“Il boomerang” di Piero Castoldi


 

«Chissà?» gli venne da pensare, sbirciando dal parabrezza l’edificio delle vecchie scuole «Chissà se è ancora lì sul tetto?»

Sorrise tra sé trovando quella domanda ridicola e priva di senso. Come avrebbe potuto resistere lassù tutti quegli anni, visto che ne erano trascorsi più di quaranta?

Rallentò per vedere quanto fosse cambiato l’aspetto delle scuole, cercando nel frattempo un buco dove sostare l’auto. Lo trovò, parcheggiandola tra la rastrelliera delle biciclette e la lapide dei caduti. La rastrelliera era vuota, segno che era ancora tempo di vacanze. Spense il motore lasciando a metà un brano degli Uriah Heep, aprì la portiera e scese, con una gran voglia di tornare dentro le quattro mura che lo avevano accolto da bambino. O magari farci solamente un giro attorno, sfiorandone con le dita l’intonaco come faceva ai tempi con la scheggia di un mattone, tracciando ondulanti linee sull’intonaco. Si sarebbe spinto fino al portone d’ingresso. Quello stesso dove un mattino, prima del suono della campanella, quello scemo di Baldini s’era messo a incidere con il temperino una vagina e la scritta ”Abbasso la Juve’. Il preside l’aveva beccato dal piano di sopra intimandogli di non muoversi finché non fosse sceso a punirlo. Ne ebbe per l’intero pomeriggio, quando sotto lo sguardo attento del bidello, fu costretto a stuccare lo sbrego e dargli una mano di vernice.

Se quel giorno si fosse messo a scambiare le figurine con Pincetti, invece di scolpire nel legno le sue passioni, si sarebbe certo risparmiato, oltre la fatica, la tirata d’orecchi di sua madre. E noi non ne avremmo riso fino a imbestialirlo, da non farsi più vedere per due giorni. Poi, passata l’arrabbiatura era ricomparso, così come riapparve quello stesso giorno, una seconda vagina uguale alla prima, stavolta più grande e disegnata col gesso sulla parete della palestra. 

«È un ragazzino difficile!» insisteva spesso la maestra Boba con le colleghe «Intelligente. Sveglio… Ma difficile. Non capisco cosa gli passa per la testa, ma non dovremmo fargli ripetere l’anno.»

Intanto gli erano fioccate le note sul registro ed era stato cacciato all’ultimo banco. Ultimo ad essere interrogato e ultimo ad essere promosso.

Però nella vita era stato il primo tante altre volte. Primo a prendersi la Ducati scrambler gialla, il primo a sposarsi, ed il primo ad avere un figlio purtroppo morto in un incidente, riuscendo ad ammalarsi per quella disgrazia fino a lasciarsi spegnere. Per primo.

Lo ripensava con nostalgia. L’unico con il quale avesse fatto a pugni, un giorno, finendo poi col berci assieme una gazzosa al bar del Sole.

Negli anni qualcuno della compagnia se n’era andato lasciandogli in eredità la comprensione della fragilità e della fugacità umana, e addosso quel senso di precarietà che lo accompagnava nel quotidiano. Negli anni erano morte Luisa, poi Carla, e infine, qualche anno dopo che se n’era andato Baldini, era toccato a Rossella imboccare la strada del camposanto, quando la malattia l’aveva consumata.

Sarebbe andato a trovarli ora che era capitato da quelle parti. L’avrebbe fatto una volta terminata la passeggiata attorno alle scuole. Appena finito di respirare quel buon odore dei banchi di legno, del gesso alla lavagna, o delle matite temperate e dell’inchiostro. Appena finito di udire la voce della maestra alzarsi dalla cattedra. Il tempo di riaprire gli occhi per vederli ancora lì. Tutti quanti. Nei loro undici anni. Pronti ad appiccicare la gomma da masticare sulle carte geografiche o a tirarsi le palline di carta assorbente masticata e contare le cimici sulle tende di tela delle finestre. Gli avrebbero sorriso dei loro undici anni per poi correre in strada, tirandosi dietro Baldini, prima che istoriasse una volta di più il portone delle scuole. O prima che iniziasse a tirare le figurine contro il muro assieme a Pincetti.

Sarebbe passato a trovarli, portandogli un mazzetto di chissà quali fiori, pensando a quale effetto… quale sentimento. O cosa avrebbe provato nel vedere i loro ritratti incorniciati sul marmo invece di rivederli nella foto scolastica di fine anno.

Calciò con la punta della scarpa un sasso che ruzzolò lontano rimbalzando più volte sull’asfalto per finire in un tombino. Tirò su col naso quel grumo di commozione che gli era salito dentro. 

«Se era per farsi venire il magone, meglio starsene a casa!» Imprecò, appoggiandosi sul cofano, con le mani in tasca, e lasciarsi fuggire un sospiro.

Poi si tirò in punta di piedi a gettare uno sguardo oltre i vetri del corridoio, pensando a quanta gente era passata lì dentro. A quanti alunni avevano calpestato quelle mattonelle brunastre, saltandole due a due. A quanti se n’erano già andati. Si fossero ripresentati tutti assieme, il corridoio si sarebbe presto popolato di fantasmi.

Già! I fantasmi.

La vera ragione per cui non gli era riuscito di recuperare il boomerang sul tetto.

I solai delle scuole, si sapeva, erano popolati di spettri. Ombre sedute composte sui vecchi banchi di scuola, curve a leggere storie su ammuffiti sussidiari o intenti a sfogliare i loro voti sul registro. Oppure nascosti dietro lavagne incrinate, sconnessi armadietti o polverosi mappamondo di cartapesta. Protetti nelle penombre del sottotetto in attesa di interrogare quel nuovo arrivato. Colui che si era azzardato a disturbarne la pace cercando di recuperare un boomerang finito sulle tegole.

Ne aveva sentito parlare tra bidelli nell’ora del refettorio, ed erano storie poco allegre. 

«Il tutto risolto con uno scheletro umano. Finto per giunta!» si disse, ridendo tra sé dei bidelli e dell’ingenuità dei ragazzini «Uno scheletro di cartapesta, spedito dritto in soffitta dall’aula di scienze quando i vandali gli avevano rotto le tibie e sfondato il cranio per infilarci dentro dei fogli di quaderno appallottolati.» Anche quella volta ci fu chi sospettò di Baldini.

Guardò in su la grondaia e lo spiovente al displuvio del tetto. La scossalina del tubo di scolo arrugginita aveva disegnato un baffo marrone sul muro.

«L’ho visto cadere più o meno da quella parte.» 

«Chissà se con gli anni si era sbiadito al sole o se con le piogge era man mano scivolato giù per i coppi?» si chiese « Oppure se qualche muratore, rinnovando la copertura del tetto, se l’era portato a casa per suo figlio, o l’avesse gettato via.»

Accese una sigaretta e sbirciò da una finestra l’interno delle scuole, pensando come da piccolo, assieme gli amici, si era dovuto issare, aggrappandosi al davanzale, per spiare le compagne negli spogliatoi femminili.

«Oppure se le stagioni lo hanno via via consumato e comunque il tempo ha vinto come sempre la sua battaglia, disgregandolo… pulvis es, et in pulverem reverteris.» Soffiò in aria una boccata.

Quel boomerang… Perché gli era durato così poco? Il tempo di un solo tiro. Nessuna possibilità di una seconda prova.

Al primo lancio, quel maledetto gli era schizzato in alto, ruotando su sé stesso, per arrampicarsi fin lassù e scomparire, ripiombando giù oltre la falda del tetto. Precipitato come se un cacciatore lo avesse colpito tirando al piattello. Allora era corso veloce fin dentro al cortile, scavalcando il muretto di cinta, nella speranza che il boomerang, una volta sorvolato il tetto fosse finito sulla ghiaia o nel campetto di pallavolo. Le scuole erano chiuse per le vacanze estive, e dietro le finestre i corridoi erano vuoti, mancanti del vociare degli alunni. Solo il riflesso abbacinante del sole a battere sui vetri. Il vecchio insegnante di francese che si era affacciato alla porta, zoppicando con il bastone giù per due gradini, gli aveva chiesto cosa facesse lì. Lui gli aveva guardato i radi capelli impomatati pettinati all’indietro, i denti sconnessi e infine le scarpe ortopediche ai piedi. Quindi gli aveva risposto con un mugugno, alzando le spalle: «Cerco il mio boomerang!» 

«Ah. la recherche d’un boomerang … vous devriez étudier la forme des verbes cet été.» gli aveva scandito, rientrando per la sala professori.

Lui si era rimesso a cercarlo sino all’imbrunire, perdendo con il buio ogni speranza.

Già! Quel boomerang. Rosso fiammante. Di plastica zigrinata con impresso il disegno di un uomo piegato su un solo ginocchio che tirava con l’arco, e gli adesivi incollati su un lato. Quando l’aveva scartato dalla confezione lo aveva soppesato e misurata la forma. Sul foglio di istruzioni erano illustrate le figure che mostravano come impugnarlo, lanciarlo flettendo il braccio, e infine riafferrarlo nella parabola di ritorno.

L’aveva comperato quel martedì alla bancarella dei giocattoli alla sagra del paese. Sul banchetto tirato in piedi a due passi dal distributore della Total. A fianco di quello degli animali dove ricordava di essersi fermato per qualche minuto davanti al cartone che teneva prigionieri una mezza dozzina di bastardini appena nati. Glien’era piaciuto uno dal pelo color caffè ma di portarselo a casa proprio non se ne parlava. Era troppo recente la morte di Bill, finito sotto un camion. E poi da quella signora, suo padre, l’anno prima, aveva comperato una coppia di tartarughe d’acqua che non era durate sei mesi. Un po’ come il pesce rosso vinto alla ruota della fortuna e ritrovato pancia all’aria dopo una settimana. Decisamente erano meglio i cani, o magari piuttosto un micio, ma sua mamma da quell’orecchio non avrebbe sentito, e suo padre, giusto per evitare discussioni, l’avrebbe assecondata.

A volte rimpiangeva di non avere fratelli. O una sorella. Insomma qualcuno che gli desse man forte, o che assieme a lui corresse dietro un boomerang, lì nello spiazzo delle scuole, oppure che lo aiutasse a scalare il muro di cinta della villa a fronte, a rubare per dispetto i fichi neri dalla pianta delle vecchie megere. Anche se in cima al muretto quelle ci avevano murato cocci di bottiglia tanto che i palloni che lo sorvolavano finendo nel giardino, sarebbero rimasti là, e quelle streghe avrebbero già dovuto averne una discreta collezione. E chissà se quelli alla pesca di beneficenza in parrocchia non fossero gli stessi finiti al di là del muro?

Invece col tempo aveva imparato a starsene da solo. A volte addirittura lo preferiva. Per intere giornate. Come gli era capitato due anni prima restando in casa a tifare per la Nazionale su quel vecchio televisore in cucina. L’anno dei mondiali d’Inghilterra.

Finì col fare l’abitudine a giocare da solo, e spesso non lo trovava poi così male.

Niente partite a pallone, niente giochi con le figurine, niente gara di cerbottane per le vie del paese. Forse perché i giochi solitari li trovava migliori, stabilendo regole che erano solo sue.

Era stato così anche quel giorno con il boomerang, ma quello aveva deciso di scomparire bellamente al primo tiro, e l’idea di passare dal sottotetto della scuole per andarselo a riprendere  l’aveva giudicata impraticabile. I fantasmi non avrebbero gradito la sua visita, mal sopportando chiunque disturbasse il loro sonno. Piuttosto ci avrebbero giocato loro con quel curioso oggetto di plastica rossa.

E lui… Messi da parte gli spiccioli delle paghette ne avrebbe acquistato un altro. Ne aveva adocchiato uno nella vetrina del negozio di casalinghi e giochi. Un boomerang di compensato che avrebbe scagliato in aria, quell’ultimo scampolo d’estate, in cascina dalla nonna, dove sull’aia c’era spazio sufficiente e i tetti delle stalle e del fienile erano bassi.

Ripercorse con lo sguardo la facciata dell’edificio accorgendosi di due donne ferme all’angolo a chiacchierare, a cavallo della bicicletta. La più anziana si era voltata ad osservarlo. Cercando di non arrossire provò a salutarle mentre quella lo fissava incuriosita.

«Cerca forse qualcuno?» lo interrogò anzitempo, alzando di un timbro la voce.
Le avesse confessato che stava pensando ad un vecchio boomerang, finito su quei tetti quarant’anni prima, l’avrebbe certo preso per matto.

«No signora!» le rispose, innervando un sorriso di circostanza «Solo un breve viaggio nel passato…»
«Lei ha frequentato queste scuole?» gli si avvicinò, accompagnando la bici per il manubrio.
«Eh… Un secolo fa… Mi ero messo in testa di rivederla, ma ho visto che dentro non c’è nessuno.»
«Le lezioni riprenderanno tra una decina di giorni, e la segreteria resta aperta solo al mattino. Le converrà ritornare…»

«Ma no! È stato solo un attimo di nostalgia. Passerà in fretta.»
«La sua classe era al secondo piano?»
«Perché me lo chiede?»
«L’abbiamo vista guardare in su…» s’intromise l’amica.

«Guardavo i tetti. Mi era tornata in mente quella volta in cui…»

«Anche lei ci avrà tirato chissà quanti palloni la sopra!» esclamò, senza lasciargli finire la frase. «Ancora adesso sa! Potrebbe contarli quelli intrappolati nelle grondaie.»
«E quelli che non finiscono sul tetto me li ritrovo in giardino.» disse la seconda indicando il muro di cinta della villa a fronte.
«Lei abita lì?» le domandò, lievemente sorpreso «Un tempo ci abitavano due signore piuttosto anziane…»
«Mia nonna e la sorella… la mia prozia.»

«Quanti palloni sono finiti là dentro…»

«A sgonfiarsi sulle rose…» sembrò scusarsi.

«Ma lei…» riprese quell’altra «Lei è di qui? È di queste parti?»

«Si. Ma parliamo di un sacco di anni fa!» affermò «Lì dentro ci ho fatto elementari e medie… Tra gli anni sessanta e i settanta… Guardi! Abitavo proprio lì!» Indicò un piccolo portoncino in legno che affacciava a un cortile: «Giocavo spesso qui fuori e qualche pallone finito nel giardino di sua nonna doveva essere il mio.»

«E qualche altro l’avrà calciato là in alto…» sorrise la più anziana.

«Già!» confessò a bassa voce «Una volta ci persi un boomerang… Proprio lì dove stavo guardando.»

Le donne si scambiarono un’occhiata divertita.
«Non è che spera forse di ritrovarlo?!» chiese quell’altra.

«Sa. Non sono passati proprio due giorni…» rimarcò la prima, con una smorfia ironica innervata sulle labbra.

«Inseguivo solo dei ricordi…» disse fingendo di guardare l’orologio «Però si è fatto tardi… Dovete scusarmi…»

«Ho parecchia strada da fare…» si inventò lì per lì, indirizzandosi all’auto. L’aprì con il telecomando e vi salì, rannicchiandosi sul sedile. Rain degli Uriah Heep riprese a suonare. Abbassò il finestrino e guardò fuori le due donne allontanarsi, calcando sui pedali.

«Perché m’è tornato in mente quel boomerang?» domandò a se stesso, abbassando di una tacca il volume.

Dal cielo che si era annuvolato, prese a scendere qualche goccia a macchiare il parabrezza. Si accese una seconda sigaretta soffiando il fumo nell’abitacolo, prima di affacciarsi un’ultima volta a sfiorare con lo sguardo i tetti della scuola. Girò la chiave e ingranò la retro, per poi avviarsi lungo via Roma per la statale.
Ora pioveva sul serio, ma era tempo di mantenere la promessa. L’ora di recarsi al cimitero. Si sarebbe presentato senza un mazzetto di fiori. Ma Baldini, Luisa, Carla e Rossella non ci avrebbero fatto caso. L’importante era che Emilio fosse lì. Ancora una volta a pensare con rimpianto agli amici perduti e versarne una lacrima circospetta sulle tombe.

Solo allora, mentre arrestava l’auto sotto i tigli, gli venne da pensare. Varcò l’ingresso del camposanto con quell’esaltante idea per la testa. Scendeva più fitta  e sottile adesso, e lungo i vialetti s’era già formata qualche pozza tra i masselli di cemento, e dalle foglioline del bosso stillavano gocce.

Perché gli era tornato alla mente il boomerang?
Semplice! Persino naturale nella sua chiarezza.

Quel boomerang era di certo la metafora della vita, pensò.

«Se lanciato per bene riporta indietro cose belle.» mormorò sotto un famedio deserto «Se lo si lancia male non ritorna affatto, lasciandoci lì come allocchi con il rimpianto d’averle perdute per sempre… Così come nella vita si perdono le occasioni, gli amici, le persone, i sogni lasciati andare…» 

Mosse due passi avanti guardandosi intorno e si tirò la giacca sulla testa.

«Così come quando si è speso bene il proprio tempo, qualcosa infine rimane, altrimenti non resta che dispiacersi in attesa di qualcosa che non tornerà. Che non ritorna.»

Quel boomerang finito là sopra era stato lanciato bene oppure aveva fallito? 

Probabilmente era stato lanciato male, visto che non era più ritornato. 

Sorrise, negando con la testa al riparo della giacca. Nell’aria era un profumo di resine e di fiori appassiti.

Sicuramente bene, visto che lui, dopo tutto quel tempo, era infine ritornato.

Lui era tornato. Emilio era tornato. Era tornato a cercare quel boomerang. Erano ritornati tutti loro nei suoi pensieri. Lo avevano chiamato e lui era stato a cercarli.

Quel boomerang era tornato! Finalmente. E finalmente gli aveva restituito tutti i ricordi. E assieme a quelli, quella dolce letizia degli undici anni. Assieme al profumo di matite temperate e all’odore di refettorio. Si era rivisto con loro come nelle foto scolastiche di fine anno. Assieme a tutti loro.

Gli amici. E ora si sentiva sereno.

Ne avrebbero parlato. Ne avrebbero ricordato. Anche se si stava presentando senza fiori in mano. Lo avrebbero scusato comunque, grati che fosse lì. Che fosse tornato. Emilio era tornato.

Forse scivolato lì con la pioggia. Come un boomerang.


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