"Apro gli occhi" di Maria Teresa Valle


violinista

 

Apro gli occhi. Un’operazione difficile. Le palpebre pesano e sono appiccicate. Passo le dita sulle ciglia per aiutarle ad aprirsi.  Una lama di luce arriva alla pupilla, che, come ferita, si stringe. Dalla fessura entra negli occhi la visione del bianco. È lontano. È un soffitto. Capisco che è un soffitto. Dunque è un soffitto ed è sopra di me. E intorno ci sono delle pareti di un colore grigiastro, un colore stanco, su cui il tempo  sembra avere steso una patina opaca.  C’è solo una piccola finestra, in alto, da cui entra poca luce. Nel mezzo del soffitto una lampadina spenta, priva di paralume, penzola tristemente .

Scopro di stare su di un letto. Sento distintamente il cuscino sotto la testa. La testa no. Quella non ricordo di averla, e lo stesso le braccia. Alzo una mano. La vedo. Ma di chi è quella mano? Non ricordo proprio di avere avuto una mano. Non ricordo nulla.

È troppo difficile tenere le palpebre sollevate. Quelle,  so di averle e non riesco a muoverle. Si sono chiuse, ma non voglio dormire. Non voglio sognare ancora quella porta. Mi fa paura. Non so perché, ma mi fa paura. Se si aprirà non ci sarà scampo. Non ci sarà salvezza. È strano, non so cosa c’è al di là della porta, ma so che non voglio vedere. Non voglio sapere.

Non voglio dormire. Voglio capire. Ma non posso combattere questo sonno  che mi entra negli occhi, mi penetra nel cervello, mi ruba muscoli e volontà.

Non voglio dormire, ma la fatica di formulare un pensiero è così tanta che non posso fare altro che arrendermi. Immagino che la mia testa sia un  contenitore vuoto dove un unico solitario pensiero sbatte contro la scatola cranica di qua e di là, sballottato come il balia di un mare in tempesta.

Forse quando mi sveglierò riuscirò a capire qualcosa di più…

Ora la lampadina è accesa e la finestrella è buia. Quasi buia. C’è appena una parvenza di luminosità. Potrebbe essere la luna. Oppure un lampione della strada. Un chiarore leggero sfiora il soffitto e allunga le ombre nella stanza trasformandole in vaghi fantasmi. Tutto il resto intorno a me non è cambiato. Il soffitto, le pareti. Il letto.

Ho aperto e chiuso gli occhi diverse volte, non so neppure io quante. A volte la lampadina era spenta e la luce, la poca luce, entrava dalla finestrella. A volte invece era accesa. Da questo riuscivo a capire se fosse giorno o notte.

L’ombra che ha oscurato la luce per un attimo forse l’ho solamente sognata. Mi ha fatto paura. Come quando da piccola era buio nella stanza e ogni ombra vaga, ogni fruscio mi faceva nascondere la testa sotto le lenzuola.

Ora ho un po’ meno sonno. Forse riesco a tenere gli occhi aperti, almeno per un po’. Mi prende un’angoscia, un groppo  che si è formato dentro lo stomaco ed è salito alla gola.  Cerco di ricacciarlo giù, provo ad inghiottirlo con la saliva, ma non c’è  nulla da fare. La saliva va giù e il magone resta lì. Un bolo acido, persistente. Forse se riuscissi a ricordare chi sono, che posto è mai questo. E soprattutto perché sono qui. Forse se riuscissi a capire questo, l’angoscia sparirebbe. Faccio degli ampi respiri. Prendo ossigeno e cerco di ragionare lucidamente, cerco di scacciare queste ragnatele che mi avvolgono il cervello. Passo le mani sugli occhi per cercare di cancellare la nebbia, mi illudo che serva.

Provo a buttare le gambe giù dal letto. Sento il freddo del pavimento. Mi alzo in piedi. Per un attimo mi gira la testa. La prospettiva cambia e la stanza mi appare ancora più piccola. Mi accorgo di una porta che dal letto non avevo notato. Forse sono in un ospedale. Sì, ecco. Ho avuto un problema e ora mi sto rimettendo. Questo spiegherebbe molte cose. Adesso sto meglio, molto meglio. Ora aprirò la porta ed uscirò in corridoio. Avvertirò che è tutto passato. Me ne tornerò a casa.

La  mia casa. Dov’è la mia casa? Chi abita nella mia casa con me? Spero che le infermiere lo sappiano. Sì naturalmente, le infermiere lo sanno.

Provo la maniglia. Chiusa. Scuoto la porta. È una porta robusta. Chiusa a chiave.

In realtà questa stanza, questa che fino ad ora nella mia mente ho pensato essere una stanza,  è piuttosto una prigione.

Ora capisco! Un rapimento! Sono vittima di un rapimento. I rapitori mi hanno somministrato qualche droga e rinchiuso in questa specie di cella situata chissà dove. Probabilmente hanno chiesto il riscatto alla mia famiglia. Sicuramente ho una famiglia. Una famiglia facoltosa, importante. Ora i miei rapitori aspettano di riscuotere i soldi per poi  liberarmi, ma perché non ricordo nulla? Forse nel momento del rapimento mi hanno colpito alla testa per tramortirmi, causandomi un trauma. Percorro con le dita che tremano per l’ansia, tutta la superficie della testa alla ricerca di un punto che mi faccia male, ma non lo trovo.

Sarà stato lo shock a causarmi l’amnesia. Sì, questa seconda ipotesi mi sembra più plausibile.  Prima o poi li vedrò i miei rapitori, allora potrò sapere qualche cosa di più.

La stanchezza mi costringe a stendermi nuovamente sul letto. Non riesco a stare sveglia che per breve tempo. Sicuramente qualche farmaco  riduce il mio stato vigile. Gli occhi si chiudono. Ancora una volta prima di piombare nel sonno so che andrò all’appuntamento col mio incubo. ll sogno è sempre lo stesso. La porta è sempre uguale. E mi fa sempre la stessa paura. Mi avvicino e la tocco. Allora il terrore che si apra è così forte che mi costringe a svegliarmi. Sento un urlo e riconosco la mia voce. Un sudore malsano mi raffredda la schiena. Mi tremano le mani. Ci vuole un po’ di tempo prima che il cuore riprenda il suo battito regolare.

La porta è l’unica cosa che mi sembra di ricordare. Deve essere appartenuta veramente alla mia realtà. Io quella porta la conosco. C’entra con la mia vita. Ma cosa nasconde non riesco a immaginarlo.

Qualcuno, mentre dormivo, ha lasciato un vassoio con del cibo  vicino al letto. Non ho sentito entrare nessuno nella stanza. Ancora un’occasione persa per capire dove sono e perché sono qui. Che sono in una sorta di prigione, quello ormai mi è chiaro.

Forse mangiare mi farà bene. Mi ridarà un po’ di forza.  Mi aiuterà a chiarirmi le idee. Ci sono anche delle medicine sul vassoio. Pillole, per la precisione. Immagino siano per farmi dormire. Non riesco a decidere se è meglio che le prenda o no. Dormire non può farmi male, se non fosse per l’incubo della porta. Ma voglio avere tempo per riflettere con calma. Voglio restare lucida.

-Vieni il medico ti sta aspettando.

Una donna è entrata nella stanza. Mi fa alzare prendendomi per un braccio. Vorrei chiederle tante cose, ma la sorpresa è tale che la voce non vuole uscire.

-Abbottonati la giacca del pigiama. Non vedi che hai tutto il seno di fuori?

Il seno? Già, sono una donna. Chissà perché prenderne coscienza mi sconcerta.

Cammino come un automa in un corridoio spoglio. La donna, un’infermiera o una carceriera, mi sostiene e mi sospinge fino a farmi entrare in uno studio.

-Siediti lì e aspetta il medico. Sta buona, e fai quello che ti dice. Poi torno a riprenderti.

Mi gira la testa. Mi sento inadeguata, indifesa. Il contatto con altri esseri umani mi turba e mi imbarazza. Probabilmente loro sanno tutto di me mentre io ignoro ogni cosa. Questa posizione di inferiorità e di incertezza mi destabilizza. Lacrime calde sul viso si mescolano al muco. Ho bisogno di un fazzoletto.   Frugo nella tasca del pigiama che indosso e che mi è estraneo. Non c’è nessun fazzoletto. Mi asciugo il viso nella manica e mi sento desolatamente triste. Accasciata sulla sedia, guardo questo luogo sconosciuto. Guardo le braccia che scivolano inerti ai lati di questo corpo alieno. Sento pensieri sconosciuti scaturire dalla mia povera mente confusa e ripenso ai sogni che mi spaventano anche di più della realtà che mi circonda. Rivoglio la mia vita. Qualcuno me la restituisca.

Sicuramente ne avevo una, prima di tutto questo.

-Buongiorno signora.

-Buongiorno…

La voce è uscita così piano che non sono sicura che il medico abbia potuto sentirla.

-Come si sente? Riesce a dormire?

-Per dormire, dormo, anche troppo. Ma sto male. Male. Io ho bisogno di sapere, per favore. Ho tante domande da fare. Ho bisogno di sapere chi sono. Perché sono qui.

-Le domande qui le devo fare io. Ed è lei che mi deve dire chi è.

-Ma io non ricordo niente.

-È proprio per questo che deve cercare di essere lei a darmi delle risposte.

Ma questo è pazzo! Come faccio a dargli delle risposte se non ricordo niente. È uno scherzo. Ditemi che è uno scherzo. Sono capitata in  una di quelle trasmissioni insensate dove nascondono una telecamera e poi ti mettono in situazioni paradossali.

-Per favore, mi aiuti. Io impazzisco.

-Certo che l’aiuterò. L’aiuterò a ricordare. Con calma. Stia tranquilla. Ci vorrà del tempo.

-Quanto tempo? Io non so se ce la farò.

Ha occhi duri e freddi il dottore. Ma è l’unico che sa. Certamente lui sa. Sa chi sono e perché sono qui. Che inutile tortura tenermi all’oscuro! La rabbia e l’umiliazione mi salgono dentro come un uragano.

-Non può dirmi qualche cosa che mi aiuti a ricordare? Non vedo perché non possa dirmi lei chi sono.

-Si fidi. Non servirebbe. Segua le mie indicazioni e piano piano arriverà da sola a capire e ricordare ogni cosa. Cominci a guardare il suo corpo. Si guardi le mani. Le riconosce? Cosa faceva  con le  mani? Cuciva? Suonava uno strumento? Accarezzava un gatto? Ci pensi. Provi a ritrovare i gesti che le sono consueti. Le do questo compito. Lo prenda seriamente. Non pensi ad altro per il momento. Nel frattempo prenda le medicine che le daranno. L’aiuteranno a riposare. Quando è sveglia pensi a quello che le ho detto. Pensi alle mani. Ci rivedremo domani. Ora la faccio accompagnare nella sua stanza. L’avverto, è inutile fare domande. Nessuno le risponderà. Non è una crudeltà gratuita, mi creda. Deve fidarsi. Arrivederci.

Non mi porge la mano. Non sorride. Distoglie lo sguardo e si mette a scrivere certe carte che ha davanti, sulla scrivania.

La stessa donna di prima entra e mi fa alzare. Mi riporta nella cella. Ora tutto è più chiaro. Questo non è un ospedale o una prigione. È un posto dove si tengono i pazzi.

Una volta li chiamavano manicomi. Ora non dovrebbero più esistere, ma questo è proprio un posto del genere. Non so con che nome vengano chiamati ora, ma per forza questo è un posto per matti. E io sono una di loro. Non c’è un’altra spiegazione. E devo avere fatto qualche cosa di pazzesco per essere qui. Ma cosa?

Se voglio uscire devo cercare di fare quello che mi dicono. Stare buona. Calma. Dimostrarmi collaborativa. E ragionare. Calma. Stai calma. Cosa farebbe una persona normale? Sì. Certo. Vorrebbe per prima cosa assumente un aspetto normale.

-Per favore, vorrei fare una doccia. Vorrei cambiarmi. Vorrei un pettine.

-Sì. Brava. Questo lo facciamo subito. Era ora. Ti daremo le tue cose.

Le “mie” cose. Mi hanno dato le “mie” cose. Ho un pigiama pulito. Mi hanno detto che è il mio. È giallo. Morbido. Non lo riconosco, ma mi piace. Ha un odore di ammorbidente che mi sembra di conoscere. E poi mi hanno consegnato una trousse. Una semplice busta con la cerniera. È nera e dentro ci sono un certo numero di oggetti utili. Una spazzola, un pettine, spazzolino da denti e dentifricio, una fascia per i capelli, la crema per il viso e per le mani, sapone liquido per il bagno, deodorante. Tutte cose che, dicono,  mi appartengono, eppure mi sono estranee.

Poso tutto sulla mensola che sta sopra il lavabo nel piccolo bagno annesso alla mia cella. Per la prima volta da che sono entrata lì dentro alzo gli occhi verso lo specchio e guardo il mio viso.

Un’estranea mi guarda a sua volta. Ha gli occhi grigi, cerchiati e tristi. Un’espressione incerta, vagamente attonita. Non sopporto la sua vista e distolgo lo sguardo.

Non mi piace quella donna. Eppure sono io.

Mi sforzo di fare quello che mi ha detto il medico. Devo pensare. Scoprire cosa facevano queste mani. Non ho preso le pillole che mi hanno dato. Le ho nascoste nel bagno. Voglio essere ben presente a me stessa.

Le mani. Le mani sono belle. Hanno dita lunghe e agili. Le unghie sono rosicchiate. In questi giorni sono un po’ cresciute, ma dovevano essere corte prima. Prima.

Chissà cosa facevano queste mani, prima. Cerco di non distrarmi. Ho due elementi. Ho delle belle mani e uso la destra.

Provo a muovere le dita, le braccia. Movimenti privi di senso. Mi alzo in piedi e vado vicino alla finestrella. Mi sembra di sentire una musica. In lontananza. Forse la sto solo immaginando.

Sto immobile per un lungo istante. Poi il braccio destro afferra un oggetto immaginario. Il sinistro si estende in un gesto naturale. Le dita si piegano. Si muovono. La testa asseconda il movimento.

So cosa facevano le mani. Lo so. Lo so.

L’audizione era fissata per quel giorno. Le farfalle nello stomaco mi tenevano compagnia dalla mattina. Mi guardavo le unghie lucide. Le avevo tagliate e limate con metodo, con ostinazione. Le avevo ricoperte di smalto trasparente. Erano lucide come mandorle. Le avevo curate come se da loro fosse dipeso  l’essere presa o scartata. 

Avevo legato  come al solito una parte dei capelli sulla sommità del capo. Il resto ricadeva im morbidi riccioli sulle spalle. Il nastro che avevo  scelto era azzurro. 

Sul pianerottolo prima di scendere le scale avevo fatto tre passi di danza  e tre giravolte su me stessa. Stupide scaramanzie. Non avevo potuto farne a meno. 

Mi tremavano le mani. Erano  gelate.  Le avevo strofinate  l’una contro l’altra. Dovevo riscaldarle se volevo che lavorassero al meglio. 

Mentre aspettavo che venisse  il mio turno avevo ascoltato gli altri. Mi sembravano tutti più bravi di me. Per calmarmi mi ero concentrata  sulle poltrone rivestite di velluto rosso. Un pubblico discreto e silenzioso.

Infine il miracolo era avvenuto. Avevo suonato un pezzo difficile, ma che avevo ben preparato. Ed ero stata scelta. Il direttore non aveva detto nulla. Aveva solo accennato a me con il mento, senza sorridere. Per me era come se avesse fatto il più luminoso dei sorrisi. Finalmente avrei suonato nel teatro più importante d’Europa, con il Maestro più bravo d’Europa, davanti al pubblico più competente d’Europa.

Le strade di Vienna erano larghe e fiancheggiate da imponenti  palazzi barocchi. La vecchia città mi proteggeva come una madre antica. Non c’era posto al mondo in cui la musica avesse più senso. Non mi ero mai sentita così sicura. Le dita non facevano  nessuna fatica a lavorare per ore ed ore attorno a un pezzo. Ero così orgogliosa di essere stata scelta che nessun sacrificio mi sembrava pesante, nessuno sforzo adeguato. Provavo per ore, perdendo gli occhi sugli spartiti. Poi la sera con tutti gli altri musicisti cenavamo nei vecchi locali, dove  la notte le coppe si riempivano  di bollicine e i boccali traboccavano di schiuma bionda. Le risate e le chiacchiere scaldavano il cuore e cercavano di soverchiare il pianto appassionato del violino di uno dei mille zigani che popolavano la città. 

Cercavo di assorbire la passione dal vecchio zingaro, tentavo di imparare il movimento delle sue dita che volavano agili sulle corde mentre il suo cuore ingenuo e scaltro si riversava nelle note.

Piazza Graben non dormiva mai in quelle notti stellate. 

Stava col fiato sospeso e gli occhi incantati. La musica saliva dal niente e nel niente tornava.

Per tutta la notte non ho pensato ad altro. Non vedevo l’ora di incontrare il medico per raccontargli quello che ora so.  Del resto mi ha suggerito lui stesso a cosa pensare. Lui ha un vantaggio su di me. Lui sa. E io no.

Non ho preso le pillole e sono stata sveglia per buona parte della notte. Ho fatto brevi sonni agitati, da cui mi sono svegliata sempre in preda al panico. La porta dei miei incubi era più che mai vicina, illuminata, lei sola, nel mezzo di una parete immersa nel buio. E diverse volte sono stata sul punto di aprirla. Non riesco a spiegarmi il terrore che mi incute l’idea di un gesto del genere. L’angoscia al risveglio  è diventata intollerabile.

-Dottore, so cosa facevano, cosa sanno fare le mie mani.

-Bene. Mi dica quello che è riuscita a ricordare.

-Io suono il violino. Sono certa di questo. Anzi, forse se potessi avere il mio strumento, perché io ho uno strumento, nevvero? questo mi sarebbe di grande aiuto.

-Ogni cosa a suo tempo. Gliel’ho detto. Andremo per gradi. Ci vorrà molta pazienza. Avremo molto da lavorare. Questo è un buon passo avanti.

-Lei crede? Crede che basti sapere cosa si sa fare per conoscere sé stessi?

-Non ho detto questo. Certo che non basta. Ma quello che siamo passa attraverso quello che facciamo. Questo suo suonare è un divertimento o è la sua professione?

– Credo sia qualcosa che mi appartiene profondamente, se è la prima cosa che sono riuscita a fare affiorare da questo pantano in cui mi sono persa. E, sì, lo sento profondamente mio.

-Bene. Ci torneremo più avanti. C’è altro che è tornato a galla? O che vorrebbe dirmi?

Penso per un lungo momento se sia il caso di parlargli del mio incubo. Decido che peggio di così non potrò stare e che ho voglia di parlarne con qualcuno.

-Non lo so. Sono confusa. C’è una cosa che vorrei capire. Quando mi addormento sogno sempre una porta. La porta è chiusa. Io mi avvicino per aprirla. A questo punto mi prende il panico. So che dietro quella porta c’è qualche cosa di orribile. Qualche cosa che non voglio vedere. Mi sveglio terrorizzata. Che significa questo? Mi provoca un’angoscia terribile. Per favore mi dica una volta per tutte, lei che sa, cosa c’è dietro quella porta?

-Non posso. Deve scoprirlo da sola. La avverto che sarà molto doloroso. Ma le daremo tutto il sostegno necessario.

 

Sono nuovamente nella mia stanza, ma so qualche cosa di più. Vado davanti allo specchio e mi guardo. Ancora gli occhi grigi un po’ cerchiati mi scrutano. Il loro sguardo mi imbarazza, ma lo sostengo. Mi soffermo sui capelli. Sono lunghi, sottili e mossi. Mi viene in mente che quando suonavo li raccolglievo in parte sulla sommità del capo e li legavo con un nastro. Ricordo un nastro di velluto nero. Bellissimo. Con una fila di perle bianche. Lo mettevo nelle occasioni importanti.  Mi stava bene. I capelli mi ricadevano in morbide onde fin sulle spalle.

Ero felice e mi sentivo bella. Ricordo il teatro e risento gli applausi. Non so in quale città, ma quella sera avevo in testa il mio nastro di velluto nero e ho ricevuto molti applausi. Chissà cosa avevo suonato? Paganini, Tchaikovsky? Se potessi avere il mio violino, potrei ricordare meglio. Eppure non è per la musica che sono qui. Ne sono certa. È per quello che sta dietro quella dannata porta. Ricordare la musica non mi da angoscia. La porta invece è un’ossessione che non mi abbandona.

Oggi mi guardo allo specchio e mi pare di riconoscermi. Forse riconosco semplicemente quella che ho visto ieri.

-Vieni, il medico ti aspetta.

L’infermiera mi dice sempre le stesse parole. Mi siedo ad aspettare e appena il medico entra cerco di osservarlo senza farmi accorgere. È alto e ha occhi duri e freddi. Mi fa parecchie domande e io cerco di rispondere per quel che sono riuscita a ricordare. Sembra soddisfatto, anche se non sorride mai.

-Ora le farò vedere una fotografia. Deve dirmi se riconosce qualcuno.

Il medico mi porge un cartoncino.

Evidentemente è stata usata per pubblicizzare un evento musicale. È un’immagine che ritrae musicisti mentre suonano e in primo piano si vede il direttore  con la bacchetta in mano, i capelli spioventi sulla fronte nell’impeto di dirigere una grande formazione orchestrale.

L’emozione mi stringe la gola . Voglio andare via. Lasciare la stanza del dottore e rifugiarmi nella quiete silenziosa della mia cella. Non voglio vedere nessuno. Voglio il buio e la solitudine. Lasciatemi stare.

Credo di essere svenuta, per poi passare in un sonno indotto da qualche droga, perché non ricordo come sono arrivata nella mia stanza. Mi risveglio e mi ritrovo sdraiata sul letto. Sono frastornata, ma ricordo perfettamente i sogni che ho fatto. Nel sonno continuavano a passarmi davanti agli occhi i volti dei musicisti. Passavano e ripassavano, sempre gli stessi con ossessiva lentezza e cadenza.  Soprattutto un’immagine non voleva abbandonare lo schermo della mia mente e continuava a riproporsi come in un film senza fine.

Il direttore d’orchestra sulla sua pedana mulinava senza posa le braccia nell’impeto della direzione. Le spalle al pubblico, aveva il volto trasfigurato dalla passione, i capelli scomposti e sudati, una luce febbrile negli occhi ed emanava un’aura di nobiltà e di purezza che mi sconvolgeva.

Non è un estraneo per me. Ma ho paura di ricordare come e perché lo conosco.

I nostri passi risuonavano nella notte magica dove vivevo la mia stagione più bella.

Ebbri di musica e di vino non ci stancavamo di guardarci.

Non avrei saputo quanto brillavano i miei occhi, se non fosse che lui me lo diceva in continuazione, mentre mi teneva allacciata e mi soffiava parole d’amore sul collo. Dove i capelli si facevano più sottili e il nastro che li teneva legati lasciava sfuggire piccole ciocche, posava le sue labbra calde facendo scorrere le dita lungo la mia schiena.

Ci voleva molto tempo per raggiungere la nostra stanza perché ogni pochi passi ci fermavamo per baciarci. Non avevamo  fretta. C’era ancora buona parte della notte da spendere e quando la luce del mattino tagliava l’aria della stanza col suo cono di luce, ci coprivamo gli occhi di baci  e ci riaddormentavamo abbracciati.

Il concerto era stato un successo. Il pubblico non finiva più di applaudire. Noi sorridevamo come inebetiti. Sapevamo di avere suonato bene, di avere prodotto buona musica  ma soprattutto emozioni. Continuavamo a inchinarci e loro ad applaudire. Il Maestro era raggiante. Lo guardavo e non potevo trattenere le lacrime.  Era così bello da far male al cuore. Sapevo cosa provava e l’emozione di condividere la stessa gioia era esaltante. La consapevolezza di avere contribuito al raggiungimento di quel successo mi appagava. Ero felice. 

 

Il medico è già seduto alla scrivania quando entro nella stanza. Sta scrivendo e non bada a me. Do un’occhiata intorno e mi accorgo di una finestra. Incuriosita guardo fuori. Si vede un albero, le sue foglie, e un cortile di cemento. Il cortile è triste, francamente brutto, ma l’albero mi commuove quasi alle lacrime. Avevo scordato come sono belle le foglie.

-Allora, come va?

La voce del medico mi fa sussultare. Sono così nervosa e sensibile che un nonnulla mi fa trasalire.

-È una domanda difficile. Non ho una risposta semplice. Sto in tanti modi. Ma il più delle volte sono sconcertata, disperata, confusa.

-Capisco. Cerchiamo di lavorare. Si concentri bene e mi dica cosa l’ha emozionata l’ultima volta che ci siamo visti. Lei ricorderà che le ho mostrato una fotografia. L’immagine le ha provocato un tracollo fisico tanto che è svenuta. Ricorda la fotografia?  Desidera che gliela faccia rivedere?

-No. La prego. La ricordo benissimo.

-Cerchi di spiegarmi che ricordi le ha evocato.

-Non è facile.

-Non deve essere facile.

-Quell’uomo… l’uomo della fotografia è un grande direttore d’orchestra. Io ho suonato in tanti teatri con molti musicisti, ma mai mi era capitato di essere diretta da un Maestro tanto illustre e bravo. Non potevo credere alla fortuna che mi era capitata. Ero stata scelta tra tanti violinisti altrettanto bravi di me. Dovevamo esibirci  a Vienna. Il teatro era magnifico. Tutti i pomeriggi andavamo alle prove. Il Maestro ci faceva lavorare sodo, ma con tanta bravura e passione che non ci accorgevamo della fatica nè del tempo che passava. La sera poi andavamo a cena tutti insieme. Sua moglie era sempre con noi. Era una donna bellissima. Forse un po’ fredda, ma molto bella. Un certo giorno dovette tornare a casa, per problemi della  sua famiglia e il direttore, rimasto solo, cominciò a sedersi vicino a me, durante la cena e in ogni altra occasione possibile. Mentre provavamo mi guardava spesso sorridendomi. Io lo adoravo. Era per me il più alto simbolo vivente della musica. Quando dirigeva si trasfigurava. E riusciva a tirare fuori da ognuno di noi il meglio che sapevamo fare. Non suonavamo solo in modo tecnicamente perfetto, suonavamo con tutta l’anima. Quello che producevamo era esaltante. Questa esaltazione si trasformò presto per me in una passione irrefrenabile per lui. Una passione che mi travolse, che ci travolse, che ci fece fare ogni tipo di sciocchezza. Non ci siamo fatti nessuna domanda. Incuranti del presente e del futuro. Stavamo insieme ogni minuto possibile. Non ci importava di niente e di nessuno. Tutto ci univa. Di giorno la musica con la sua magia. Di notte la passione con la sua seduzione. Il concerto fu un trionfo.  E come forte era stata l’emozione di quelle passioni, quella  amorosa e quella musicale, altrettanto forte fu la scossa del ritorno alla realtà. Finite le repliche del concerto ognuno di noi dovette ripartire per il proprio paese, raggiungere la propria famiglia, riprendere la propria vita. Lui, come tutti gli altri.

Mi salutò dicendomi che era stato bello e che non mi avrebbe mai dimenticato. Il risveglio dal sogno è stato terribile. Mentre ne parlo sento ancora lo stesso dolore. Ho patito la delusione di scoprire quanto diverso era il significato della nostra storia per me e per lui. Mi ero ingannata e mi ero fatta ingannare. Lo amavo e lo odiavo. Lo volevo ma non lo cercai più.

Mi manca il cuore quando ci penso. Mi sento male. Ora vorrei tornare nella mia stanza.

-Per oggi basta. La faccio accompagnare.

Era una mattina piovosa col cielo di piombo, lo stesso colore del mio cuore. Camminare sul marciapiede bagnato mi dava la stessa sensazione di percorrere la strada verso l’inferno. No, non lo volevo, e stupida, non avevo capito. Finchè non era stato troppo tardi. L’averlo visto, piccolo pesce che nuotava ignaro dentro di me,  non aveva cambiato il mio disappunto. Guardavo il monitor attraverso le lacrime e questo servì a risparmiarmi le parole, perché l’addetto all’ecografo  interpretò il mio come un pianto di commozione, mentre era solo disperazione.  

 La gente mi passava accanto sfiorandomi il braccio. Mi sembrava strano che nessuno mi fermasse e mi chiedesse il perché di quel camminare  sotto la pioggia senza guardare dove andavo, il perché di quello sguardo attonito e disperato.

Mi veniva da ridere per quella beffa del destino e la pioggia scendeva lungo il mio viso insieme alle lacrime.

Percorro il corridoio appoggiandomi al braccio della mia custode. Mi sento debole e mi gira la testa. Lo stomaco mi fa male. I pochi passi che ci separano dalla stanza mi sembrano infiniti. Mi siedo sul letto, un sudore freddo mi copre completamente mentre una spada infuocata mi trapassa il ventre.

-Mi sento male.

-Vuoi che ti accompagni in bagno?

-Sì.

Cerco di alzarmi, ma non ce la faccio. Una nausea irrefrenabile mi sconvolge lo stomaco, le gambe non rispondono e senza potermi opporre all’onda che mi travolge vomito sul pigiama, sulle lenzuola, sul pavimento. E non riesco a fermarmi neppure quando nello stomaco non c’è più nulla. I conati mi squassano fino alle ossa.

-Mariavergine, ma cosa combini? Angela- grida la mia custode -Angela, corri, porta delle lenzuola, vieni ad aiutarmi. Questa vomita anche l’anima.

Qualcuno mi fa un’iniezione, anche se io protesto e dico che non la voglio.

-Mi farà dormire. Non voglio dormire. Non posso.

Le due donne mi tolgono il pigiama sporco, mi puliscono, cambiano le lenzuola. Mettono in ordine la stanza.

Io sto tremando. Un freddo assoluto, mi avvolge come un sudario. Tremo dalla testa ai piedi.

-Ho freddo.

-Vedo. Stai tremando. Sei gelata, figlia mia. Angela va a prendere un’altra coperta, indanto io le massaggio le gambe. Sei bianca come un lenzuolo. Su bella, reagisci.

I miei denti battono tanto forte che penso che si romperanno. Arriva Angela con la coperta. Le due donne si danno da fare intorno a me. Una mi massaggia le gambe e l’altra le braccia, con forza. Il contatto con le loro mani mi da finalmente un po’ di calore. Sembrano soddifattte. Mi coprono, mi danno un’ultima occhiata e se ne vanno, bisbigliando tra loro parole che non capisco.

Era tardi. Uscii di corsa trascurando il consueto rituale scaramantico, preoccupandomi solo di avvisare la vicina che andavo via  e affidandole il piccolo.

Per strada le vetrine davanti a cui passavo di corsa mi rimandavano l’immagine di una donna che non riconoscevo. I capelli, che avevo legato col solito nastro, pendevano in ciocche stoppose e disordinate, il vestito che mettevo sempre per le audizioni mi stava stretto. Guardai i miei piedi. Le scarpe erano arrivate al limite della decenza. Non sarebbe più stato sufficiente lucidarle bene.

Arrivai in ritardo. Buona parte dei colleghi avevano già fatto la loro audizione.

Aspettando il mio turno mi resi conto che mi stavo rosicchiando le unghie. Da quando avevo preso quella terribile abitudine? Le mie belle unghie lucide e bianche…

Toccava a me. Guardai il maestro. Era famoso più per il suo pessimo carattere che per la sua abilità. Sperai che non succedesse…

Invece mi chiese  proprio l’unico pezzo che non avrei voluto eseguire. Il brano che non ero più stata in grado di suonare da quell’ultima volta a Vienna.

-Io avrei preparato un altro pezzo…

-Non mi interessa cosa lei ha preparato. Se non sa suonare quello che le ho chiesto vada pure,  e non ci faccia perdere tempo.

-No. No…

Le mani mi tremavano così forte che a stento riuscivo a tenere l’archetto. Suonai. Non so come riuscii ad arrivare fino in fondo. 

-Si accomodi. Le faremo sapere.

Sapevo da sola che non sarei stata presa. 

Sono rimasta sola, sola con il sonno che arriva e che non sono in grado di fermare. La mia mente ferita ha cercato con tutti gli espedienti possibili di allontanare questo momento. Ha provato a seppellirlo nel recesso più lontano del cervello, ma, come un tappo di sughero che viene a galla, così il ricordo risale la corrente del pensiero e torna alla coscienza, sua naturale destinazione.

Non vorrei addormentarmi perché so che sarò costretta a sapere. Lotto con tutte le mie forze contro il sonno, ma sono così debole. Le palpebre sono pesanti, non riesco a tenerle sollevate. Il freddo mi sta passando e il tepore che mi invade agevola la discesa agli inferi del sonno. Il farmaco che mi è stato iniettato altera la chimica del mio organismo guidandolo verso un paradiso artificiale che per me si traformerà nel peggiore degli inferni.

So di sognare. È lo stesso sogno di sempre eppure non è lo stesso. Ho una percezione diversa della stanza dove mi trovo e di me. Lentamente emergono dal buio i mobili, gli oggetti, i quadri. La stanza perde il suo aspetto anonimo e si connota con precisione. Questa è la mia casa. La finestra è aperta  Le tende leggere si muovono carezzate dal vento. Potrebbe essere una visione serena, ma la preoccupazione e il nervosismo sono dentro di me. Sono mesi che non ho lavoro e non riesco a prepararmi nel modo giusto alle audizioni.

Ho davanti a me lo spartito e cerco di riprodurre le note con la perizia che so di avere, ma che non riesco a ritrovare. Lui piange in continuazione. Sono indispettita. Logorata. Non riesco a concentrarmi. Il violino scivola dalle mie mani sudate. I capelli, che ho raccolto come al solito nel nastro, ricadono ribelli e si appiccicano al collo ostacolando l’appoggio dello strumento. Riprovo un accordo.

Non va. Ricomincio, per l’ennesima volta, dal passaggio più difficile.

-Eccolo. Lo sapevo. Se fa così non riuscirò mai a farcela. Ssssst. Buono. Dormi…

Guardo la porta chiusa. Spero che smetta. Per un attimo torna il silenzio.

Poi più forte di prima si risente il pianto, inesorabile, potente, che risuona nelle mie orecchie mandandoni in merda il cervello.

Sono irritata. Di più. Sono rabbiosa.

Guardo la porta chiusa. Mi avvento sopra  la maniglia e apro.

Lo so. Lo so quello che ho fatto. Ora lo so. Non volevo che succedesse. Volevo solo che smettesse di piangere. Non volevo fargli del male. Non mi crederà nessuno.

Il risveglio è la prova più terribile che mi aspetta. Non posso più fare finta. Il dolore e la vergogna sono così forti che più niente esiste intorno a me. La via d’uscita però mi è subito chiara.

Per fortuna ho messo via tutte quelle pillole che mi davano per dormire. Speriamo siano sufficienti.

Scendo dal letto. Mi gira la testa, ma reggendomi ai muri riesco ad arrivare al bagno.

Prendo la mia trusse e cerco le pastiglie. Sono  disseminate nel fondo della piccola borsa. Con pazienza le raccolgo tutte e le allineo sulla mensolina sotto lo specchio. Sono un bel numero. Ne rintraccio ancora una, che si era nascosta in un angolo tra le cuciture della stoffa.

Le conto. Come se fosse importante. Sono ventisette.

Prendo il bicchiere di plastica che sta proprio lì accanto e lo riempio con l’acqua del rubinetto.

Comincio a ingoiare due pillole alla volta. Con metodo e determinazione. Mi viene nausea, ma resisto. Sto male, ma il pensiero che presto sarà tutto finito mi da una inaspettata consolazione. Non lascio nessuno dietro di me. L’unico rimpianto è per la musica. Solo lei. Mi dispiace solamente lasciare lei.

Le gambe stanno per mollarmi, ma mi reggo al bordo del lavabo e porto a termine la mia impresa. Mi butto sul letto. Non voglio pensare a lui. Non a quello che ho fatto. Chiudo gli occhi. Ora posso dormire.

-Angela! Corri. Presto! Chiama il dottore. Questa deficiente sta male.

-Ma male come?

-Ha tutti i sintomi dell’avvelenamento.

-Ma come ha fatto?

-So io come fanno. Quando arrivano qui non ricordano più niente. Quando alla fine riescono a ricordare quello che hanno fatto, cercano di morire.

-Ma la sorvegliavamo. Non è possibile.

-Figurati, con tutto quello che abbiamo da fare, ce la fanno sotto il naso. Fingono di prendere le medicine e le tengono da parte. Poi le ingoiano tutte insieme. E noi non ce ne accorgiamo neppure. Questa poi sembrava tanto calma. Sono le peggiori. Ti sembra di poterti fidare, e invece…hai chiamato l’ambulanza?

-Sì, sì. Arrivano subito.

A tratti la coscienza torna. Sento che qualcuno mi prende a forza dal letto e mi deposita su una barella. Spingono il carrello velocemente nel corridoio, ma prima di allontanarmi faccio in tempo a sentire la mia custode.

-Chissà se ce la farà.? Hanno telefonato stamattina dall’ospedale dove è ricoverato il bambino. È  ancora in coma.

 


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