"La fiaba della buonanotte" di Lucio Figini (parte quarta)


marsiglia

 

VII.

Il camper sembra la reggia della regina di un mondo in declino. Libri. Riviste. Oggetti di differente uso. Una bussola, tre pugnali, una vecchia bilancia, una lampada a olio. Odore di vaniglia. Lei sul letto, gambe incrociate, capelli raccolti, pantaloni scuri di cotone pesante. Nessun condizionamento. Ogni cosa, anche in quest’assurdo mondo, deve avere una spiegazione. Non è una Veggente, non è un demone, ma solo una ragazza, anzi una donna. E, nella migliore delle ipotesi, non ha alcun potere occulto.

Potrei essere all’interno di uno spettacolo teatrale, messo in piedi per un povero stronzo come me, ma in fondo non sono così importante. Nessuna luce elettrica, nessuna televisione o radio, nessun segno di civiltà in un camper modernissimo.

I seni sotto la felpa troppo stretta. Dovrei odiarti e odiare me stesso per ciò che mi hai ricordato, per ciò che mi mancava e che non volevo vedere. Una donna che non avessi paura di rompere sotto il peso delle mie voglie. Una donna non da amare, ma da usare per il mio piacere. Sono solo un uomo, dopotutto. E neanche dei migliori.

– Volevi parlarmi? – la sua voce riempie la stanza.

– Voglio tornare a casa.

– Come inizio non c’è male.

Sto in piedi a fatica, appoggiato a due stampelle improvvisate.

– Mettiti comodo – indica il letto – non ti mangio.

– Da quello che ho visto, non ne sarei così sicuro.

Sorride e si allontana da me. Riesco a sedermi sul bordo.

– Non giudicare, se non hai tutte le informazioni.

– Sono qui per questo, infatti.

– Spiegati.

– Ho vissuto giorni pazzeschi, mi sono perso in una specie di limbo. La mia mente non è riuscita a formulare motivazioni logiche per quello che accadeva. E sono andato in tilt.

– Continua.

– Ora sto meglio e so cosa voglio: tornare a casa. Mi puoi aiutare?

Si corica e si stira.

– Può essere.

La giornata è finita anche per lei, una lunga giornata per l’unica madre in circolazione.

– E cosa vuoi in cambio?

– Ti sei davvero ripreso, a quanto pare.

Non molto, ma ho un po’ di affinità con le persone e so che non fanno nulla per nulla.

– Vi ho sentito parlare, tu e l’uomo che comanda al Villaggio. Voleva me, vero? Stai rischiando grosso e di sicuro non lo fai senza un motivo.

– Ti aiuterò. Anzi, dovrei dire, tenterò di aiutarti. Ma a due condizioni: la prima è che tu risponda a tutte le mie domande senza esitazione.

Silenzio.

– Accetti?

Il mio sguardo su di lei.

– E la seconda?

– Dovrai fare una cosa per me, quando te lo chiederò.

– E vuoi che ti risponda a scatola chiusa?

– Anch’io rischio, non ti conosco e non so se manterrai la parola.

Non me ne frega molto di lei o di questo mondo di merda.

– La manterrò, alle tue condizioni.

Non distoglie lo sguardo.

– Se hai ascoltato bene, da quel buco dove ti sei nascosto, avrai capito che non abbiamo molto tempo, due settimane se siamo fortunati.

– Per fare cosa?

– Per scoprire quanto sia forte la tua motivazione.

Si alza e le sue gambe sfiorano le mie mani. Raggiunge un fornello a gas e accende il fuoco. Scalda una brocca, versa il contenuto in due tazze e me ne porge una. Dall’aroma è un the di ottima qualità.

– Ma come fate ad avere…?

– Qui le domande le faccio io.

Cambio di espressioni e umori in un battito di ciglia. Gentile e Fredda. Angelo e Demone.

– Allora non perdiamo tempo – le dico.

Sorseggia dalla tazza fumante.

– Perché vuoi andartene?

– Per tornare a casa, te lo ripeto.

– Il vero motivo. L’hai detto tu stesso: non perdiamo tempo. Non sembri un uomo stupido.

– Ho una figlia e devo tornare da lei.

– Come si chiama?

– Iris.

– Età?

– Sei anni.

– Dove sta adesso?

– Da mio padre.

– E la madre che fine ha fatto?

I miei occhi per terra.

– Non vedo cosa c’entri questo.

Appoggia la tazza sul comodino. Si alza e indica l’uscita.

– Abbiamo finito. Domani ti consegnerò a loro.

– Avevi detto che ero un ospite e non un prigioniero.

– Sei libero se lo desideri, ma sarebbe la stessa cosa. Non sei nato qui e dureresti meno di un giorno, ferito nella Foresta.

– Se n’è andata.

– E così ti ha lasciato solo a crescere una bambina di sei anni?

Pugni stretti.

– È morta, cazzo. È morta. Vuoi anche sapere come?

– Sì.

– Cancro. Quattro anni fa.

– Hai detto che devi tornare. Perché?

– Le ho fatto una promessa. Che sarei rimasto sempre con lei.

– E saresti disposto a tutto per mantenerla?

– Sì.

Respira profondamente, poi mi guarda con quegli occhi scuri.

– Anche a uccidere?

Accenno un sì.

– Pensaci bene prima. Hai mai tolto la vita a un essere umano?

– No, mai. Ma…

– Ora rispondi sinceramente – m’interrompe.

– Credo di sì. Credo che riuscirei anche a uccidere per tornare da lei.

Sorride.

– Bene allora, dobbiamo solo lavorare un po’ su questo credo.

Si alza. Allunga la mano sotto il cuscino e tira fuori una vestaglia bianca. Io mi volto e inizio a camminare verso l’uscita.

– Dove vai?

Paura mista fame.

– Senti, io non voglio…

Non mi degna di attenzione. Muove le mani verso la vita, poi slaccia la cintura, abbassa la patta e fa scorrere i pantaloni sulle cosce nude. Porta slip bianchi. Si siede sul bordo del letto, alza le gambe e termina sfilando i pantaloni dai piedi. Poi si toglie la felpa e sotto non porta nulla. Cicatrici sulle braccia e sulla pancia, piccole abrasioni sulle gambe, ma la pelle risplende alla luce delle candele, bianca come il latte.

Indossa la vestaglia. Si corica comodamente e si rivolge a me con aria distaccata.

– Non sopravvalutarti.

Non so rispondere.

– Non abbiamo ancora finito.

Sono sotto esame. Non è un semplice interrogatorio, perché non so quale sia il motivo di queste domande. Mi sembra di essere pesato e giudicato per qualche ignoto bisogno. E trovato scadente.

– Allora chiedi.

– Sei un italiano, giusto?

Rispondo a gesti.

– Lo si capisce da quanto parli male la nostra lingua.

– Me la sono sempre cavata.

– Non ne dubito, ma ho conosciuto persone originarie di ogni parte del mondo e hanno imparato la lingua meglio di te. Voi italiani fate fatica. Non devi essere stato molto in Francia.

Vorrei chiedere dove siamo ora, se in Francia o in un altro pianeta, ma lei non risponderebbe.

– Da cinque anni.

– Che lavoro facevi?

– Psicoterapeuta – le parole escono accompagnate da un sorriso disilluso.

– Non fare l’errore di credere che io sia ignorante, solo perché mi trovo qui. La tua occupazione in cosa consisteva?

– Tengo lezioni nell’università di Marsiglia. Ho anche uno studio privato, dove tratto una decina di pazienti. O forse dovrei usare il passato.

– Un professore. Lo dovevo capire subito. Esperienze di sopravvivenza? Lotta corpo a corpo o uso delle armi?

Mimo un no.

– Andiamo di bene in meglio.

– Se hai finito, tornerei alla mia tenda.

– Non era mia intenzione offenderti, ma non sono più abituata a trattare con le persone.

Ho di fronte a me il più eclatante caso, nella mia professione, di disturbo conclamato dell’umore.

– Mi sembra che te la cavassi bene con il capo.

– Il capo? Ah, Patrick, intendi. Lui fa parte di quelli del Villaggio, non sono persone.

La guardo.

– Ma bestie – conclude.

È la prima volta che ci troviamo d’accordo. Anche se evito di sottolineare che il suo uomo più fidato, un bambino che non supera gli otto anni, si gingilla con la pratica del cannibalismo.

– Ora ti vorrei fare io una domanda, se posso.

– Tu falla, al massimo… – indica la porta.

Cerco di non pensare alle sue forme, alla sua bocca, alle mie voglie e mi concentro sull’unica immagine che può aiutarmi a uscire da questo maledetto incubo.

– Tu conosci il motivo per il quale mi trovo qui?

– Sì.

– Ma naturalmente non me lo dirai.

– Lo sai anche tu, non ci vuole un’indovina, pensaci.

So che è successo qualcosa la notte precedente a quando mi sono ritrovato qui, ma ho solo ricordi confusi. Non può esserci altro motivo. Trascorrevo una vita piatta e i miei pazienti avevano problemi che oscillavano da una lieve depressione a un nulla nell’anima, che amavano spacciare come malessere del vivere.

– Ora vai. Domani ti devi rimettere in forze. Lue si occuperà della guarigione ed io dell’addestramento. Comunque stai tranquillo, non è la tecnica che conta, ma la motivazione.

Soffia sulle candele e il mio ritorno dal camper dell’assurdo è al buio. Il campo è silenzioso a quell’ora. Quasi non mi accorgo del bambino lupo, appollaiato sul tetto di una roulotte, di guardia.

 

VIII.

Rumori di passi in lontananza, gambe in movimento, come formiche ubbidienti con un compito da portare a termine. Mi adeguo a tanta frenesia e tento di tornare un essere umano.

Lue dorme sulla brandina, di fianco alla mia. Tuta marrone, una taglia di troppo, capelli sciolti, coricata di fianco, un braccio sotto il cuscino e l’altro che lo stringe. Bocca appena schiusa. È splendida. Mi spiace svegliarla, ma da solo non saprei muovermi.

– Lue.

Scatta di soprassalto.

– Scusa, David, dovevo alzarmi prima.

– Non c’è problema. Continua pure a dormire, dimmi solo dove posso trovare uno specchio e un coltello.

La barba inizia a irritare.

– No, no, non posso stare a letto. Devo occuparmi di te.

È ancora confusa dal sonno, ma in piedi.

– Aspetta un attimo – mi urla.

Riappare con uno specchio portatile, due lamette e schiuma da barba. Prendo tra le mani il barattolo e leggo l’etichetta: un simbolo ignoto. Anche la mia felpa porta lo stesso simbolo. Penso all’abbigliamento degli uomini del Villaggio. Mimetiche, anfibi militari e cappelli da cacciatore, stracci, coperte. Uno di loro indossava persino un poncho. Anche questa tenda sembra dell’esercito, ma adattata con il foro sul tetto. Mentre le roulotte non sono equipaggiamenti militari e possono avere una decina di anni.

– Grazie, Lue. Mi tieni lo specchio, per favore?

Per la prima volta dopo giorni, ho davanti agli occhi la mia immagine riflessa. È peggio di quel che credevo: zigomo gonfio, ferita all’orecchio, capelli tagliati a casaccio, sopracciglia spezzata a metà da una bruciatura, la guancia destra lesionata.

Un naufrago. Un disperato.

Parla più il mio viso, senza emettere suono, che mille sermoni accademici. A volte la vita segna il muso. Ne fiuti il tanfo. A volte serve più un odore che una schiera di parole.

Mi scendono le lacrime. Lue fa finta di nulla. Sono ormai giorni che non devo fingere, perché non ho Iris di fianco a me. Non devo renderla serena, farla ridere, far finta di essere felice o inventarmi che tutto andrà bene perché c’è sempre una speranza. Posso essere me stesso: un senza fede depresso e demotivato, un perdente che non riesce a superare la semplicità di una morte.

– Ti stai facendo male – Lue si accorge del sangue che scende, nel tentativo di rasarmi.

Hai fatto centro. È da anni che non faccio altro.

– Lo so. Mai stato capace di usare queste, ma dubito che tu possa trovarmi un rasoio. E comunque, senza elettricità, servirebbe a poco.

– Cos’è?

– Ma come! Un rasoio elettrico. Attacchi la spina e schiacci il pulsante.

– Non arrabbiarti. Sono una brava scolara, ma non conosco ogni cosa del mondo di fuori.

– Lascia stare, non farci caso. Sono io che a volte do di matto.

Le sue minuscole mani si muovono sulle mie gambe. Cambio fasciatura per i malati.

– Guarda – indica le ferite – stanno guarendo bene.

La sinistra non fa più male, osservo solo un taglio pulito, ricucito con cura. Il mio torturatore ci sapeva fare. La destra invece è ancora gonfia e i punti tirano. Sembra un tacchino arrosto che vuole espellere il ripieno.

– Non preoccuparti, guarirà.

– Chi mi ha sistemato?

– Io. La notte della febbre. Mi sono spaventata e ho chiamato Aleksandra. Ti ha fatto un’iniezione alla gamba e ti ho cucito.

– Sei una bambina, maledizione.

– Guarda che non devi preoccuparti, sono brava nel mio lavoro.

– Non è questo il punto.

È un dialogo assurdo ed è anche più assurdo cercare un punto in questa situazione. Prendo le sue mani tra le mie e la ringrazio per tutto quello che sta facendo.

– Puoi venire con noi a fare colazione, se ti va. Poi c’è lezione.

Mezz’ora dopo mi ritrovo seduto su una panca, a gustarmi latte a lunga conservazione con cereali ricoperti di cioccolato. Circondato da un esercito di mocciosi affamati e sorridenti. Il Maggiore continua a fissarmi.

Aleksandra mangia dalla parte opposta del tavolo di legno. Tutti lo stesso tipo di colazione, nessuna eccezione. Ogni volta si cambia, mi spiega Lue, domani biscotti e dopodomani the con pane e marmellata. Lei mangerebbe sempre biscotti, al cioccolato naturalmente. La stessa variante per i successivi pasti della giornata. A pranzo riso o pasta e verdura in scatola e a cena carne, pesce, formaggi e verdura, in scatola ovviamente, sempre intervallati di giorno in giorno. Carboidrati e proteine quotidiani. C’è della logica in questa follia, ghignerebbe Shakespeare.

Unico assente il mio nuovo amico, forse preferisce le proteine direttamente dalla sorgente.

Ognuno lava la propria ciotola in una fontana. Me compreso. Aleksandra chiede al bambino lupo, che inaspettatamente è saltato fuori dalla boscaglia, e al Maggiore di fare da sentinelle nei punti strategici del campo. E inizia la lezione. Chi mi ha tirato giù dal palo e portato qui sembra non abbia un nome. Tutti si rivolgono a lui a cenni.

– Oggi parleremo della vita fuori dal campo. In particolar modo di cosa sia un titolo di studio, di come conseguirlo o di come trovare lavoro senza.

Silenzio e attenzione.

– Ma prima – indica nella mia direzione – salutate David. È nuovo, dobbiamo avere un po’ di pazienza.

Ero indeciso se diagnosticare ad Aleksandra un disturbo dell’umore, un disturbo del comportamento, una depressione bipolare o una condizione borderline. Ora lo so: tutti. Causa? Ignota. Ma senza dubbio l’educazione o la mancata educazione hanno fatto il proprio dovere. È una contraddizione vivente.

La cosa più curiosa, tra le tante che non mi spiego, è come faccia a essere così preparata. Ma in fondo non m’interessa, il mio scopo è andarmene e lei potrebbe essere l’unica possibilità.

– Ciao David – in coro.

Rispondo con un cenno.

– Per prima cosa, quali sono i luoghi migliori per sopravvivere?

Lue alza la mano.

– Prego, Lue.

– Le città di mare. Ci sono più possibilità di lavorare, visto la vicinanza del mare e di un porto.

– Brava, ma non è il solo motivo, qualche altra idea?

– Il turismo – una voce lontana.

– Certo. Turismo. Molte persone in giro e, di conseguenza, molti locali aperti. Bar, birrerie, ristoranti. Questo significa più disponibilità di lavoro.

I ragazzi asseriscono, per fortuna che mi sono perso la lezione sul significato del termine locale.  Non avrei retto.

– Ma ora torniamo al tema della lezione. Nel mondo di fuori c’è la possibilità di acquisire titoli di studio che permettono di lavorare. Non solo lauree, ma anche corsi specifici che aiutano nella ricerca di un posto. Ora ve lo spiego in un altro modo.

Le parole si perdono nell’aria. Parole di una docente che si adatta a bambini che non superano i quattordici anni, ma che portano impressi molti tratti da adulto. Parole di sopravvivenza in un mondo descritto come più pericoloso della Foresta, perché meno sincero. Ma anche come la terra promessa, verso la quale occorre essere pronti a partire, qualora ce ne sia la possibilità.

Conclusa la lezione, si torna ai propri doveri. Un paio di bambini, che non supera i cinque anni, pulisce il capannone, un gruppo di ragazzine s’indirizza verso le roulotte, scope alla mano, un altro gruppetto entra nella tenda adibita a cucina. Aleksandra va nella Foresta e Lue mi accompagna lungo il torrente.

Una decina di minuti di cammino ed io mi fermo.

– Basta, sono stanco.

– Devi muoverti. Le ferite si stanno rimarginando, ma se rimani sempre coricato finirai per non riprenderti.

Spinge con forza.

– Fai solo il tuo dovere, vero?

– Be’, un po’ mi diverto.

Vorrei che conoscesse mia figlia. Così diverse e così simili. Possiede una proprietà del linguaggio strabiliante, per la sua età.

– Volevo chiederti una cosa. Quando ci siamo visti la prima volta, mi hai parlato di uomini grigi.

Il suo sguardo sul torrente. Nuvole lontane all’orizzonte e l’aria che diventa, poco a poco, calda.

– Mi puoi dire di più di loro?

– Prendono i bambini e li portano via. Anche qualche ragazzo, un po’ più grande, ogni tanto.

– E dove li portano?

– Non lo so, ma nessuno è mai tornato. Ne prendono uno per volta. Gli uomini ci raccoglievano in piazza e poi…

La voce muore in gola.

– Continua, ti prego.

– Poi loro arrivavano dal cielo.

– Con il paracadute, intendi?

– No. Con un grosso elicottero. Uno di loro, un uomo con gli occhiali, lo ricordo bene, ci chiamava e poi ci visitava. Solo dopo sceglieva chi portare via.

– Che tipo di visita?

– Allora non sapevo molto di medicina, ma credo che misurava la pressione, guardava la gola, forse per vedere se eravamo malati, poi l’esame del sangue.

– Venivano spesso?

– No, poche volte. A me è andata bene, non sono stata mai scelta.

– Per fortuna – dico a voce alta, tra me e me.

– Qualcuno diceva che portavano i bambini nel mondo di fuori, per avere una famiglia, per questo ci visitavano, perché i nostri futuri genitori ci volevano sani. Ma io non ci credo. Io credo solo ad Aleksandra. È l’unica che mi ha sempre trattato bene.

– E lei cosa dice?

– Che gli uomini grigi sono cattivi, che è meglio stare qui. Non voglio essere portata via e non voglio neanche tornare al Villaggio, gli uomini…

– Sh… – sussurro – sei qui ormai, al sicuro.

Mi chiedo da dove arrivi il torrente e dove finisca, se nel mare o in un lago. Mi trovo in un’isola o sulla terraferma? Una parte di me è convinta che lasciandomi trascinare dalla corrente troverei il nulla. Nel senso che il fiume si fermerebbe contro una parete d’ombra. Il mondo forse inizia e finisce tra il campo e il Villaggio.

Oppure mi sono rimpicciolito e vivo in un antro del mio stesso cervello e la Foresta non è che materia grigia, un labirinto fine a se stesso, senza uscita.

Il torrente si allunga, come un serpente annoiato, all’interno della boscaglia, ma noi non lo seguiamo. Un cenno del bambino lupo ci indica che è ora di fermarsi. E noi ubbidiamo.

 

 


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