Il frinire delle cicale suonava rabbioso sotto il sole del tardo pomeriggio. La terra si asciugava fino a diventare pallida e secca come la pelle di una vecchia megera, con le spaccature fra le vigne come rughe profonde. Francesco Bianco aveva parcheggiato l’automobile sulla cima del bricco, dove la stradina raggiungeva il colmo e davanti aveva così la riva del surì, il vigneto di Barbera superiore con vasta esposizione a sud, che si distendeva ai suoi piedi come un tappeto dalla trama lineare e precisa. Nel caldo secco e cocente d’Agosto, osservava i Carabinieri muoversi sulla costa ripida con lentezza, come figure animate ma pigre e incerte sul da farsi. Dietro la sua macchina era fermo il Land Rover dell’Arma e a pochi passi da lui, il Maresciallo della stazione di Costigliole che si stava detergendo il sudore dalla fronte. Francesco sospirò infilandosi le mani nelle tasche dell’uniforme della Croce Rossa, gli occhi stretti a due fessure e le labbra serrate a contenere il nervosismo del momento. Annuiva silenzioso guardando il pozzo attorniato dai militari. Il maresciallo si tolse il cappello e si passò una mano sulla pelata; le cicale continuavano il loro canto rumoroso rendendolo a tratti assordante, come a suo modo assordante appariva la luce che sfavillava a occidente, preparandosi al suo commiato dal giorno.
«Riassumiamo?» gli domandò il sottufficiale.
Francesco rispose di sì. «Ho avvisato in sede che stasera non posso andare.» precisò. Osservò ancora gli uomini vicino al mozzicone di cemento che sporgeva dal terreno e lo indicò con un cenno del mento:«Non lo tirano ancora fuori?»
«Sta arrivando il magistrato di turno, solo lui può concedere il permesso di rimozione del corpo.» spiegò il carabiniere.«Allora?» incalzò.
«Niente.» disse subito Francesco. Parlava basso, la voce grave come quando si mormorano le condoglianze a un funerale.« Abbiamo lavorato in vigna fino alle 18:00 poi mi sono sganciato per una doccia e cambiarmi perché stasera dovevo fare servizio per il 118. Avevo lasciato Myrus a finire di riordinare, chiudere il ciabòt e tornare indietro col trattore. Non l’ho visto rientrare e sono tornato qua a vedere se aveva qualche problema…»
«…E non l’ha trovato.»
«No, non l’ho trovato. Era tutto a posto tranne il trattore. L’ho chiamato, mi sono guardato attorno poi mi sono affacciato sul pozzo…»
«Che incidente stupido né?» il maresciallo era piemontese anche lui, una rarità e anche se la sua parlata si era meticciata durante una serie di trasferimenti che gli avevano fatto attraversare tutta Italia, tornando alla regione d’origine, le radici si erano risvegliate soprattutto nell’uso degli intercalari.
Francesco si grattò i riccioli chiari, costernato:« Sœ pàs…»
Il maresciallo mugugnò qualcosa, pescò da una tasca il telefono cellulare e rispose, diede indicazioni su come raggiungere il bricco e chiuse la chiamata.«Sta arrivando il magistrato.» lo informò. Francesco appoggiò le natiche contro l’auto, le spalle ai raggi roventi che sembravano mitragliare le coste dei bricchi circostanti, proiettando ombre lunghe come dita nere.
«Myrus l’avevo salvato io.» disse a un tratto l’uomo. «L’inverno scorso ero volontario al CPSA di Lampedusa, uno spicchio d’inferno affacciato su uno dei tratti più trafficati del Mediterraneo. Un mese. Da gennaio a febbraio. Non era la stagione più propizia perché mare in tempesta e maltempo scoraggiavano molte traversate, ma il traffico dei disperati non si arresta mai del tutto.»
«Era il periodo della Somalia Queen.» notò il sottufficiale. Francesco mosse il capo in un cenno affermativo.
« Myrus era uno dei pochi superstiti della Somalia Queen. Che nome né? A sentirla uno s’immagina una grossa nave, un transatlantico. Qualcosa d’imponente… invece era una delle miriadi di carrette stracolme di deportati a bordo delle quali le condizioni non sono diverse da quelle del trasporto degli schiavi nel diciottesimo secolo. Con la sottile e perfida variante che oggi, gli schiavi sono consenzienti. La Somalia Queen era salpata da Bengasi con rotta verso Malta; da Malta aveva deviato in direzione di Lampedusa e durante quel tragitto si era ribaltata.»
«Quanti morti?»
«Hanno stimato 800 morti. Quasi tutti si pensa.»
Il maresciallo scosse il capo incredulo.« Chi glielo fa fare mi domando?»
Francesco si sporse in avanti. Aveva occhi chiari che spiccavano sul volto abbronzato e i tratti duri, il volto tipico di chi era abituato alla fatica e alle crudeltà della vita. Quel tipo di volto che si ritrovava ancora con frequenza tra i piemontesi di campagna.«Lo pensano in tanti sa? Lo pensano quasi tutti. Lo pensavo anch’io mentre leggevo il giornale sull’aereo che mi portava in Sicilia. Noi non concepiamo tutto qui. C’è la crisi no? Si perde lavoro, si perdono soldi, si perdono speranze di un benessere che davamo per scontato e ci danniamo tra il mutuo, la bolletta del telefono e il wi fi che non è abbastanza potente.» il discorso che Francesco stava facendo suonava famigliare e perfino trito. In altri momenti il maresciallo l’avrebbe interrotto alzando la mano ma c’erano una tensione, un calore nelle parole dell’uomo che aveva davanti che lo frenarono da ogni critica.
« Mangiamo tutti i giorni. Magari male ma mangiamo e dormiamo con un tetto sopra la testa. Mia figlia si è laureata da quasi due anni e cerca lavoro senza esiti significativi dal giorno dopo la tesi. Stage, corsi di formazione, contratti Co.co.co. in pratica finisce col pagare per lavorare e stare zitta. Non vedo un futuro sicuro per lei ma ha la famiglia dietro ed è bella e intelligente e sana. Loro…» indicò di nuovo il pozzo e si rabbuiò.« Loro vengono da un altro pianeta. Sono alieni da un mondo di morte. Fuggono, ovvio. Chi non fuggirebbe dalla morte? Chi non tenterebbe di contrastare fame, sete, malattie e una violenza onnipresente?» calò il silenzio tra i due. Le cicale continuavano a stridere tutt’attorno come il sottofondo di un immenso ed eterno macchinario in funzione. Il sole lanciava i suoi dardi infuocati con sempre più accentuata inclinazione e i monti si stagliavano con le loro siluette scure e frastagliate, spaccando l’orizzonte. Una brezza tiepida e dal vago sentore salmastro soffiava proprio da sud.
«E’ la loro ultima spiaggia.» sentenziò Francesco. «Alle spalle c’è la fine davanti La speranza. Una sola. L’unica. Come l’ultima giocata alla roulette. Lei ha mai giocato al Casinò?» il carabiniere rispose di no.
<«Io sì. Da giovane, una volta sola. Una macchinata con amici. Siamo andati a Saint Vincent con un budget concordato di 250.000 lire e abbiamo perso tutto. L’ultima puntata era la mia, se vincevo avremmo avuto almeno i soldi per pagare il casello, altrimenti ci sarebbe toccato un ritorno tutto attraverso le statali. Per Loro è la stessa cosa. Un’unica puntata, i risparmi di una vita o un indebitamento per il resto dei giorni per quell’unico numero che rappresenta la sopravvivenza. Lei non punterebbe?»
«Credo di sì.»
«Anch’io.»
L’arrivo di una Lancia Delta interruppe la conversazione. L’elegante auto blu si fermò dietro il Rover del Carabinieri e da essa ne scese il magistrato, un uomo di mezz’età, non molto alto, con la giacca in mano e le maniche rimboccate.
«Adesso lo tiriamo fuori.» disse il maresciallo.
Nel frattempo erano anche arrivati i carabinieri del SIS da Torino, il Servizio Investigazioni Scientifiche. Vestivano bianche tute in tyvec e attorniavano il cadavere appena recuperato dal fondo del pozzo. Gli uomini della scientifica si aggiravano come astronauti, prelevando campioni, scattando foto ed eseguendo riprese video di tutta l’area circostante. Il corpo di Myrus era stato coperto con un lenzuolo e giaceva informe vicino al pozzo, incupito dal tramonto. Francesco si era avvicinato a lui accompagnato dal maresciallo e dal magistrato. Un atto dovuto, una fredda proforma lo costringeva a quell’ovvietà. Scopersero il morto e lui si chinò per osservarne il viso. La morte l’aveva reso grigio come cenere e i tratti eleganti dell’eritreo sembravano tirati e stravolti dal trauma definitivo. Francesco si rialzò, rivolgendosi ai due funzionari:«Confermo. E’ Myrus Zenawi, il mio bracciante.»
La sera tiepida aveva spento il sole insistente. Il paese ora sembrava accoccolato sotto un cielo vellutato e le cicale avevano ceduto il testimone dei canti ai grilli.
Si recarono in stazione. Ordinarono caffè e panini al bar vicino e si chiusero nell’ufficio del maresciallo. Il sottufficiale mandò un messaggio alla moglie con il solito testo: “Stasera faccio molto tardi. Non mi aspettare. Baci.”
« Myrus Zenawi, nazionalità etiope, nato ad Adua il 26/04/1971…» il maresciallo leggeva a voce alta i documenti che l’appuntato gli aveva appena consegnato e con quella cantilena che solo l’abitudine sapeva dare. Il magistrato si era seduto leggermente in disparte, aveva accavallato le gambe e appoggiato sul ginocchio un tablet, sopra il quale faceva danzare le dita. Senza staccare gli occhi dallo schermo, si rivolse a Francesco, che aveva appena finito il suo caffè. «Ci parli un po’ di questo Zenawi. Come l’ha conosciuto?»
«L’ho soccorso.»rispose con semplicità Francesco.
«Come dicevo col maresciallo, l’inverno scorso ho fatto un mese di volontariato presso il CPSA di Lampedusa come soccorritore della Croce Rossa…»
«CPSA?» il magistrato aveva sollevato lo sguardo dal tablet, sbattendo le palpebre ingrandite dagli occhiali che gli caratterizzavano il viso.
«Centro di primo soccorso e accoglienza.» specificò Francesco. «La “prima linea” delle emergenze migranti.»
«Capisco.» rispose l’altro, ritornando a concentrarsi sullo schermo. «Prosegua, prego.»
«Mi trovavo a Lampedusa da un paio di settimane. Collaboravo alla registrazione dei dati dei profughi e mantenevo contatti con le altre sedi CRI per la gestione di eventuali ricongiungimenti. Quando la Guardia Costiera usciva per un soccorso, potevo essere imbarcato per coadiuvare gli interventi di primo soccorso di base. Quando un radio operatore della protezione Civile di Agrigento aveva captato l’SOS della Somalia Queen ero proprio a bordo dell’unità della Guardia Costiera che era intervenuta per prima. Una CP 456 per la precisione, conosciuta anche come idroambulanza.»
«Era aggregato all’unità?» domandò il maresciallo mentre scarabocchiava appunti.
«In un certo senso sì. Non era un’aggregazione ufficiale ma dovete capire che la situazione a Lampedusa è sempre critica e certe formalità burocratiche vengono semplicemente ignorate. Il personale è oberato d’impegni. Sull’idroambulanza c’era la necessità di personale di soccorso aggiuntivo ed io, come ogni buon volontario del soccorso della Croce rossa avevo le competenze necessarie. Avevo preso il mio zaino medicale dall’ambulanza, indossato un giubbetto salvagente ed ero saltato a bordo.»
«Così lei ha partecipato al salvataggio della Somalia Queen.» commentò il magistrato. Francesco fece una smorfia come se avesse assaggiato una caramella dal sapore amaro.
«800 morti non si possono considerare come un salvataggio.» affermò Francesco. «Direi di più un fallimento ma questa è una considerazione personale dettata dalla demoralizzazione. Quando siamo arrivati c’era ben poco da fare.»
«C’era mal tempo?» chiese il maresciallo mentre cercava su internet informazioni sull’incidente.
« Conoscete la scala di Beaufort?» ribatté Francesco. Due teste negarono quasi in contemporanea.
«Da definizione è una misura empirica della velocità del vento e si basa sull’osservazione del mare. Certo, oggi si possiedono strumenti che la rendono in teoria superata, ma è ancora molto utilizzata in marineria. Quel giorno secondo i bollettini c’era un mare forza 11, il che equivaleva a una tempesta violenta. Il Fortunale. Secondo la categoria di omologazione standard significa mare molto mosso. Il vento aveva una velocità di circa 60, 63 nodi, che equivalgono a oltre 100 km/h. Si parla di onde alte una dozzina di metri. Salpare in quelle condizioni è stata una scelta coraggiosa e azzardata del comandante. L’idroambulanza era sballottata come un giocattolo. Mai nella mia vita avevo provato una simile sensazione d’impotenza. Eravamo veramente formiche ininfluenti davanti a quel mare terribile. C’era schiuma ovunque, l’acqua sarebbe stata grigia come il ferro se non fosse stato per tutta quella spuma biancastra. Le onde agitavano tutto, anche il cielo. Il vento sollevava spruzzi rendendo la visibilità ridotta. Io me ne stavo seduto in cabina con lo zaino sullo stomaco. La pastiglia contro il mal di mare faceva qualcosa ma non ero al massimo della forma e per dirla tutta avevo una paura tremenda di fare la stessa fine di quei disgraziati. Dalla radio si udivano solo scariche e pigolii. Il timoniere non diceva una parola e il comandante ogni tanto sussurrava solo una parola: “minchia”. In mare l’imperativo è uno solo, la vita e il rischio, per quanto folle, scriteriato e coraggioso rientra in questa priorità. L’equipaggio lo sapeva bene. La scelta era lucida e determinata e nonostante tutto, anch’io lo ero.» fece una pausa, chiedendo un bicchiere d’acqua. Nell’ufficio ronzava l’aria condizionata ma Francesco sentiva caldo lo stesso. Trangugiò il bicchiere che il maresciallo gli aveva passato e sospirò.
«Figuratevi un barotto come me in quel frangente, che il mare era la vacanza ad Alassio e il navigare era prendere il pattino e pedalare da un lato all’altro della spiaggia! Non capivo dove andavamo, la direzione dell’unità. Nulla. Il Fortunale annullava ogni punto di riferimento e il mondo era soltanto un caotico tumulto di acqua e spuma. Terribile.»
«Eravate usciti solo voi?» il magistrato era perplesso, si era sfilato gli occhiali e aveva tirato fuori un fazzoletto dalla giacca per pulirli.
«No, certo che no. Altre unità si erano mosse e un elicottero della Marina Militare volava in tondo sopra il luogo del naufragio. Si potevano distinguere delle luci rosse, vivide e pulsanti in cielo. L’elicottero SAR della Marina militare.» il volontario chiese altra acqua e cambiò posizione. Il rievocare quei ricordi così intensi, stava diventando difficile anche se liberatorio per lui.
«Quando giungemmo sul target, la Somalia Queen era completamente ribaltata. Affiorava a tratti fra i cavalloni schiumanti come il dorso di un grosso cetaceo. Il cielo era basso, pieno di nubi color del piombo. Tutt’attorno era sporco. Chiazze di carburante, stracci, contenitori di plastica e corpi. Figure indistinte con gambe e braccia allargate; la maggior parte dei profughi era annegata ma il mare donava delle movenze innaturali, sbattendo gli arti nell’abbandono totale della morte. Qualcuno era avvinghiato a un bidone, al cadavere di un compagno di tragedia o ancora ai bordi scivolosi del natante. Un paio si sbracciava verso di noi. Galleggiavano come turaccioli di sughero in balia delle onde, su e giù e riuscivamo a vederli grazie solo ai colori fosforescenti dei giubbotti di salvataggio. L’idroambulanza decelerò bruscamente con un grugnito dei motori che invertivano la marcia; quasi persi l’equilibrio e mi rialzai a fatica mentre gli altri uomini dell’equipaggio si fiondavano fuori. Posai lo zaino e mi unii ai soccorsi. L’unità era ferma, solo che le onde la sollevavano e spostavano indifferenti. Si udiva il tonfo sordo provocato dai cadaveri sbattuti contro lo scafo. Un rumore insopportabile. Cominciammo a tirare su ogni corpo a portata di mano. Incredibile come anche un individuo denutrito e scheletrico, inzuppato d’acqua e completamente inerme sembra pesare un quintale. Era faticoso. E angosciante. La prima vittima che mi ritrovai fra le mani era una donna. Probabilmente giovane. Era fredda e rigida, vestita di cenci zuppi marci. Le braccia erano rattrappite in un abbraccio indissolubile attorno al figlioletto. Morto anche lui.» lì Francesco s’interruppe. Deglutì e si deterse una lacrima che gli era timidamente luccicata nell’angolo dell’occhio sinistro.
«Doveva avere tre, quattro mesi al massimo. Un robino così…» fece il gesto con le mani davanti a sé. Guardò sia il maresciallo sia il magistrato osservarlo senza fiatare. L’aria nell’ufficio era diventata densa, spessa e vischiosa e sembrava che ogni movenza potesse distrarre dal suo racconto.
«Non ricordo quanti corpi recuperammo. Altri erano stati caricati dalle nuove unità arrivate. Il primo passeggero vivo che riuscimmo a salvare era proprio Myrus. Il suo giubbotto di salvataggio aveva una maniglia all’altezza della collottola così ero riuscito a prenderlo bene. Aiutato da un agente della Guardia Costiera, l’avevo tirato su senza troppa fatica, anche se ero esausto e le braccia erano doloranti per gli sforzi del raccogliere cadaveri. Era in evidente ipotermia, pallido, tremava senza controllo, sbatteva i denti con un rumore di nacchere raccapricciante e appariva in stato soporoso. Lo trascinammo in cabina, lo spogliammo asciugandolo con degli asciugamani poi lo facemmo stendere in barella, infine lo avviluppai in una metallina, monitorando le sue condizioni. Da quel momento, ero meno disorientato. Sapevo bene quel che c’era da fare.»
«E questo è stato il vostro primo incontro.» annotò il magistrato.
«Esatto. Certo lui non era nel pieno della coscienza. Ho approfondito il rapporto dopo che a Lampedusa era stato ricoverato all’infermeria del CPSA. Molto tempo dopo il soccorso.» Francesco si passò una mano fra i capelli, mosse il collo per farlo schioccare e stirò le gambe. Aveva voglia di camminare ma sembrava preso e inchiodato dal suo stesso racconto.« L’idroambulanza non era una grossa unità. Sedici metri di lunghezza ed era stracarica di morti. Quando attraccammo a Lampedusa, il mare si era calmato ma continuava a soffiare un vento gelido e bagnato e solo mettendo piede sul molo della base cominciai a rendermi conto dell’ecatombe che si era consumata. I corpi erano stati rinchiusi in anonimi bodybags neri, sapete quei sacchi… la banchina ne era piena; Piena dico. File di sacchi oblunghi, ben allineati e in mezzo e attorno tutti questi militari, colleghi della Croce Rossa, personale della Protezione Civile e gruppi di civili che in silenzio osservavano lo scarico di questi poveri cristi. Scaricavamo morti come i camalli di Genova scaricavano merci dalle stive dei mercantili di mezzo mondo.» si fermò di nuovo.
Avrebbe voluto accendersi una sigaretta ma il cartello di divieto in bella vista lo dissuase. Domandò ancora dell’acqua e riprese con voce mesta:«Sapete? Parlavo con un sottufficiale della Marina Militare che aveva partecipato a diverse missioni nei punti caldi del globo e con l’aria da veterano vissuto mi raccontava che alla fine ci si abitua ai morti. Che visto uno, cento o mille, sono sempre pezzi di carne e ossa destinati a marcire. Non so quanti morti abbia visto un capo di prima classe responsabile della logistica, ma ho sempre avuto la sensazione che con me avesse giocato al militare navigato, al duro con una vita di pericoli e avventure alle spalle, che probabilmente è quel che aveva sempre sognato da quando aveva abbandonato il suo paese in provincia di Taranto per entrare in Marina. Sono però sicuro di quel che ho visto e vissuto io e che tanta morte, tanto disperato dolore, inciso nella distruzione di così tante esistenze lascia il segno. Quando ero sceso sul molo della base, avevo trasportato via Myrus facendo un vero e proprio slalom in mezzo ai sacchi che aumentavano di numero a ogni scarico. Ero coperto e imbacuccato con l’uniforme, con guanti di nitrile, maschera sul volto e visiera protettiva davanti agli occhi ma nonostante tutto, quel vago olezzo di pesce marcio che la morte ricorda, lo sentivo sempre, come un alone tossico onnipresente e ossessivo. Il porto, il cielo, il mare. Quel giorno, la realtà che mi circondava sembrava che stesse andando lentamente in cancrena. L’umanità era in cancrena. Capite?»
«Un’esperienza non da tutti.» commentò il maresciallo.
«Tanti dovrebbero provarla. Almeno prima di parlare, di criticare, di sputare.» Francesco ripensò improvvisamente alle tante interminabili trasmissioni, dove diverse demagogie si contrastavano in patetici bracci di ferro, senza mai che la realtà venisse affrontata come sarebbe stato dovere fare.
«Myrus è stato uno dei pochi superstiti quindi.» intervenne il magistrato che aveva sempre gli occhiali in mano e sembrava inchiodato al suo posto, impegnato dal detergere le lenti nel più scrupoloso dei modi.
«Vivi a Lampedusa erano arrivati in due: Myrus e un tunisino che quasi sicuramente era uno degli scafisti.» rispose Francesco.
«Mohammed Abidine.» lesse il magistrato. «Era stato aperto un fascicolo su di lui dalla procura di Agrigento.»
«Non rammentavo il nome.» spiegò Francesco.« Abidine era stato salvato da un’altra motovedetta ed era giunto all’infermeria del CPSA dopo Myrus.»
«Abidine era poi deceduto.» osservò il magistrato inforcando di nuovo gli occhiali e concentrandosi sul suo tablet. «I Carabinieri avevano trovato il corpo due settimane dopo il naufragio della Somalia Queen . Affogato.»
«Affogato?» Francesco fece la domanda con un pizzico di perplessità nella voce stanca.
«Affogato.» ripeté il magistrato.« Legato mani e piedi e infilato a testa in giù nell’acqua, in una caletta non distante il Centro di primo soccorso.»
«Lo ignoravo.» disse Francesco. « Era terminato il mio mandato ed ero rientrato a lavorare nella mia azienda.»
«Di cosa si occupa signor Bianco?» s’informò il magistrato con tono gentile e discorsivo.
«Vino. Faccio vino, dottore. Barbera, barbera superiore, dolcetto. Rossi piemontesi.»
«Curioso come un uomo di terra come lei, sia finito con l’intrecciare la sua vita a una situazione così lontana dal suo modo di vivere.» disse il maresciallo.
Francesco incrociò le braccia sul petto:« Signori se continuiamo a ignorare un problema simile con la vana scusa della distanza, non ne usciremo più. Già adesso noi tutti siamo inconsapevoli complici di un eccidio.»
«Eccidio?» il maresciallo sembrava scettico e il suo interrogativo suonava perfino sarcastico.
«Una stima ottimistica parla di oltre un milione e trecentomila vittime dall’inizio del fenomeno a ora. Alcuni sostengono che la cifra è terribilmente sottostimata perché i naufragi non segnalati sarebbero una percentuale rilevante. Diciamo che per ogni barca rovesciata che si soccorre almeno quattro o cinque, svaniscono nel nulla. Il Mediterraneo è un immenso fegato, raccoglie scorie umane e le consuma. Da allora non riesco più a fare il bagno in mare. Per me sarebbe come sguazzare nel fiele e nel sangue.»
«Va bene ma non stiamo guardando senza far niente. Il governo stanzia fior di milioni per Triton.» ribatté il carabiniere. I discorsi moralisti delle anime belle come Bianco, tendevano a infastidirlo.
Il soccorritore alzò un dito e lo mosse come un pendolo davanti al maresciallo. « Mi permetta ma avendo vissuto direttamente l’esperienza, mi ero informato sulle missioni. Prima avevano stanziato l’operazione Mare Nostrum con un budget di nove milioni e mezzo di euro ogni mese, un superiore impiego di uomini e mezzi e un raggio d’azione esteso fino alle coste libiche. Stima di migranti salvati, circa centosessantamila.»
«Che costo.»
«Ha ragione maresciallo, un costo insostenibile a fronte di una situazione insostenibile e centosessantamila salvati. Una briciola.» continuò Francesco.«Con Triton spese ulteriormente diminuite. Siamo passati dai nove milioni e spingi a meno di tre, una nuova riduzione di uomini e mezzi e un raggio d’azione limitato alle 30 miglia dalle coste italiane. Numero di salvati? Poco più di seimila.»
«Certo. Bisogna anche dire che siamo soli di fronte a questo problema.» considerò il magistrato. Bianco si voltò per osservarlo. « Il problema è che se mi permette la metafora, perchè sono uomo di campagna io, abbiamo un albero malato alle radici e continuiamo a curare la chioma. E lo facciamo da soli perché agli altri interessa meno che meno. Secondo lei perché?»
«Lei cosa pensa?» lo incalzò il magistrato. Bianco si piegò in avanti le grandi mani intrecciate di fronte a sé.
«Il giro d’interessi attorno alla gestione di questa emergenza porta fiumi di denaro. Denaro che intaschiamo noi italiani e non solo ma non chi ci dovrebbe aiutare. Ognuno di quei disperati paga il biglietto d’imbarco da tre ai quattromila euro. Provate a immaginarvi che cosa significa raccogliere una cifra così in paese dove si guadagna meno di un euro per un giorno di lavoro. »
«Lo sappiamo bene Bianco. Le mafie ci stanno facendo affari d’oro.» aggiunse il maresciallo. Si alzò in piedi e passeggiò attorno alla scrivania. Lanciò uno sguardo al magistrato e alla finestra che aveva di fianco. Fuori la notte si era inspessita e le ore si erano avvicendate con rapidità fino al nuovo giorno. «Una rete globalizzata.» disse ancora il carabiniere.« Le nostre mafie si sono inventate il sub appalto della gestione dei clandestini. Gli scafisti pagano una percentuale per avere approdi sicuri e bande di terra forniscono supporto e assistenza. Ormai una delle più importanti centrali di pianificazione dei viaggi non è più Bengasi ma Palermo.»
Francesco annuì, spalancò gli occhi e indicò il maresciallo:« Ecco. Ho cominciato proprio per questo a fare domande.» il magistrato sollevò la testa dal tablet come meravigliato:«Prego?»
«Finito il mio mandato a Lampedusa, avevo fatto il giro a salutare i colleghi e a trovare Myrus. Il ragazzo si era ripreso bene e avevamo fatto amicizia, posso dire. Volevo sapere la sua versione del viaggio. Mi aveva raccontato che era fuggito dall’Etiopia per fame. Pura e semplice fame; che aveva pagato tremila euro il viaggio, passando per il deserto della Mauritania, dove c’era una specie di centrale di smistamento, gestita da alcuni signori della guerra che dopo la caduta dei vari raìs, avevano terreno sgombro per le loro attività. Il corridoio del deserto seminava le prime vittime: incidenti, regolamenti di conti, sete e debilitazione. A Bengasi erano salpati i superstiti e da lì, Myrus mi aveva fatto cenno di un italiano che per radio dava le indicazioni agli scafisti per giungere a destinazione. Era previsto uno scalo tecnico a Malta, sempre grazie alla complicità di un marinaio del posto e poi l’ultimo tratto fino alla Sicilia.»
Il maresciallo era ritornato al suo posto e aveva aperto una mappa della zona compresa tra Lampedusa, Malta e le coste meridionali della Sicilia. « Qualcosa non mi torna.» disse scrutando lo schermo.« Da Malta, dopo lo scalo tecnico perché hanno deviato verso Lampedusa? Non allungavano il tragitto? Con quel mare poi…» girò il monitor e indicò col dito:« Se volevano raggiungere un centro di accoglienza non era più comodo e breve dirigersi a Pozzallo?»
Francesco abbassò gli occhi, se li stropicciò con i pugni, come un bambino assonnato e infine guardò l’ora. «Mi fate fare le ore piccole.» commentò dolente.
Il maresciallo si dimostrò accomodante per un momento:«Ha ragione Bianco.» fece una pausa scrutando il magistrato.«Ma deve capire che è l’unico testimone in questo caso.»
«Caso? Non incidente?» Francesco mostrava ora uno stanco stupore.
«Fino a prova contraria.» aggiunse il magistrato.
«Comunque ha ragione maresciallo.» riprese Bianco. «Ne avevo parlato anche con il comandante dell’idroambulanza, c’era qualcosa di anomalo nella variazione di rotta della Somalia Queen. Andai dall’ufficiale dei carabinieri responsabile della base e chiesi di parlare con il sospetto scafista. Dissi che serviva per appurare i dati di un potenziale ricongiungimento e lui me lo accordò.»
«Con Abidine?» chiese il magistrato.
«Si. Comunque anche il tunisino stava bene. Era detenuto in una camera a parte e rispetto agli altri era un privilegiato. Sembrava spaventato, però quando mi vide, il fatto che ero della Croce Rossa parve rassicurarlo. Gli chiesi del cambio di rotta, se era previsto e perché. All’inizio non voleva rispondere così io bleffai.»
«Un bluff?»
«Proprio così dottore. Gli raccontai che la polizia italiana aveva arrestato il basista siciliano che doveva appoggiare il suo sbarco clandestino e che aveva fatto il suo nome indicandolo come scafista e membro dell’organizzazione di riferimento in Tunisia.»
«Per essere un semplice soccorritore, Bianco si è allargato bene.» osservò il maresciallo con una punta di malizia.
Francesco gli restituì lo sguardo con una freddezza inaspettata. «Era mio dovere morale capire chi erano i responsabili di tutte quelle morti.»
Il magistrato si alzò, mosse alcuni passi verso la porta e chiamò il piantone notturno, chiedendogli altro caffè. «Ne abbiamo bisogno.» commentò sedendosi.« Prosegua signor Bianco, la prego. E’ interessante.»
Francesco sospirò. Chiese di andare alla toilette. Si scaricò nel bagno angusto, si sciacquò il volto con acqua fredda e si scrutò attentamente per alcuni secondi nello specchio sopra il lavandino. Ritornò nell’ufficio, dove bevve il caffè e riprese il posto. Magistrato e carabiniere lo osservavano come in attesa di qualcosa. La seggiola era diventata calda e scomoda.
«Funzionò. Abidine mi parlò così di questo contatto con la Sicilia, del quale conoscevano soltanto le frequenze radio. Le frequenze gli erano state fornite da un marinaio maltese che chiamavano Oliver…
«Oliver Fenech. Membro dell’EVFR che è un corpo di riservisti delle forze armate maltesi. Le autorità dell’isola mi hanno segnalato il suo decesso a causa di non ben identificato incidente di pesca.»
Francesco tacque e si massaggiò una tempia poi parlò di nuovo:« Abidine e Oliver…» mormorò i nomi come se si stesse sforzando di incastrarli a fatica nella giusta casella. «Myrus potrebbe essere rimasto coinvolto in una qualche vendetta?» domandò ai due che aveva di fronte.
«Domanda interessante.» convenne il magistrato. «Lei che ne dice?»
« Mi feci scrivere la frequenza del basista e lasciai Abidine alla sua prigionia dorata. Ora volevo saperne di più. Era stato più forte di me. La sede della Croce Rossa presso il CPSA di Lampedusa era ben attrezzata. C’era un volontario che conoscevo; un ragazzo di Agrigento che gestiva la sala radio e passai da lui per sapere se era possibile risalire alla località di trasmissione di quella frequenza. Mi spiegò che si poteva eseguire attraverso la radiolocalizzazione e una tecnica chiamata Signal strength analysis. Non me ne intendevo ma capii che sfruttava la triangolazione di tre fonti. Mi disse che se riusciva ad agganciare almeno tre segnali, dei quali uno fosse quello corrispondente alle frequenze che gli avevo assegnato, il gioco era fatto. Lo pregai di provare e di farmi sapere appena possibile. Per sdebitarmi gli avrei spedito una cassa del mio barbera superiore.»
«Gliel’ha poi spedito?» chiese il maresciallo.
Bianco sorrise: «Naturalmente.»
«Il collega allora era riuscito?» volle sapere il magistrato.
«Sì. Quella sera stessa. Alla vigilia della mia partenza. La trasmissione partiva da un apparecchio sito in Sicilia, usava una frequenza utilizzata dal nucleo di protezione civile di Modica. Ora, a Lampedusa, i volontari della Protezione Civile siciliana si davano il cambio periodicamente e tutti i nuclei contribuivano. Nell’ambiente del volontariato, fra chi è molto attivo, si tende a conoscersi. Non credevo fossero molti, gli operatori radio specializzati e pensai così che chiacchierare con i ragazzi della Protezione Civile poteva aiutarmi a risalire al nome di chi era di turno il giorno del naufragio.»
«Ci riuscì?»
«Sì dottore. Il turno a Lampedusa in quel periodo era del nucleo di Vittoria, comune non distante da Modica. A Modica erano solo in due a far parte del nucleo di radio trasmissione della Protezione Civile, uno era un giovane studente d’ingegneria, che si era trasferito al Politecnico di Torino e prestava servizio solo quando era a casa in vacanza, l’altro un perito di Pozzallo che si chiamava Vincenzo Macaluso. Con la scusa che c’eravamo conosciuti durante un’esercitazione di Protezione Civile, ottenni il suo indirizzo.»
Il magistrato fece un cenno al maresciallo che mosse il mouse sulla scrivania e lesse:«Macaluso Vincenzo, nato a Ragusa il 2 gennaio 1977 membro dell’omonimo clan, affiliato alla famiglia mafiosa dei Santapaola.»
«Siete molto bene informati sulle persone coinvolte.» notò Francesco. Il maresciallo sorrise sornione.
Il magistrato si rialzò stirandosi le mani portate alle reni. Mosse alcuni rumorosi passi attorno a Bianco.«Lei aveva idea con chi si voleva confrontare?»
Francesco scosse le spalle:«No. Non di preciso.»
«Che cosa fece?» incalzò il magistrato.
« M’imbarcai su un’unità della Guardia Costiera che doveva attraccare a Pozzallo, questo grazie alla gentile intercessione del comandante dell’idroambulanza sulla quale avevo prestato servizio. A Pozzallo mi feci spiegare da un membro della protezione civile, dove raggiungere questo Macaluso. Abitava sulla costa, in una casa sul mare perfettamente ristrutturata. Un posto bellissimo, davvero, non lontano da Marina di Modica. Aveva un terrazzo questa casa, irto d’antenne con delle bandiere che sventolavano al vento: la bandiera della Sicilia, gialla e rossa con la Trinacria; quella della Protezione Civile nazionale e un tricolore.»
«Chiedo scusa ma come c’era arrivato da Macaluso?» chiese il maresciallo.
«Oh, avevo noleggiato uno scooter. Non aveva senso prendere un taxi.»
« No, vero?» disse il magistrato.
Francesco deglutì. Il maresciallo gli versò altra acqua. Erano quasi le due del mattino, faceva fresco e i grilli continuavano le loro serenate al buio.
« Viveva da solo in questa casa così grande. Un uomo alto e robusto. Quando mi venne ad aprire, indossava i pantaloni di una tuta da ginnastica e un pile della Protezione Civile. Aveva la testa rasata e occhi scuri e freddi. Io ero sempre in uniforme, quella rossa della CRI che non ci fa passare inosservati in giro ma tant’è che poteva motivare meglio la mia visita. Bleffai di nuovo. Mi presentai come ispettore della Croce Rossa nell’ambito di una commissione d’inchiesta sul naufragio della Somalia Queen. Avevo l’incarico di ricostruire la filiera del soccorso attivata nel momento della tragedia eccetera eccetera. Lui si dimostrò collaborativo spiegandomi la procedura di radio trasmissione nel momento in cui captava un SOS, poi mi decisi e gli feci il nome di Abidine. Impallidì. Continuai raccontandogli che era stato Abidine stesso a farmi il suo nome. Nome che aveva ricevuto da Oliver il maltese. Abbassai la voce mentre lui mi accompagnava nella sua sala radio, al piano di sopra. C’era una vetrata panoramica stupenda aperta sul mare. Quel giorno era coperto, scuro. Le nuvole si ammassavano massicce verso sud, coprendo la vista delle coste maltesi. Il mare appariva mosso, freddo e grigio come una distesa di ferro liquido. Sono visioni che fanno pensare. Fanno pensare a quanto è brutto morire laggiù. Tirai fuori il biglietto con le frequenze datemi da Abidine e gli confidai che aveva completamente vuotato il sacco. Macaluso mi aveva piantato gli occhi addosso e con voce ferma e minacciosa mi aveva chiesto chi ero e che cosa volevo.»
Si fermò Francesco.
La voce sembrava leggermente più rotta e incerta. Guardò il magistrato che aveva sempre le dita sul tablet ma gli occhi ben fissi su di lui.
«A volte viviamo in un film e non ce ne rendiamo conto. Non saprei se perché la realtà si può trasformare in finzione o viceversa. Mi sembrava di essere dentro una scena del Padrino. Io davanti al mafioso minaccioso. Gli dissi che non ero nessuno. Uno che voleva che si facesse giustizia per i morti della Somalia Queen, che lo scafista pagasse le sue colpe. Macaluso sospirava come un mantice, le mani strette al bracciolo della moderna poltrona che aveva sistemato davanti all’apparato radio. Guardò il mare poi di nuovo me. Abbozzò un sorriso. Si alzò di scatto, dicendomi che doveva fare una telefonata poi mi lasciò solo. Lo sentivo da dietro la porta. Parlava siciliano stretto per cui non capii una parola che fosse una del suo discorso. Quando tornò, aveva il cellulare in una mano e una bottiglia nell’altra. ‘Abidine non farà più l’infame.’ mi disse. Gli chiesi come poteva esserne sicuro e lui mi disse che sarebbe andato a tener compagnia ai pesci.»
Il magistrato si protese verso Bianco. Aveva un volto impersonale, magro ma gli occhi erano luminosi, dilatati dagli occhiali.«Lei si rende conto che ha contribuito alla morte di Abidine?»
Francesco annuì.«sì e anche di Oliver Fenech. Due rotelle di un ingranaggio di morte.»
«Macaluso?» disse il maresciallo quasi con timore.
«Macaluso mi offrì del passito. Buono. Un Moscato di Pantelleria. Mi fece brindare alla morte di due uomini ma io vedevo dietro di lui ottocento altri che il Mediterraneo aveva fagocitato per la sua assenza di scrupoli e coscienza. Mi ringraziò per la mia collaborazione e chiese che cosa poteva fare per me. Non mi fidavo. Io ero piombato a casa sua, perfetto sconosciuto arrivato dal nord. Sapevo che anche lui non si fidava. Feci finta di niente, mi alzai per salutarlo e presi la bottiglia per esaminarne l’etichetta. Fu un lampo.»
Fece una pausa per un profondo sospiro. Magistrato e carabiniere sembravano sospesi come corpi nell’acqua. Silenziosi, muti.
«Gli fracassai la bottiglia in faccia. Un colpo repentino e violento. La bottiglia s’infranse e Macaluso colto del tutto alla sprovvista cadde a terra. Io mi chinai subito su di lui, afferrai la testa e iniziai a sbatterla forte sul pavimento di cotto. Forte e più volte. Ci sono notti che il suono del cranio contro le piastrelle me lo sogno. Un suono sordo, pesante, come pugni su un tamburo. Non so se gliela ruppi. Perdeva sangue da tutto il volto. Di sicuro era privo di coscienza. Lo trascinai inerme fino al bagno sul piano, riempii la vasca da bagno, gli legai mani e piedi con le cinture di due accappatoi appesi alla porta del bagno e lo immersi nell’acqua. Attesi. Volevo essere sicuro che affogasse e aspettai quasi un quarto d’ora. Che follia vero? Poteva arrivare chiunque. Non sapevo se viveva da solo o aveva una famiglia, una compagna, dei figli… E io ero lì, sporco di sangue a lavarmi le mani mentre quel macellaio faceva la stessa fine che aveva fatto fare a ottocento innocenti .»
Il magistrato ritornò a sedersi dritto contro lo schienale.« Macaluso gestiva gli sbarchi clandestini direttamente da Pozzallo. Abidine era lo scafista che gli portava i profughi e Fenech il complice maltese. Perché Macaluso aveva fatto deviare la rotta della Somalia Queen? Mi sembra un gesto insensato.»
Francesco sollevò lo sguardo, laconico. Erano ormai le tre. Era stanco, esausto e il suo racconto, quel racconto che da mesi si portava sprofondato nell’anima, non era finito.
«Il perché me lo raccontò Myrus.» disse.
Il magistrato lo incoraggiò con un cenno:« Avanti Bianco. Finiamo la storia.»
«Myrus abbandonò il CPSA poco tempo dopo. Si era presentato al campo un avvocato di nazionalità sudanese che aveva appresso la documentazione per il ricongiungimento famigliare con una sorella che faceva la colf a Poirino. Non si sa bene come ma sbrigarono le pratiche burocratiche in breve tempo; il centro liberava volentieri un posto per far stare altri quattro profughi in attesa. Grazie a una ragazza di Lampedusa che lavorava per una delle ONG coinvolte, ottenni il nome dell’avvocato, un certo Kiir Shibrain. Questo Shibrain lavorava tra Sudan e Libia e parlava un buon italiano. Riuscii trovarlo tramite una società che gestiva un campo di accoglienza vicino a Roma e con la quale collaborava per i ricongiungimenti proprio con la Croce Rossa laziale. Non mi era stato difficile scoprire che non esisteva una sorella di Myrus Zenawi. Eritrei domiciliati a Poirino non ne risultavano. Zenawi era proprio nel centro di accoglienza, dove operava Shibrain. Sempre gentile, Myrus si scusò per essere scomparso così. Aveva avuto il nome di Shibrain da uno dei passeggeri della Somalia Queen e l’aveva sfruttato per togliersi da Lampedusa. Devo dire che fu una conversazione commuovente. Io mi offrii di aiutarlo, mettendolo in regola con il permesso di soggiorno, offrendogli un lavoro presso la mia azienda e lo feci. Riuscì a venire su da me per fine giugno. L’unico ancora vivo della Somalia Queen. L’unica vita che ero riuscito a salvare da tutta quella sciagura. C’era solo un ultimo dubbio che mi rosicchiava i pensieri. Un’immagine che l’occhio della memoria mi riportava sempre davanti, ogni volta che ripensavo a quella tragedia. Le centinaia di donne e bambini annegati tra i flutti burrascosi, il Fortunale che sbatteva quei corpi persi, due sole figure che galleggiavano con i giubbotti di salvataggio. Due a scapito di tutti quegli innocenti. Uno era Abidine, lo scafista, l’altro Myrus. Perché loro? Perché lui?»
Il maresciallo si alzò, girò di nuovo attorno alla scrivania e vi si appoggiò contro. Aveva gli occhi tristi e le mani sprofondate in tasca.
«Perché gli scafisti erano due. Abidine e Myrus.» sentenziò.
Francesco Bianco, una vita di volontariato inseguendo la vocazione dell’altruismo e della fratellanza, nel nome dei sette principi della Croce Rossa, disse semplicemente di sì. Si asciugò una lacrima e si schiarì la voce tossicchiando dentro il pugno chiuso. «Me l’aveva confessato stasera, mentre finivamo il lavoro in vigna. Eravamo finiti sul discorso ripercorrendo la storia che l’aveva portato fino a qua. Non so proprio com’era diventato scafista, Myrus. Era un ragazzo intelligente, volenteroso. Forse l’ambiente, il bisogno, l’istinto di sopravvivenza che plasma la morale degli uomini. Come lui mi confessò di essere il secondo scafista, io gli confessai la mia visita da Macaluso e di come mi ero preoccupato che facesse eliminare Abidine e Fenech. Poteva finire lì ma queste cose si chiudono solo in una maniera. Si complimentò con me per l’uccisione di Macaluso. Macaluso li aveva venduti, mi spiegò.» ritornò ai suoi interlocutori cambiando posizione sulla sedia che sembrava irta di spine, in quel momento.
« Ci sono due grandi correnti di sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Una la gestisce l’estremismo islamico, un ottimo sistema per sovvenzionare la Jihad; l’altra sono i signori della guerra che infestano il centro Africa. Myrus faceva riferimento ai Signori della guerra ma Macaluso aveva capito che i terroristi del califfato avevano più denaro. Poco dopo la Somalia Queen, era salpata da Meilla in Marocco un’altra carretta piena di disperati gestiti dagli estremisti islamici. Bisognava far posto. Macaluso aveva valutato il tempo, le condizioni meteo, le probabilità di naufragio e aveva indirizzato Myrus e il suo socio tunisino tra le onde assassine. 800 morti. Donne e bambini. E loro due, come novelli Caronte di questo inferno in terra, sani e salvi. Le braccia mi si sono mosse da sole. Forse non lo volevo veramente; in fondo, era l’unica vita salvata che avevo davanti. L’ho spinto. Non se lo aspettava nemmeno. E’ volato giù, dritto fino in fondo. Io me ne sono andato.»
«Ha chiamato lei i Carabinieri.» disse il magistrato.
Francesco sollevò le spalle. «Era giusto così. Proseguendo nel mio racconto mi sono reso conto che la confessione era l’unico palliativo per la coscienza. Quel sollievo che leggevo nel finale di Delitto e Castigo ora lo capisco in maniera completa.»
Il magistrato sollevò il tablet. «E’ tutto riportato, signor Bianco, lei conferma quanto dichiarato finora?»
«Sì. Tutto.»
«Molto bene.» il magistrato si avvicinò al maresciallo. Francesco non si era mosso dalla sua posizione.
«Sapete quando ho deciso di uccidere?» disse loro.
«La prego…» lo invitò il maresciallo.
«Parlando con un pescatore di Lampedusa. Era appena approdato al porto e stava scaricando il pesce. Io ero il polentone con l’accento buffo. Gli avevo chiesto che pesce era e lui mi aveva risposto ‘spigole’. Solo spigole perché negli ultimi tre anni erano ritornate in numero incredibile. Non l’aveva detto con soddisfazione. Lo sapete perché?
«No.» mormorò il magistrato.
«Non lo sapevo neanche io. Glielo chiesi. Il pescatore, un uomo dall’ispida barba grigia e la pelle cotta, mi domandò se sapevo che cosa mangiavano le spigole. Ovviamente non lo sapevo. Lui allora si girò verso la banchisa e m’indicò le lunghe file di sacchi allineati, con i loro cadaveri all’interno.»