“Il divieto” di Cynthia Collu


La porta era semiaperta, s’intravedeva a malapena l’estremità del letto. Non si riusciva a vedere nient’altro che il lenzuolo sfatto.

Francesca distolse lo sguardo, ma avrebbe voluto avanzare nel corridoio, magari solo due passi, il giusto necessario. 

Forse se si allungava ancora un po’ – un passo o due, facendo finta di niente – ce l’avrebbe fatta a vederlo. Magari era fortunata e lui giaceva sul fianco sinistro, così lo avrebbe visto in volto. Desiderava vedergli il viso, non la schiena. Solo un attimo. 

La tentazione era forte: un passo o due. Chi se ne sarebbe accorto?

Nel corridoio non c’era nessuno. Lucia era andata in camera del bambino, forse Pietro l’aveva chiamata per l’ennesima richiesta. Da una settimana pretendeva che la madre gli desse sempre retta, in ogni momento del giorno e della notte, e Lucia faceva fatica a non strattonarlo come un burattino e a non gridargli di smetterla. Che la piantasse una buona volta di darle il tormento. Che la piantassero tutti.  

Francesca sentì il bambino frignare, la madre che lo rimbrottava – una voce aspra e stridula, a stento soffocata – poi dei passi provenire dal corridoio.

Ritornò velocemente indietro, entrò in sala, prese in mano un giornale, lo lasciò, raccolse la scatoletta indiana che se ne stava abbandonata sul tavolino. Era ripiena di liquirizie. Fece per aprirla, poi la ripose.

Lui aveva i suoi stessi gusti, andava matto per la liquirizia a tronchetti.

Si lasciò andare sul divano ricoperto di plastica. Lucia le aveva detto che metteva il telo per via delle gatte, più volte aveva trovato il tessuto impregnato di pipì. Un giorno aveva visto Nico acquattata sul divano, col sedere fremente, alto, mentre la stava facendo. Per la rabbia le aveva preso il muso e glielo aveva ficcato nell’orina. Anche le gatte ci volevano a darle il tormento. 

Erano entrambe femmine – Tina era la più anziana – e quando era arrivata la seconda Lucia l’aveva chiamata “Nico” perché  formasse con l’altra gatta la parola “nicotina”. 

Gli amici avevano riso a lungo mentre lo raccontava. Sei proprio una toscanaccia, le avevano detto, e lei aveva rizzato le spalle, aveva puntato gli occhi su di loro e poi guardato Francesca col suo sguardo dolce. Era sempre stata dolce, Lucia. Adesso invece era rabbiosa, anche quando la guardava sembrava avercela con lei.

Lucia passò veloce dalla camera alla cucina. Francesca la sentì armeggiare con i medicinali; forse stava preparando il cerotto con la morfina. La vide passare di nuovo, tesa e concentrata, portava un contenitore di plastica con delle cannule. Si chiese a che cosa potesse servire. Non aveva il coraggio di disturbarla durante quelle operazioni, né di chiederle se aveva bisogno di una mano.

Delle voci provennero dalla camera. Prima quella di Marina, poi quella di Roberto. Quindi lui non era solo. 

Aspettò ancora qualche secondo, poi si alzò. Si ritrovò nel corridoio, a pochi passi dalla porta. Era aperta, ma dalla posizione in cui si trovava non riusciva a vedere niente, se non lo spigolo del letto. Ebbe voglia di avanzare, di farsi vedere sulla soglia, di dire agli altri, Ci sono anch’io. 

Adesso lo faccio, si disse, sono stanca di questa storia, ma poi esitò. Come l’avrebbero presa? 

Stette così per un po’, col cuore che le batteva forte. Nella camera ora tacevano. Sentiva il tramestio di oggetti spostati, il rumore delle scarpe col tacco di Lucia quando si muoveva da una parte all’altra della stanza. In casa non portava mai pantofole, teneva le stesse scarpe che metteva il mattino per andare al lavoro. Francesca si stupì di rendersene conto solo in quel momento. Poi sentì una voce, quella di Roberto, dire a Lucia che il cerotto da cinquanta era poco, doveva aumentare la dose se voleva che facesse effetto.

Lei gli rispose alterata, gli disse di non intromettersi, la sua voce sembrava un elastico teso che stesse per cedere. Disse ancora che non sopportava più che gli altri le dessero il tormento. Se non la smettevano tutti quanti si sarebbe buttata giù dal balcone.

Ci fu silenzio. Poco dopo arrivarono dei colpi di tosse. Profondi, cavernosi.

Francesca trattenne il respiro, poi in punta di piedi ritornò in sala. Si fermò vicino al tavolino. La scatoletta indiana giaceva dimenticata. L’accarezzò piano col dito, si ricordò della prima volta che l’aveva vista e non era riuscita ad aprirla. C’era una scanalatura nella parte di sotto, e il coperchio s’incastrava in quel punto. Era stato lui a farglielo vedere, aveva allungato la mano mentre lei teneva la scatola tra le dita. Per qualche secondo aveva lasciato la mano su quella di Francesca, e lei aveva sentito il calore del contatto. Poi le aveva fatto vedere come aprire la scatoletta. Si era ficcato una liquirizia in bocca. L’aveva fissata con gli occhi socchiusi, dondolandosi sulle gambe forti. Si erano guardati senza sorridere.

Francesca esitò con il dito sulla scanalatura, poi il suo pollice si strinse attorno al coperchio e lo fece girare. La scatola si aprì. Le liquirizie la guardavano smorte, rattrappite come rami secchi. Ne prese una e la portò veloce alla bocca. 

Mentre la spezzettava con i denti ebbe la sensazione di essere osservata. Si voltò. Sulla porta Lucia la stava fissando. Lei sentì il bisogno di scusarsi, Ho la bocca amara, disse con un mezzo sorriso.

L’altra non rispose. A Francesca sembrò che la liquirizia aumentasse di volume, non riusciva a succhiarla, se la rigirava con la lingua stando attenta a non fare rumori strani, non poteva inghiottirla e neanche sputarla fuori, così la mise in un cantuccio della bocca e la masticò adagio, come fosse gomma americana. Lucia continuava a tacere.

Vuoi che metta su un caffè?, le chiese Francesca. 

Si sentiva assurdamente colpevole. Ma di che cosa, buon Dio?

Sì, grazie, rispose l’altra. Le andò vicino, gli occhi la scrutavano in un modo bizzarro, sembrava volessero capire che cosa pensava lei di tutta quella storia.

Non è colpa mia se sta morendo, avrebbe voluto risponderle Francesca.

In quel mentre Roberto entrò nella stanza, fece cenno a Lucia di venire. Deve fare la pipì, disse soltanto. Lei si voltò precipitosamente, si affrettò a uscire dalla sala, si fermò, tornò indietro. 

Lo zucchero e le tazzine sono dentro il mobile bianco e il caffè è sulla mensola vicino allo scolapiatti, disse con un tono curioso, quasi dolente, Chiamaci quando il caffè è pronto. Poi aggiunse, Chiamaci dal corridoio, dalla camera si sente benissimo. Attese un attimo per essere certa che l’altra avesse capito tutto.

Non ti preoccupare, rispose Francesca.

Guardò i piedi di Lucia mentre lasciava la stanza, quelle assurde scarpe nere col tacco, perché non se le toglieva? facevano un baccano terribile, tip tap tip tap, il rumore la precedeva ovunque lei andasse, ne annunciava l’entrata e l’uscita di scena, tip tap tip tap, ma forse lei le teneva per produrre quel rumore, aveva bisogno di far sentire al marito moribondo che lei c’era, c’era sempre, ovunque, non sentiva forse i suoi passi in bagno, in cucina, su e giù per la casa? era lei che vegliava, era lei che non lo avrebbe mai abbandonato, che gli faceva scudo dal mondo esterno, non avrebbe permesso che la sua agonia fosse davanti agli occhi di tutti.

Francesca andò in cucina. Trovò la caffettiera, soffiò via i fondi dall’imbuto, la sciacquò sotto l’acqua corrente e la riempì sino alla valvola, poi si mise alla ricerca del caffè. Sulla mensola, aveva detto Lucia. 

Prese il contenitore, era marrone e aveva stampato in rilievo un grosso chicco rosso. Cominciò a riempire l’imbuto di polvere macinata.

Avrebbe aspettato che il caffè salisse, poi sarebbe andata in corridoio, appena vicino alla camera, e li avrebbe chiamati sottovoce. Il caffè è pronto, avrebbe detto. Magari si sarebbe giusto affacciata alla stanza da letto, una cosa veloce, solo per avvisarli, non avrebbe guardato, avrebbe tenuto gli occhi alti, ad altezza d’uomo, diritti verso la finestra, Il caffè è pronto avrebbe mormorato e poi sarebbe tornata in cucina. Non avrebbe guardato verso il moribondo, se a Lucia non faceva piacere lei non avrebbe guardato.

D’un tratto ci furono dei rumori in corridoio, un suono di tacchi, tip tap facevano, e dei passi strascicati, pesanti, che s’indirizzavano verso il bagno.

Francesca si bloccò con la caffettiera in mano. 

Lo stavano portando nel bagno di servizio che si trovava di fronte alla cucina. Bastava uscire e guardare un attimo solo. Accarezzarlo con gli occhi, dirgli mentalmente addio. Se faceva piano magari neanche se ne accorgevano, neanche la notavano, e lei poteva sempre dire che in attesa del caffè era uscita per andare in sala, che non poteva sapere che lui…

Tese la mano verso la maniglia, allungò le dita per toccarla. Il freddo improvviso del metallo la colpì come uno schiaffo.

Dài, si disse, spingi la porta, che ci vuole, un gesto veloce, un soffio d’aria che entra dal varco che si apre e lo vedrò, finalmente. Forse sarà girato verso di me e riuscirò a guardarlo negli occhi.

Non desiderava altro. 

I colpi di tosse la bloccarono. Lui si doveva essere fermato per tossire, e Lucia probabilmente lo stava sorreggendo.

Si vide con la mano sulla maniglia, nell’atto di spalancare la porta. Si spaventò. Nell’altra mano teneva ancora in mano la caffettiera.

Per fortuna non era uscita. Stupida, stupida!

La porta del bagno cigolò, tip tap fecero le scarpe di Lucia, di nuovo dei fruscii, dei passi strascicati, un rantolo. 

Fu chiusa con un colpo secco.

Francesca riprese respiro, si allontanò dalla porta camminando all’indietro, a piccoli passi. Ritornò verso i fornelli.

Da due mesi non lo vedeva, da quando era stato ricoverato in ospedale per l’operazione allo stomaco. Si era torturata al pensiero di non potergli essere vicina. Le sarebbe bastato stare seduta accanto al letto, tranquilla, senza dire niente, avrebbe tenuto le mani in grembo e avrebbe sorriso a tutti quanti. Senza disturbare.

Ma Lucia non voleva. Diceva che lui non desiderava nessuno, che troppa gente lo stancava, che non ce la faceva neanche a parlare, che cosa veniva a fare, la gente. A vedere cosa.

Francesca aveva ubbidito, aveva lasciato che ci andasse suo marito da solo. Gianni ritornava dall’ospedale e scuoteva la testa, Speriamo che ce la faccia, diceva soltanto. Le raccontò che l’operazione era riuscita, che i medici avevano deciso d’iniziare la radioterapia, tre cicli di una settimana per una seduta al giorno. 

Dopo solo un ciclo lui era diventato debolissimo, un uccellino sparuto che a malapena apriva il becco per bere, sempre assopito, sempre assente, così le raccontava Gianni quando tornava dalle visite. Si metteva le mani in tasca e guardava fuori della finestra. Mi mancherà,  diceva.

Francesca non capiva, Perché non gli sospendono la radioterapia? Così lo stanno distruggendo!

Bisogna tentarle tutte, rispondeva Gianni e si rimetteva le mani in tasca e guardava lontano, oltre il muro della stanza, oltre i palazzi, oltre i campi lontani e la fila di colline basse che tagliavano l’orizzonte, tutte corrucciate, guardava chissà dove e si mordeva le labbra, e lei pensava che lui stava per morire.

Doveva decidersi, andare a trovarlo, fargli sentire che lo amava. Non l’avrebbe abbandonato. Doveva andare.

Si risolse a chiederlo a Lucia. Mi farebbe piacere vederlo, disse. L’altra la guardò inespressiva.

Hanno iniziato a dargli la morfina. Sta tutto il tempo assopito, non riesce a parlare, quando ci prova la tosse lo spacca in quattro. Che ci vai a fare? Lo affaticheresti e sarebbe una pena per te e per lui.

Francesca non insistette.

Tre giorni dopo Gianni tornò dall’ospedale e le raccontò che l’aveva trovato accartocciato su se stesso come una vecchia pergamena, non riusciva nemmeno a ingoiare un sorso d’acqua. Lucia gli stava vicino e sorrideva con le labbra contratte; aveva chiesto a tutti di non andare più a trovarlo. Solo gli amici più intimi, aveva detto, si era arrabbiata persino quando qualcuno di loro era tornato nel pomeriggio dopo essere stato lì la mattina, Che venite a fare, non vedete che lo stancate? poi si era pentita, si era messa a piangere, si scusava, diceva che non voleva far vedere a tutti lo scempio di quel povero corpo. Che continuassero a mangiare a bere a divertirsi e a gustarsi la vita mentre lui moriva, non avrebbe cavato loro la voglia di piangergli addosso! 

Francesca ascoltava in silenzio, il capo chino.

Dopo un altro ciclo di radioterapia i medici dissero che non c’erano più speranze e lo spedirono a casa. Prima di dimetterlo suggerirono a Lucia di rivolgersi a un hospice per malati terminali. Lei rispose di no, grazie no, suo marito sarebbe morto nel proprio letto, tante grazie e fanculo a tutti.

Dal giorno del suo rientro era passata una settimana. Francesca non lo aveva ancora visto. Andava a trovare Lucia, le faceva la spesa, si prendeva Pietro e lo portava a giocare al parco. Quando tornava stava un po’ a chiacchierare con lei, si mettevano in sala, o in cucina. Se rimaneva sola si alzava, faceva qualche passo verso il corridoio, cercava di allungare gli occhi verso la camera.

Ancora un passo, si diceva, uno solo. 

Tratteneva il respiro, poi tornava indietro.

L’amica non le aveva mai proposto di entrare nella stanza da letto, neanche un accenno. Se ne stava rigida sul divano ricoperto di plastica, parlava e tendeva continuamente l’orecchio a ogni minimo rumore. Se sentiva il suono del campanellino scattava in piedi e si affrettava a uscire. 

A volte stava via più di mezz’ora.

Adesso mi alzo, si diceva allora Francesca, Passo appena davanti alla camera, un’apparizione veloce, giusto per dirle, io vado, scusami ma devo proprio andare,  si è fatto tardi, volevo solo avvertirti, lo dirò tenendo gli occhi alti, guarderò la finestra e lei non potrà dire che sono andata lì apposta.

Poi però non si risolveva a farlo. Aspettava fino a quando Lucia rientrava in sala, dopo un tempo interminabile, completamente dimentica di lei ch’era rimasta fino a quel momento da sola.   

Dal corridoio provennero rumori di passi strascicati. Stavano uscendo dal bagno.  

Francesca alzò lo sguardo e fissò la porta. Se non si decideva adesso non lo avrebbe più rivisto, quella mattina il dottore era stato chiaro, lui non avrebbe passato la notte. Se lo ricordava fragile, gli occhi scuri pieni di spavento mentre l’abbracciava forte prima di entrare in ospedale per l’operazione. Coraggio, gli aveva detto lei, e per risposta lui le aveva accarezzato la fronte.

Doveva aprire quella maledetta porta, come avrebbe fatto in un qualsiasi altro momento, come avrebbe fatto una qualsiasi persona normale, con tranquillità, che ci voleva? Così l’avrebbe rivisto. Non avrebbe potuto fare nient’altro che guardarlo, ma a lei sarebbe bastato. 

I passi strascicati si fermarono all’uscita del bagno. Adesso o mai più.

Qualcosa fece incespicare Lucia. Fanculo!, esclamò la donna.

Fanculo, la sentì ancora dire Francesca, Fanculo a tutti!

Fanculo, le avrebbe detto se avesse aperto quella porta.

Prese la caffettiera e la mise sul fornello. Aspettò che il caffè uscisse tutto e spense. Aspettò di sentire i passi strascicati, lentissimi, e il tip tap dei tacchi ritornare in stanza da letto. Poi uscì. Si fermò a pochi passi dalla camera, non alzò neanche lo sguardo per vedere lo spigolo del letto. Tossicchiò.

Il caffè è pronto, disse a bassa voce.

Poi ritornò in fretta in cucina. 


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