"Prova a prendermi" di Roberto Negro


 

Geometrie perfette, linee sottili, letali.
Immobile osserva la sua preda che disperatamente cerca una via di fuga.
E’ solo questione di tempo, poi i movimenti si intossicheranno di stanchezza.
Si muove calmo sul filo sputato dal proprio addome.
Sembra una danza, un rito d’amore.
Infine l’abbraccio che non protegge ed un bacio freddo come la morte.
Il commissario Scichilone ogni mattina percorreva a piedi la passeggiata a mare, respirando la brezza che spirando da sud gli regalava l’illusione di fragranze siciliane.
A Ventimiglia era arrivato con promesse di una carriera rapida.
“Tu vai là, ci rimani un po’ e poi ti trasferiamo a Palermo, magari con una bella promozione.” Gli occhi tristi del dirigente ministeriale mentivano mentre evitavano di guardarlo in faccia.
“Ventimiglia: l’ultimo commissariato d’Italia” aveva commentato perplesso.
“Beh, dipende da che punto di vista lo guardi: se arrivi dalla Francia è sicuramente il primo.”
“Ma io preferivo…..”
“Ventimiglia, caro Scichilone e poi vedremo: vai…vai…tranquillo.”
Era giunto in città, accompagnato da Maria Assunta, una sera di gennaio dell’anno prima.
“Io qui non rimango neanche un giorno.” Aveva minacciato la moglie, osservando il profilo disordinato delle abitazioni del centro storico.
Non era andata via il giorno dopo, ma il mese successivo per non tornare più.
L’ultima immagine che gli rimaneva di lei era stata l’ondeggiante chioma corvina che spariva dentro il vagone di un treno in partenza per Palermo via Roma, biglietto di sola andata.
All’epoca lui aveva quarant’anni, era calvo con il collo taurino ed il fisico da lottatore. “Non bello, un tipo” erano state le parole della sua ex moglie quando si erano conosciuti.
Occhi scuri velati dalla malinconia, divisi da un naso con le narici larghe che si appoggiava su labbra carnose.
Figlio di un noto penalista palermitano e di una casalinga silenziosa.
Superata la soglia del suo ufficio venne accolto dall’aria appesantita dalle troppe sigarette che quotidianamente consumava in modo compulsivo.
“Deve smetterla di intossicarsi.”
La voce baritonale dell’ispettore Capurro lo aveva sorpreso mentre stava spalancando le finestre per fare posto al profumo fresco di un marzo inoltrato.
Basso, largo quanto una scrivania, gli occhi sporgenti con lo sguardo costantemente stupito, rappresentava il suo collaboratore più stretto, la spalla su cui piangere nei momenti di sconforto.
Cinquant’anni di cui gli ultimi trenta trascorsi nella Polizia.
“C’è qualche novità, Peppino?”
“Per il momento nessuna, a parte questa busta indirizzata a lei, priva di mittente, che è stata rinvenuta dentro la buca delle lettere in mezzo alle “schedine alloggiati” degli albergatori.”
L’involucro era ordinario, di colore giallo, privo di affrancatura.
Il commissario l’aveva aperto senza dargli nessuna importanza, estraendone un dattiloscritto che immediatamente appoggiò sul piano della scrivania.
Poi, dal cassetto, prese una busta di plastica trasparente e vi fece scivolare il foglio.
“Ma che sta facendo, dottore?”
“Guarda!”
L’ispettore si era avvicinato ed aveva letto a voce alta l’unica frase impressa.
ernesto@libero.

“Non capisco.” Affermò.
“E’ il mio indirizzo di posta elettronica.” Precisò il commissario.
“E allora?”
“Non capisci? Questo è quello personale, lo conoscono in pochi.”
“E allora?”
“Peppino, mi recapitano in una busta anonima il mio indirizzo di posta elettronica e tu non trovi nulla di strano?”
“No.”
“Cristo, Peppino.”
Accese il computer muovendosi rapido sulla tastiera.
Nella sua casella, oltre i soliti messaggi pubblicitari, ne compariva uno proveniente da veleno@sltnet.lk
L’oggetto recitava “Sofia Notari”.
Lo aprì: “Se sei bravo, prova a prendermi. Veleno”.
In allegato c’erano degli scatti fotografici che ritraevano una donna nuda, seduta su una sedia, legata mani e piedi con testa avvolta in qualcosa che non riusciva definire.
“Minchia!!! Peppino cercami nello SDI questa Sofia Notari, presto.”
L’ingombrante figura di Capurro si allontanò dall’ufficio per ricomparire dopo qualche minuto.
“Ne ho trovate parecchie, di diverse età.”
“Vedi un po’ se qualcuna di loro abita da queste parti.”
“Una abita a Ventimiglia in via Cavour 54 interno 4, nessun precedente, solo una cessione di fabbricato per l’acquisto dell’abitazione.”
“Presto andiamo.”
Via Cavour era la strada parallela a quella su cui si affacciava il commissariato: una linea di edifici anonimi e grigi separava le due arterie.
Il tragitto era breve.
“Dottore, se corre così, mi fa schiattare” aveva bofonchiato l’ispettore in un rantolo sordo mentre seguiva il suo capo che, dopo aver dribblato il traffico congestionato, marciava lesto lungo il marciapiede.
Il civico 54 si materializzò tra la vetrina di una panetteria e quella di un orefice.
Osservarono l’elenco del citofono ed ebbero la conferma che il nome della donna era presente tra quelli dei condomini.
“A che piano, dottore?”
“L’interno è il quattro e dovrebbe essere al secondo, se gli appartamenti fossero due per piano.”
Era così: Sofia Notari abitava in quello di destra rispetto al pianerottolo che raggiunsero dopo aver percorso tre rampe di scale dai gradini in ardesia levigata dal tempo e dall’usura.
Il campanello funzionava ed il suono si propagò con trillo assordante.
Nessuna risposta.
Scichilone pigiò nuovamente il nottolino ottonato.
Silenzio.
Appoggiò l’orecchio all’anta di noce scura, cercando di percepire un rumore, un suono.
“Guardi che sono due giorni che non la vedo. Forse è partita.”
Una voce sottile li sorprese alle spalle.
Dall’uscio opposto si era materializzato il viso raggrinzito di una donna anziana con i capelli color violetto.
“Come dice signora?”
“Dico che non vedo Sofia da un paio di giorni. Ogni mattina, prima di uscire per fare la spesa, passa a salutarmi chiedendomi se ho bisogno di qualcosa. E’ così gentile. Ma adesso sono due giorni che non viene. Sarà partita.”
Il commissario stava valutando l’affermazione della donna mentre nella mente si affastellavano le immagine della mail.
Si stava chiedendo perché gli era stata spedita.
Era chiaro che doveva esistere un nesso tra l’oggetto del messaggio, il suo contenuto e le fotografie.
Aveva tutte le caratteristiche di una sfida…prova a prendermi.
“Signora il suo terrazzo è comunicante con quello della signora Sofia?”
L’anziana non si era scomposta, rimanendo inchiodata dietro la porta, quasi a proteggersi.
Sembrava stesse elaborando la domanda con diffidenza.
“Ah, mi scusi, sono il commissario Scichilone della Polizia e lui è il mio collaboratore, l’ispettore Capurro. Dai Peppino mostra il tesserino alla nonnina, altrimenti non ci risponde.”
Dopo aver esaminato attentamente i tesserini di riconoscimento spostando lo sguardo dalle immagini presenti sui documenti ai loro visi, disse.
“Potrebbero essere falsi. Infatti lei non è la stessa persona del tesserino: questo ha i capelli, mentre lei è calvo. Adesso chiamo la Polizia, quella vera.” E chiuse la porta, sbattendola.
“Peppino, chiama la volante e fai venire qualcuno in divisa, altrimenti facciamo notte.”
Dopo alcuni minuti la divisa dell’assistente Rispoli risplendeva in tutta la sua bellezza davanti all’uscio di Matilde Gugliemi, classe 1920.
Il commissario bussò delicatamente alla porta dell’anziana.
“Ancora lei!!! Ma io ho già chiamato il 113 e adesso arrivano…ah siete già qui, li avete presi questi due imbroglioni.”
“No signora, c’è un equivoco: lui è effettivamente il commissario Scichilone.”
Sulle labbra di Matilde comparse una smorfia.
“Agente, lei mi garantisce che questi due signori sono della Polizia?”
“Certo, signora, sono il commissario Scichilone e l’ispettore Capurro, miei superiori.”
“Ma lei, agente, non è meridionale!!! è sicuro di essere della Polizia o si è mascherato?” Poi si fece da parte.
I terrazzi dei due appartamenti erano comunicanti, divisi solo da un vetro opaco.
L’assistente Rispoli aveva scavalcato facilmente la fragile barriera e si era trovato di fronte alle ante serrate di una porta finestra.
“Qui è tutto chiuso, che faccio?”
“Cerca di entrare, ho uno strano presentimento.” Aveva suggerito il commissario.
Il rumore del vetro che andava in frantumi aveva preceduto di poco quello meccanico della serratura della porta d’ingresso all’appartamento di Sofia Notari.
“Cazzo, dottore, mi viene da vomitare.”
Rispoli, pallido come un cencio, si era fatto breccia tra Scichilone e Capurro che aspettavano innanzi all’uscio.
L’odore acro della morte li aveva colpiti in faccia come uno schiaffo.
Sapeva di cose sospese, di attimi abortiti, penetrava nei sensi e s’inchiodava nello stomaco, nel cervello.
Dopo un sopralluogo ti potevi lavare sino a spellarti, ma sarebbe rimasto lì come un monito per ricordarti quanto eri fragile.
L’appartamento era composto da due sole stanze ed il servizio igienico.
Un piccolo disimpegno, su cui si affacciavano la camera da letto ed il bagno, conduceva in un ampio locale, con angolo cottura, illuminato da un’unica porta a vetri attraverso la quale si accedeva al terrazzo.
L’arredamento era sobrio ed essenziale, perfettamente anonimo, con una credenza impellicciata in finta noce, un tavolo rotondo con tre sedie ed un divano in tessuto stampato con grandi fiori rosa.
Tutto in ordine, lindo come dopo le pulizie di primavera.
L’elemento che stonava era lei: Sofia Notari.
Nuda, seduta sulla quarta sedia, legata mani e piedi, al centro della stanza.
Era un’immagine già vista.
La testa era avvolta in qualcosa che stentavano a decifrare.
“Ma cos’è?”
“Non ne ho idea dotto’.”
“Sembrerebbe…..no, no, aspettiamo che arrivi la scientifica. Anzi è meglio avvisare il magistrato ed il medico legale. Pensaci tu, Peppino, io esco.”
Il commissario aveva lasciato l’appartamento con lo stomaco che aveva preso posto dell’intestino. Aveva bisogno di aria pura.
Per strada era stato risucchiato dalla solita euforia ventimigliese.
Viandanti affaccendati in acquisti, automobilisti bloccati in una coda perenne che si scioglieva solo quando le saracinesche dei negozi si abbassavano con un cigolio che sapeva di arrivederci al giorno dopo.
Camminava lento, con lo sguardo a terra, cercando tra i giunti dei mattoni rossi dei marciapiedi le risposte alle tante domande che affollavano la sua mente.
“Se sei bravo prova a prendermi. Veleno.”
Chi poteva essere?
“Uno che mi conosce: mi ha scritto.”
Una sfida?
“E’ ovvio: prova a prendermi.”
Perché?
“Che ne so. Se lo sapessi avrei già risolto il caso.”
Che farai?
“Adesso ho bisogno di un caffè. Poi vedrò.”
Il fumo caldo di una sigaretta si era mescolato con l’aroma dell’espresso, incuneandosi tra i bronchi compromessi dall’eccesso di nicotina.
Non gli importava un gran che.
In un anno era il primo omicidio su cui indagava e questa era l’unica cosa veramente importante.
Aveva telefonato al collega della Postale chiedendogli di verificare l’indirizzo elettronico del mittente.
“Vittorio, il problema è che un indirizzo dello Sri Lanka.”
“Dello Sri Lanka? Ne sei sicuro?.”
“Sicurissimo.”
“Non sono mai stato nello Sri Lanka.”
“Conosci qualcuno che abita da quelle parti?”
“Nessuno. Ma se anche conoscessi qualcuno, che ci azzecca lo Sri Lanka con Ventimiglia e con Sofia Notari. L’omicidio è avvenuto qui, mica a Colombo.”
“Probabilmente l’assassino ha aperto una casella di posta elettronica con un gestore di laggiù e quindi avrà anche fornito generalità poco attendibili. Credo che sarà difficile risalire alla sua identità.”
“ E io che faccio?”
“Intanto aspetta. Mi hai detto che ti ha sfidato, quindi direi di provocarlo per farlo muovere, sperando che si tradisca.”
“Certo.”
Aveva dato fondo a tutte le energie mentali scandagliando gli angoli più remoti del proprio cervello, ottenendo in cambio solo un doloroso mal di testa.
Poi aveva acceso il computer per rispondere a Veleno.
“Bravo, bel lavoro, complimenti davvero.
Stai tranquillo che ti troverò, chiunque tu sia.
Scichilone.”

“Ragnatele, dottore, sono ragnatele sintetiche. Quelle che si usano nel cinema.”
L’ingombrante massa corporea di Capurro si era materializzata davanti alla scrivania del Commissario.
“Ragnatele?”
“Si, ragnatele. La donna presentava un foro minuscolo sul lato destro del collo.”
“Che foro?”
“Tipo la puntura di un insetto.”
“Ragnatele, insetto, sto stronzo che si firma Veleno…….la causa della morte?”
“Il medico legale ha detto che si riserva di stilare un referto completo solo dopo l’autopsia. Da una prima analisi dice che potrebbe essere stata avvelenata: i sintomi sono compatibili.”
“Quando sarebbe accaduto?”
“Due giorni fa circa, tra le quarantotto e le sessanta ore precedenti al nostro intervento.”
“Altre cose, impronte, tracce biologiche?”
“Nulla di tutto questo, ma alcune tracce del nostro uomo sono state trovate nel computer della donna.”
“Di che tipo?”
“Veleno aveva agganciato Sofia Notari in una chat-line. Il nickname della donna era Fiore Rosa. I due si erano scambiati diversi messaggi e nell’ultimo contatto, tre giorni fa, avevano concordato di incontrarsi a casa di lei.”
“Bastardo.”
La giornata stava volgendo al termine e Scichilone sentiva il bisogno di staccare.
“Voglio andare a casa: ho bisogno di fare una doccia.”
Si era alzato dallo scranno che aveva ormai preso la forma del suo corpo ed era uscito dal Commissariato.
Forse doveva mangiare qualcosa, ma lo stomaco era strozzato in un morso nervoso.
Alle ventuno, il traffico era praticamente assente così come la gente che sembrava essere stata risucchiata dalla bassa marea, lasciando le strade deserte.
Sul selciato il rumore dei passi che giocava con quello del volume di un televisore.
Quella sera non avrebbe percorso la passeggiata mare, non voleva guardare oltre l’orizzonte.
Inutile aggiungere altra malinconia.
Il portone dello stabile dove abitava era perennemente spalancato e le scale che portavano al suo appartamento, sito al primo piano, erano illuminate da una luce lattiginosa.
Non amava quella casa troppo chiusa da altri due palazzi che gli limitavano la vista del mare.
“Che schifo, io soffoco in questo loculo.”
“Maria Assunta, dammi il tempo di guardare intorno e poi cambieremo casa. Solo qualche giorno.”
“Forse non hai capito, io domani vado via.” Sintesi di un addio.
L’indomani no, trenta giorni dopo, si.
“Minchia.”
Poi la casa non l’aveva cambiata.
Era rimasto lì, nel disordine totale, con il frigo vuoto come i suoi giorni.
“Ti facevo più ordinato.”
La voce, secca come lo schiocco di una frusta, l’aveva spaventato.
Non si era voltato rimanendo immobile.
“Chi cazzo sei? Qui non c’è nulla da rubare.”
Si era portato lentamente la mano destra sotto la giacca.
“Cazzo, l’ho dimenticata in ufficio.” Realizzò.
“Non provare a fregarmi. Alza le mani e tienile sopra la testa.”
“Che vuoi?”
“Voglio te.”
“Me?”
“Si, tu, il migliore, il primo della classe, il primo in ogni cosa.”
“Ci conosciamo?”
“Da sempre. Ho provato a lanciarti la sfida, ma dalla risposta che mi hai spedito, intuisco che stai brancolando nel buio. Mi hai scritto per provocarmi perché non sai dove sbattere la testa.
Tutto sommato non sei bravo come vuoi far credere e per questo sarai punito.”
Un colpo violento alla base della testa e poi il buio.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, ma ora che i sensi ricominciavano a trasmettere stava realizzando di essere nudo, seduto ad una sedia, legato mani e piedi.
Una scena già vista, ma questa volta la vittima era lui.
Di fronte c’era un uomo con il viso immerso nel buio di una notte senza luci.
Aveva capito di essere giunto al capolinea e le parole gli morivano in gola.
Come in un film, i fotogrammi della sua vita gli stavano scorrendo davanti.
Le gioie poche, gli errori tanti.
Non ci sarebbe stata un’altra possibilità.
“Perché?”
“Non sei stato bravo.”
Quella voce conosciuta.
Scichilone stava scandagliando rapidamente il magazzino della memoria.
Non gli rimaneva molto tempo.
Era terrorizzato, ma non riusciva ad implorare pietà. Avrebbe voluto piangere, ma le lacrime non uscivano. Voleva urlare il nome della donna che amava, ma non riusciva ad articolare le parole.
Nella stanza solo le risa di Veleno che si era posizionato alle sue spalle.
Poi un sibilo.
Strati di un collante freddo gli si stavano posando sul viso, ostruendo gli occhi, le narici e la bocca.
Non riusciva più a respirare.
Avrebbe voluto strappare i lacci che lo bloccavano alla sedia e correre verso la finestra in cerca di ossigeno, ma il suo corpo aveva ormai i sussulti dell’agonia.
Poi l’aveva sentito arrivare di fronte.
Veleno si era seduto sopra di lui stringendolo in un abbraccio freddo come la morte.

“No….no…..ti prego…… no…..”
L’urlo lacerò il silenzio di un’alba appena annunciata.
Scichilone si era ritrovato seduto nel proprio letto, in un bagno di sudore.
Guardandosi intorno aveva capito di essere solo.
“Cazzo, un sogno!!! Stavo sognando.”
Lentamente aveva messo i piedi a terra e per un lungo attimo era rimasto con la testa tra le mani.
L’acqua bollente della doccia aveva cancellato in parte i percorsi gelidi dell’incubo.
“Ma che ho mangiato ieri sera?”
L’aria frizzante gli regalò il piacere di un respiro a pieni polmoni.
Non avrebbe percorso la passeggiata a mare, non voleva più guardare oltre l’orizzonte.
In ufficio c’era l’atmosfera di sempre, l’odore stantio di troppe sigarette e Capurro con lo sguardo perennemente stupito.
“Pensa, Peppino, che stanotte ho avuto un incubo così reale che pareva vero.
Un tizio mi recapitava una lettera anonima in cui aveva scritto solo l’indirizzo della mia posta elettronica: era chiaramente un invito a controllarla.
Ebbene, io verifico e trovo un messaggio sinistro del tipo “Se sei bravo, prova a prendermi. Veleno”.
Lo stronzo mi allega pure una serie di fotografie da cui emerge che è uno spietato assassino.
Hai capito? Una sfida in piena regola, un vero rebus.”
“E lei che ha fatto? L’ha preso?”
“No, è stato lui che ha mi ha catturato.
Mi ha aspettato a casa mia e dopo avermi tramortito mi ha legato nudo ad una sedia.
Aveva una voce che conoscevo, ma che non riuscivo ad associare a nessuno.
Poi dopo avermi manifestato una sorta di odio nei miei confronti, ha cominciato a spruzzarmi sul viso delle ragnatele sintetiche, quelle usate nella cinematografia.
Stavo soffocando ed il bastardo rideva.
Era talmente reale che mi sono svegliato in preda alle convulsioni. Ti rendi conto?”
“Deve essere stato terribile.”
“Vero, ma adesso è passato.”
Scichilone si sentiva meglio.
Raccontandolo si era liberato dell’incubo ed ora era pronto ad affrontare una nuova giornata.
“C’è qualche novità, Peppino?”
“Per il momento nessuna a parte questa busta indirizzata a lei, priva di mittente.”
L’involucro era ordinario, di colore giallo, privo di affrancatura.
Il commissario l’aveva aperto ed era impallidito.
“Ma che ha dottore?”
“Guarda!!”
L’ispettore si era avvicinato ed aveva letto a voce alta il testo.
ernesto@libero.it

 


Lascia un commento