tuttavia si accorse che il dolore non apparteneva alla mano, ma era radicato nella pancia. Forse anche più a fondo, là dove si provano le emozioni più intense. Là dove i sogni si imbevono nelle lacrime. Nella penombra della sua stanza da letto, Mia sollevò la mano e la osservò. Il sangue spingeva per uscire. Si tirò a sedere, strappo le bende, allargò i punti di sutura e liberò il sangue. Lo lasciò scivolare lungo l’avambraccio fino al gomito, e poi sulle lenzuola bianche, una macchia che nella penombra sembrava petrolio. “La mia parte di sangue marcio” sussurrò Mia. Poi si sentì leggera, sollevata come se si fosse tolta un sasso dalla pancia. Si riaddormentò e quella notte riuscì perfino a sognare.
La madre la trovò in una pozza di sangue la mattina dopo. Il medico disse che le erano saltati i punti, tutti, e anche se per lui era una cosa insolita, non svelò il sospetto che la ragazza se li fosse strappati via da sola. Lo tenne per sé. Forse perché non ne era sicuro, forse perché a nessuno sarebbe importato.
Mia si tagliò di nuovo il giorno dopo, a scuola, con un coccio di vetro. Un taglio sul dorso della mano sinistra che non voleva saperne di smettere di sanguinare. Di quel taglio oggi è rimasta una cicatrice sfrangiata. E si tagliò anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Tagli più piccoli, di cui nessuno si accorgeva perché per celarli le bastava tenere in mano un fazzoletto. Ma per lei erano finestre di campagna aperte in una giornata di sole. Ma piccole ferite, corrispondevano a poco sangue. Il primo taglio era stato il più profondo e per quanti piccoli, invisibili, tagli si procurasse, l’appagamento di quella prima volta non era riuscita a riviverlo. Giorno dopo giorno i tagli cominciavano a non bastare più. Bisognava andare un po’ più a fondo. Non le piaceva tagliarsi con il vetro perché non ne aveva il pieno controllo. A volte Mia voleva solo incidere la pelle e il vetro invece penetrava troppo, altre voleva scendere in profondità e otteneva solo di martoriarsi la pelle senza scalfirla. Così Mia provò le lame e scoprì facevano quello che lei voleva. Senza discutere. LA prima volta era stata una sorpresa, un caso. Adesso le lame rispondevano alla sua volontà con precisione: se lei voleva una ferita lunga e superficiale, le bastava fare poca pressione e mantenere dritto il polso. Se invece voleva più sangue, le bastava spingere un po’ di più. Le obbedivano docili e riuscivano a darle un nuovo tipo di piacere: quello consapevole, quello del controllo.
Aveva deciso di non tagliarsi più di giorno perché di giorno è difficile nascondere il sangue. Di giorno il mondo vede con occhi che di notte si chiudono. E Mia, nell’attesa della notte sempre troppo breve, aveva scoperto che con la lettura anche il giorno passava in fretta. Forse, diceva tre sé, un giorno avrebbe cominciato anche a scrivere. Durante la giornata il sangue reclamava la sua attenzione, ma Mia riusciva a tenerlo sotto controllo come un amante troppo focoso ma ancora paziente. Attendere di giorno, liberare la tigre di notte. E così, quando sua madre si addormentava ubriaca sul divano o con la testa sul tavolo di cucina, Mia andava in bagno e si chiudeva a chiave. Per tagliarsi aveva scelto un coltello piccolo ma affilatissimo, con la lama sottile e appena arcuata, il manico d’osso. Ogni taglio era una liberazione, ogni goccia di sangue che stillava dal suo corpo era un nuovo respiro. Sotto le luci al neon, notte dopo notte, Mia incideva nella sua carne la sua vita, mescolando le lacrime a una sensazione che non osava chiamare gioia. Alle volte bastava poco per placare il suo tormento, anche solo una scalfittura. Altre si sarebbe fatta a pezzi. Stava attenta a non farsi tanto male da dover ricorrere a un pronto soccorso, dove avrebbero fatto domande su domande, soprattutto sui tagli vecchi, sulle cicatrici. Le mani e le braccia erano una cartina geografica fatta di linee nette color latte che s’intrecciavano e attorcigliavano ad altre rigonfie e arrossate, che a volte facevano prurito, e ad altre ancora appena rimarginate, che bastava strofinarle perché si rimettessero a sanguinare. In estate, quando la pelle si colorava leggermente, le cicatrici restavano chiare e spiccavano nettamente, quasi volessero confermare la propria identità. A volte si trattava di segni brevi e ripetuti, altre di lunghi tratti che non s’interrompevano mai; alcuni erano profondi, altri lievi, quasi appena accennati. Altri ancora erano larghi e dai bordi sfrangiati, altri invece dritti come se fossero stati disegnati da un geometra. I segni Mia li aveva anche sul collo e sulle gambe, seppur in quantità minore, sulle caviglie e sul polpaccio, qualcuno anche sui piedi. Uno in particolare saliva a spirale dal tallone, abbracciando tutta la caviglia come un tatuaggio tribale, e finiva dietro al ginocchio. Era una cicatrice orribile, ricordo di una telefonata che non sarebbe dovuta arrivare mai, uno stimolo esterno fortissimo e doloroso, che aveva riattivato ricordi che lei credeva ormai spenti per sempre. Non basta seppellire un dolore in fondo alla memoria per cancellarlo, perché prima o poi torna a galla. Come le braci sotto la cenere, che restano vive per giorni. Bisogna affrontarlo e superarlo per essere sicuri di non ritrovarselo davanti nel momento peggiore. Quel giorno Mia fu costretta a tagliarsi di più e più a fondo, piangendo tanto forte da non riuscire a vedere cosa faceva con quel coltello. Era come se, per la prima volta dopo la prima volta, ne avesse perso il controllo. Così sedette sul bordo della vasca, le gambe all’interno, e disegnò quella spirale. Sanguinò per giorni, s’infettò e gonfiò tanto che Mia pensò di doverla mostrare a un dottore. La medicò come poteva, la tenne fasciata, protetta dalla polvere e dagli sguardi dei curiosi e dopo due settimane del taglio era rimasta una crosta che si sarebbe staccata lasciando un rilievo biancastro. Un’altra testimonianza. La peggiore. Ognuno dei tagli aveva un preciso significato, apparteneva a Mia più di qualsiasi oggetto lei possedesse. Quei segni erano Mia. Aveva trasformato il suo corpo pallido in un libro, e un giorno qualcuno ci avrebbe letto tutta la sua vita.
L’ultima telefonata arrivò in uno dei rari pomeriggi in cui Mia era sola in casa. Sua madre era uscita forse per comprarsi da bere, forse per non tornare mai più. Quella telefonata. La seconda in anni di silenzio. La voce era rugosa come Mia la ricordava. Come le mani che avevano cominciato a toccarla fin da piccola. Mia restò rannicchiata sul divano ad ascoltare quella voce che si confondeva tra lusinghe e scuse. “Hai la voce di una donna, ormai. Somiglia sempre di più a quella di tua madre.” E Mia, che non sentiva altro che quelle mani ruvide, da muratore, che di notte troppe volte si erano infilate sotto le lenzuola per toccarla dove nemmeno lei osava farlo, stava in silenzio ad ascoltare. Stava in silenzio pensando al suo unico amico, quel coltello che avrebbe visto volentieri conficcato nel petto di quell’uomo, nel cuore pulsante che aveva dato origine allo stesso sangue che Mia sentiva scorrere dentro di sé. Stesso per metà, una metà cattiva, guasta, che lei cercava di far uscire, di filtrare, di purificare come in un’eterna dialisi. Ma forse non c’era una metà cattiva e nemmeno una metà buona che le faceva da contrappunto. Forse il sangue era marcio del tutto. Poteva farlo uscire fino all’ultima goccia e non sarebbe cambiato nulla, non sarebbe diventata una persona migliore, non sarebbe diventata niente di niente.
Come quella volta della caviglia, Mia sentì il bisogno urgente di tagliarsi proprio mentre suo padre le chiedeva di non rivelare alla mamma che aveva telefonato. Quella povera donna, sua moglie, che lo aveva sorpreso in camera della figlia con le mani sotto le lenzuola, non aveva più voluto saperne e lo aveva denunciato. Scoprendo poi che non era successo una volta sola. L’uomo era finito in galera, la donna aveva ottenuto il divorzio e l’affidamento della bambina. Aveva cominciato a bere. Prima solo al bar, magari con un’amica o due. Poi aveva fatto entrare la bottiglia in casa, da sola, e non l’aveva fatta uscire più.
Mia prese il coltello, mentre suo padre parlava ancora e diceva che avrebbe tanto voluto riabbracciarla. Poggiò la punta fredda alla base del collo e spinse leggermente. Il dolore fu sottile, il calore del sangue che usciva un piacere intenso. Anche l’uomo, dall’altra parte dell’apparecchio, dovette percepirlo, e fraintenderlo forse, perché la voce gli si fece più impastata. Mia pensò, solo per un momento, che quell’uomo non era cambiato. Aveva ragione sua madre a sostenere che certi istinti non muoiono mai.
Poi accadde qualcosa. Qualcosa che nemmeno Mia si aspettava. Il sudore e la tensione fecero sfuggire l’impugnatura dalle sue dita e la lama affondò un po’ più del dovuto. Mia lanciò un grido, senza capire subito se era di piacere o di terrore. Il sangue sgorgò così intenso dalla ferita, che schizzò a bagnare il muro. Non le era mai successo. Mia lasciò cadere la cornetta e il coltello, corse in bagno e si guardò. La lama era entrata troppo e il sangue usciva talmente copioso che in pochi secondi già le aveva inzuppato la maglietta. Si premette una mano sul collo e cominciò a implorare il sangue di smettere di uscire, senza che quello ne volesse sapere. La tigre che fino a quel momento credeva di aver domato, adesso era tornata a essere una belva senza controllo. Mia cominciò a perdere la cognizione dello spazio attorno a sé. La sua immagine riflessa nello specchio si appannò come se qualcuno ci avesse alitato sopra. “Dio no, Dio no, ti prego” balbettò Mia. Dovette aggrapparsi al lavandino per non scivolare sul pavimento, che stava già arrossandosi. “Tipregotipregotiprego”. Mia finì tra il wc e la doccia, rimanendovi incastrata a sedere. Gli occhi aperti, increduli a fissare il sangue che si allargava sulle piastrelle del pavimento riflettevano la luce del neon senza vederla. Ansimava appena, un ultimo barlume di vita. Pensò a sua madre, a come avrebbe reagito al suo rientro. Se fosse rientrata. Sperò che non succedesse. Che anche sua madre si fosse persa per sempre. Pensò al coltello, a quell’assurdo amico che l’aveva tradita nel momento peggiore. E pensò a quell’uomo, suo padre, che stava gridando il nome della figlia nella cornetta del telefono con la disperazione di chi ha capito tutto ma non può fare nulla. Mia sorrise. Non aveva paura, la sua in fondo non era una morte vera. Lei era già morta tanti anni prima, in quella camera che era il suo rifugio, uccisa da chi avrebbe dovuto proteggerla dai mali del mondo. Mia chiuse gli occhi e si consegnò al sonno. Mia. Buffo nome, per una ragazza che non era mai stata di nessuno.