Il mare! L’avevamo a due passi, eppure non ci andavamo mai; ma se anche l’avessimo voluto, come avremmo potuto raggiungerlo? Ad Alfonsine, negli anni trenta, circolavano si e no dieci macchine, la maggior parte della gente andava a piedi, in bicicletta o in calesse. Di corriere, o pullman come diciamo oggi, dirette al mare non ce n’erano proprio, sicché anche il vocabolo “villeggiatura” non faceva parte del nostro dizionario; d’estate perciò ce ne stavamo tranquilli a casa a smaltire tutto il caldo che il buon Dio ci mandava.
Qualche mattina particolarmente afosa la mamma ci portava nel vicino campo sportivo a fare la cura del sole e, se allora la cosa mi sembrava naturale, oggi mi chiedo quali proprietà speciali fornisse mai il sole al campo sportivo di Alfonsine; ebbene sono assolutamente certa che il sole del nostro cortile avesse la stessa efficacia. Così, per meglio comprendere il senso di quegli inspiegabili spostamenti, ho provato a mettermi nei panni di una casalinga di quei tempi: mai un viaggio, mai una serata in pizzeria con amici, nessun giornale di moda o settimanale d’informazione, niente televisione, niente telefono, insomma niente di niente.
Ecco allora che la fantasia galoppava e suggeriva l’idea di trasferirsi con figli, seggiolini pieghevoli e ombrellino da sole rosa fucsia a venti metri da casa.
A modo suo mia madre aveva dato inizio ad una piccola e innocua rivoluzione che le permetteva un’innocente evasione dalla quotidianità che le stava probabilmente venendo a noia.
Ci accompagnavano in quell’incredibile avventura una giovane vicina di casa di nome Olga e la sua piccola Marisa, mia compagna di giochi.
Noi bambine indossavamo sotto una leggera veste estiva un costume da bagno di lana a righe di vari colori; già il materiale di cui era fatto il costume la dice lunga; il campo sportivo poi non offriva il benché minimo angolino ombroso; sicché dopo una ventina di minuti trascorsi sotto quel sole rovente, avvolte in quel castigatissimo costume di lana, si aveva la sgradevole sensazione di stare in un forno crematorio.
Che sudate! Così finiva ben presto quel surrogato di villeggiatura; si tornava finalmente a casa, benedicendo in cuor nostro quella parte ancora in ombra del giardino che ci ospitava per il resto della mattinata.
Ma un anno fu organizzato da alcuni intraprendenti Alfonsinesi un servizio speciale: si trattava di una corriera che ogni mattina trasportava una ventina di persone in una vicina località balneare che allora si chiamava Casal Barogna, oggi ribattezzata Casal Borsetti.
Fu un’iniziativa all’avanguardia per quei tempi in cui ancora non si considerava indispensabile la villeggiatura, che per altro restava un privilegio di pochi.
La corriera aspettava nella piazza del paese i bagnanti che, alle sette in punto, sbucavano da ogni strada, carichi di borse, seguiti da ragazzini già in tenuta da spiaggia, con tanto di salvagente, da secchielli, di palette e di palloni.
Anche noi ci affrettavamo a raggiungere la corriera, dove Gerolamo, l’autista, ci aiutava a sistemare ogni cosa sulla reticella, indicandoci i posti liberi.
Il bello era che ci si conosceva tutti molto bene, perciò durante il viaggio ci si scambiavano impressioni e progetti sul come trascorrere quelle giornate di vacanza insieme. Dopo un viaggio non certo lungo, ecco apparire il mare luccicante sotto i caldi raggi solari, oltre la larga distesa sabbiosa, su cui erano sparse le poche tende dei bagnanti che ci avevano preceduto. Al largo alcune barche con le bianche vele spiegate filavano silenziose sull’acqua, spinte dalla leggera brezza marina.
Noi bambini eravamo impazienti di scendere per precipitarci sulla spiaggia, dove restavamo fino all’ora di pranzo, liberi come l’aria. La località era quasi deserta, c’erano solo poche case sparse; una famiglia, che definirei intraprendente, aveva costruito una specie di capanna senza pareti, che in quei giorni divenne la nostra sala da pranzo; alcuni rozzi tavoli accostati formavano un’unica mensa che le signore del nostro gruppo facevano sparire sotto candide tovaglie odorose di fresco bucato; poi ogni famiglia disponeva nel settore assegnatole tutto l’occorrente per il pranzo e nel giro di qualche minuto l’intero ambiente, prima spoglio e quasi primitivo, acquistava un aspetto accogliente e famigliare, sembrava insomma quel rustico capanno un contadino un po’ goffo vestito con gli abiti della festa.
I padroni del locale ci procuravano soltanto l’acqua e il vino freschi, al resto pensavamo noi bagnanti. Ed ecco apparire sulla mensa pietanze appetitose e fragranti, alcuni sfoggiavano perfino i contorni; a fine pranzo il complimentoso di turno offriva i dolci a tutti. Che allegre e rilassanti tavolate erano quelle! Dopo alcune ore di vita spensierata sulla spiaggia, di corse, di nuotate o di lunghe camminate sentivamo tutti, grandi e piccoli, il bisogno di rifocillarci a dovere. Avveniva addirittura uno scambio di vivande fra i commensali: ognuno assaggiava le specialità del vicino, esigendo naturalmente che questo assaggiasse le sue.
Anche la mamma, che di cucina se ne intendeva, aveva da offrire tante buone cose.
La sentivo alzarsi di buon mattino per preparare e sistemare in appositi recipienti ben sigillati le provviste da portar via.
Verso sera, stanchi, rossi come gamberi, ma felici, risalivamo sulla corriera che ci avrebbe riportato a casa; certo l’animazione non era paragonabile a quella
del mattino: noi bambini piombavamo in un sonno profondo, mentre gli adulti sognavano ad occhi aperti un bagno ristoratore e un letto fresco dove riposare le membra stanche e soprattutto arrossate, in attesa che l’indomani ricominciasse la “straordinaria avventura”.