Va bene, d’accordo, ha vinto. Le racconterò tutto.
Ma deve armarsi di pazienza, perché ci vorrà del tempo, e aprire quella finestra, perché avremo sicuramente bisogno di fumare. E non faccia quella faccia, non ci vuole un RIS per capire che, a discapito di quel cartello, lei qui fuma. Si sente.
Da dove comincio… Tutto il meccanismo si è messo in moto, faccia conto, un mese fa. Tipica giornata d’autunno. È mai stato a Padova? Anche nelle giornate uggiose basta un mendicante che suoni “La vie en rose”, e già puoi immaginare di essere a Parigi. O forse sono io che me la racconto, per evadere almeno con il pensiero dalla routine dei miei giorni. Ad ogni modo, quella mattina avevo un bisogno disperato di caffè, lavoravo da ore su un crocefisso ligneo dell’ottocento. Mi sembrava di vederci doppio. Tempo addietro mi hanno proposto una di quelle macchinette con cialde a noleggio, ma ho rifiutato. A parte che il caffè fa schifo, mi lasci dire, ma io preferisco fare due passi tra le piazze fino al Ghetto, lì c è il bar di Italo. È un modo di staccare la spina, dare un po’ di aria alle idee.
Frequento il bar di Italo da quando ero piccola e ci andavo con mio nonno. Di nonno Renzo mi sono rimasti il negozio di restauro dove lavoro, l’abitudine del cappuccino di metà mattina, e la passione per l’arte. Mi ha lasciato tutto in eredità una quindicina di anni fa. In quelle due stanze che odorano di vernici e polvere, ho passato l’infanzia. Nulla sapeva rapirmi la fantasia quanto quei vecchi mobili, gli specchi dalla cornice dorata e il riflesso segnato dal tempo, beh che sia un po’ visionaria deve averlo capito, ormai. Mi sentivo Alice nel paese delle meraviglie, mi facevo trasportare dal profumo della cera d’api e volavo in mondi distanti immaginando altre storie, altre vite. Vite dove i bambini non restano soli e i genitori non muoiono per un banale incidente stradale. È stato lì che ho iniziato a sognare Firenze, e di poter lavorare su grandi opere famose. Ho passato a Firenze qualche mese per un corso di preparazione al master, ma poi la vita ha deciso diversamente… sa, il nonno…
Comunque Italo è tornato poco dopo con un cappuccino e mi ha chiesto come stessi.
Gli ho risposto distrattamente che quel crocefisso mi stava facendo impazzire, che la proprietaria deve essere una cretina integrale per lasciarlo in una soffitta con gravi infiltrazioni, e abbiamo chiacchierato un po’ del più e del meno. Alle volte penso che Italo mi abbia un po’ adottata.
Poi ho preso a scorrere il giornale, cercavo la pagina del cinema in realtà, chiedendomi se Titti, la mia amica Tiziana, avesse voglia di uscire. Sa, causa forza maggiore, negli ultimi anni la movida non mi appartiene, e il massimo a cui alle volte aspiro è un kebab mangiato sul divano davanti alla tv.
È stato allora che l’occhio mi è caduto su un trafiletto nella rubrica “Cultura in pillole”, che titolo idiota per una rubrica, non trova? Ad ogni modo c’era scritto: “Dopo due anni di permanenza a New York e il grande successo del suo ultimo romanzo “Mail to heaven” divenuto un best seller, rientra in Italia Sebastiano Verri. Lo scrittore terrà una serie di conferenze nelle maggiori città italiane. Prima tappa del tour Torino, presso…”
L’articolo era completo di fotografia: Sebastiano, che anche lei ben conosce, con la sigaretta stretta fra le labbra, sullo sfondo una finestra di una camera d’albergo e l’inconfondibile skyline newyorkese.
Guardare la foto e risentire il profumo della sua pelle come riaverla addosso era stato un tutt’uno, invece sono passati due anni da quando se l’è filata, quel gran figlio di puttana. Pardon.
Mi mancava l’aria. Tutt’un tratto ero così piena di rabbia. E mi creda, pensavo davvero di averla superata. Non era stato affatto facile, mi ci erano voluti mesi e ancora quando in radio passava una canzone che faceva parte della nostra playlist mi pungeva qualcosa in mezzo allo sterno. Ma con il tempo avevo imparato a domare tutte queste sensazioni. E invece mi pareva di esserci di nuovo dentro fino alle ginocchia. Ho pagato e sono uscita dal locale.
Stavo davvero male. Davvero male. Me la offre quella sigaretta adesso?
Ho puntato direttamente al laboratorio, e mi sono chiusa dentro. Appena ho ripreso fiato ho telefonato a Titti.
Mi ha salutato con il suo consueto “ciao carogna” e io le ho semplicemente risposto che Sebastiano era tornato. Mi ha chiesto se ne fossi sicura. Le ho raccontato del giornale, la foto e tutto il resto. E anche a lei ho detto che pensavo di averla superata, di essere pronta e invece… non può immaginare che fatica fosse solo parlargliene.
“E chi mai è pronta davanti alla foto del proprio ex e per giunta stronzo… scusami, ho una chiamata sull’altra linea…” Tiziana è una di quelle che non te le manda proprio a dire. Ma credo mi piaccia proprio per la sua schiettezza. Mentre la Primavera di Vivaldi occupava il tempo di attesa, ho ripensato agli ultimi due anni, quelli del “dopo Sebastiano”. Si può provare a metabolizzare la fine di una storia, ma finché resta qualcosa di irrisolto non se ne esce. E qui di faccende irrisolte, glielo garantisco, ce n’erano diverse.
Titti mi ha salutata poco dopo, e abbiamo deciso di cenare insieme. Lì per lì ho deciso di tornare al mio crocefisso, cercando di sforzarmi di pensare ad altro. È ancora sul mio bancone, sa. Dovrebbe vederlo, è bellissimo. L’artista è riuscito a cristallizzare l’ultimo istante di vita sul volto del Cristo. Negli occhi, volti al cielo, e sulle labbra socchiuse, echeggia l’urlo Padre mio, perché mi hai abbandonato? Con tutta la forza della disperazione e della sua solitudine. Guardarlo mi suscita una tenerezza senza fine. La struttura è coperta da muschi e le tarme hanno banchettato a lungo. All’inizio disperavo di poterlo recuperare, ma ora salvarlo è diventata una sfida. “Restaurare non è un lavoro. E’ una missione”, diceva mio nonno. Me lo ripeto spesso come un mantra, ma quel pomeriggio la tensione era troppo alta, non riuscivo a levarmi quell’articolo di giornale dalla testa. Ho finito per spezzare la spatola che tenevo in mano con due dita.
Tornando a casa mi ricordo che aveva ricominciato a piovere. Non sapevo decidere se facesse più freddo fuori o nel mio cuore. Stavo vivendo quella che pensavo una vita tranquilla, forse pure troppo. E invece lui torna e manda all’aria tutto. Quello sguardo da bandito triste, quello che mi ha fottuta sempre ogni volta che abbiamo incrociato le strade, mica l’aveva perso, anzi. Se devo essere sincera, sembrava ancora più triste di quando se n’è andato. Ma non mi sentivo propensa a preoccuparmi per lui. Poi però mi ha raggiunta la nostalgia e io che non brillo certo per coerenza e le strade per farmi del male non le sbaglio mai, per completare l’opera mi sono preparata un bagno caldo e, dopo aver messo nello stereo il nostro cd preferito, ho schiacciato play.
Ha presente? Se lo sarà sentito raccontare mille volte. Ho chiuso gli occhi e non ho avviato solo lo stereo, ma anche il mio film mentale. Sono tornata a due anni prima, una sera qualsiasi…
Dove andiamo a mangiare stasera?
C’è un pub poco distante, ti va?
A me il pub va sempre. Sei bellissima stasera…
E tu il solito bugiardo.
E poi eravamo nella sua auto, la musica che riempiva l’abitacolo e la mia mano appoggiata sulla sua gamba. Sotto le mie dita il suo muscolo che si muove con l’acceleratore e il tessuto morbido dei suoi pantaloni.
“And the wonder of it all
Is that you just don’t realize
How much I love you…”
Oltre il finestrino una notte che vorresti non finisse mai. Luci e movimenti lontani e confusi, contro la nitidezza di un presente che avevo sempre sognato. I suoi occhi e la sua barba. La sua voce che canta piano, un po’ per timidezza un po’ perché ha un ego che fa provincia ma è ben cosciente di essere stonato come una campana. Canticchiavamo insieme, con lui che mi cercava la mano, la stringeva intrecciando le dita alle mie, prima di ritornare al cambio. Non sapevamo nemmeno dove stavamo andando. Ma ovunque fosse, ci stavamo andando insieme.
“Ti spiace se facciamo un altro giro? Non mi va di parcheggiare subito. Non con questa canzone che va…”.
“Portami dove vuoi”. La sola persona a cui l’abbia mai detto.
Questo girare a vuoto di notte è una cosa che ci è sempre appartenuta, fin dai tempi dell’università, e l’abbiamo fatto anche la sera prima che scoppiasse la bomba, quando lui già sapeva cosa aveva fatto e che se ne sarebbe inevitabilmente andato. Sto stronzo. Mi scusi…
Rieccola la rabbia. Il film mentale non solo l’aveva risvegliata in pochi istanti, uccidendo quasi tutta la nostalgia in cui stavo annegando. Dio, mi sentivo così cretina. Lei non po’ capire quanto cretina mi sentissi. Sì, lo capisce, glielo leggo in faccia… non può che essere d’accordo vero? Ma io avevo una tale voglia di ferirlo, di fargliela pagare per tutto il male che mi aveva fatto…
Il telefono ha squillato nella stanza accanto, ha risposto la segreteria. Ma non mi hanno lasciato messaggi. Mi ricordo solo che dopo il bip c è stato solo qualche fruscio, un vociare lontano e la comunicazione si è interrotta. Perché mi è rimasto impresso? Perché ha interrotto il flusso dei miei pensieri peggiori. Glielo garantisco, sono irripetibili.
Tiziana è arrivata poco dopo con due pizze: “Per me tonno e cipolle e per te rucola e valium. Spero di aver indovinato” ha cinguettato nel suo stile.
E poi ha iniziato ad analizzare la situazione, sempre modo suo ovviamente. Dovrebbe conoscerla… le strapperebbe più di un sorriso. Ha esordito con:
“Allora, dì a Zia Titti cosa c’è che non va. A parte che stamattina hai scoperto che il tuo ex torna all’ovile. E non parliamo nemmeno di un ex qualunque. Ma del tuo amore impossibile, quello che ti trascini dietro dall’università. Quello ti ha piantata per seguire la donna della sua vita (la numero 1) e non opporsi al destino. Diceva così no il biglietto attaccato al frigo? “
Ho cercato di inserirmi con piccole precisazioni, ma lei non mollava.
“No! Zitta! non mi interrompere. Lo stesso che dopo più quindici anni di silenzio, in cui lo pensavamo inchiodato al sacro legame del mutuo con la donna del destino, tre anni fa torna a deliziarci con la sua presenza in piena burrasca bellica da divorzio. E tu, invece di prenderlo a calci nel sedere, l’hai accolto a braccia aperte”
“Pensavo fosse cambiato” sono riuscita a dirle.
“Gli uomini non cambiano. Mimì s’è sgolata a forza di cantarlo, e tu non hai capito un cazzo!” Ha continuato intimandomi il silenzio con un dito. “Comunque, lo ammetto, anch’io avevo deciso di rivalutarlo, lo stronzo. Quando ha detto che voleva proporre i tuoi diari ad una casa editrice, ho pensato: “sua maestà si è finalmente accorto che Alice non ha solo begli occhi e belle tette, ma ha pure talento! Che epifania!” Peccato che quando il libro appare in libreria, sulla copertina ci sia soltanto il suo nome, e tu non compaia nemmeno tra i ringraziamenti. E se non fosse abbastanza, conclude in bellezza partendo per New York con la sua nuova donna della vita numero 2 e bla bla, ossia quella topamorta dell’editor, viaggio pagato tra l’altro, con i tuoi risparmi quelli che gli avevi prestato perché… non lo voglio nemmeno sapere il perché…”
Siamo rimaste silenziose per un po’ quasi a recuperare le energie spese, nel parlare e nell’ascoltare. Titti era andata dritta al sodo come un proiettile, se mi passa la metafora. E io mi sentivo sempre più stupida. In quel momento non avevo nemmeno più chiaro se fossi più incazzata con lui o con me stessa.
“Hai uno spiccato dono della sintesi, lo sai? In realtà è più complicato di così, lui è…”
“Bastardo?” mi ha suggerito lei.
“Sì, anche, però…”
“Però un cazzo! Persino Candy Candy ha sfanculato quel gran figo di Terence per molto meno, credi a me. Minchia, non ha nemmeno avuto le palle di affrontarti! Ah, niente biglietto sul frigo questa volta, nell’era della rivoluzione tecnologica, ha spiattellato un paio di giustificazioni e t’ha scaricata con un whatsapp! Fosse stato almeno il Lenny Kraviz del sesso…”
Che succede… le è andato di traverso il fumo? Tutto ok? vuole un bicchiere d’acqua…? Le dicevo… dopo un’altra pausa in cui entrambe ci facciamo rincuorare dalla birra, provo a spiegarle il mio punto di vista: ma Titti non capiva. Nessuno può capire, Sebastiano per me era sempre stato una spanna sopra il resto del mondo. Ha sempre rappresentato quello che cercavo e viveva la vita che avrei voluto vivere. All’università era il bello e impossibile, quello con mille progetti e ideali inafferrabili. In realtà non mi sono mai sentita al sua altezza. Quando poi ho dovuto lasciare gli studi e Firenze per tornare a Padova e non me la sono sentita di vendere il negozio di mio nonno tutto si è complicato. Lui ha avuto una proposta di lavoro a Roma ed ha accettato, come era giusto facesse. Abbiamo provato a tenere i fili per un po’ di tempo, ma a Roma ha incontrato quella che ha spostato, e come ha detto Titti, mi ha lasciato un biglietto appeso al frigo, una mattina mentre ancora dormivo. Carino vero? C’è stato un momento in cui mi è sembrato anche di poterlo capire. Lui aveva sempre le sue grandi ambizioni, io un negozietto polveroso.
Tre anni fa, quando mi ha cercata ero incredula. Erano passati anni, e il rancore comunque era superato. Ho pensato davvero fosse cambiato qualcosa. Che finalmente fosse venuto il nostro tempo. Un po’ come dice Ligabue “se l’universo intero ci ha fatto rincontrare, qualcosa di sicuro vorrà dire…” sì… cazzate voleva dire… Scusi.
Che cretina… Dio, più ci ripensavo, più l’odio raggiungeva il suo picco. E mi sentivo in colpa.
“La tua colpa è stata non prenderlo a calci in culo nell’esatto istante in cui ti ha suonato il campanello, madame!”. E con questa frase lapidaria, Titti ha chiuso la questione.
Ma ormai qualcosa in me era scattato. Quella notte ho dormito male, quelle poche ore che sono riuscita a chiudere gli occhi, si mescolavano immagini di Sebastiano, della vita insieme, dei miei genitori, e ancora del libro. Mi svegliavo ogni volta sempre più agitata e sempre in debito di aria. Fino a quando non ho deciso che ero stanca di subire. Ho deciso che era venuto il tempo di agire e ho iniziato a buttare giù, su un pezzo di carta, i punti salienti di quello che era diventato il mio piano d’azione. E più scrivevo, più il mio respiro tornava regolare. L’universo parlava di nuovo e stavolta nessuna cazzata, ma una sentenza.
Pochi giorni dopo, a bordo del treno che mi portava a Torino ho chiuso gli occhi e rivisto il piano, che nel frattempo si era arricchito di dettagli.
Avevo cercato il sito del locale dove teneva il primo incontro con il pubblico. Beh, l’ha vista, la conosce, non è una libreria, ma uno di quei locali che i torinesi chiamano piola, un’osteria ma che dedica spazio e tempo ad attività culturali. È stata una fortuna perché guardando tutte le foto pubblicate mi ero fatta un’idea del posto e degli spazi, piccolo e con vie di fuga inesistenti.
Non creda sia arrivata sul posto impreparata. Ma, a dirgliela tutta, non me ne fregava un cazzo… almeno fino a stasera. Mi sono persuasa che Sebastiano dovesse pagare, a tutti i costi. E non tanto per essersi preso gioco dei sentimenti, o avermi rubato i soldi. Quelli vanno e vengono, e anche i sentimenti in qualche modo possono essere restaurati. Io lo odio, o forse potrei dirle, lo odiavo, per essersi preso la mia vita. Sebastiano ha rubato la mia storia e quella dei miei genitori. Si è preso la mia vita, i miei diari e ne ha fatta la sua fortuna, il suo romanzo vincente.
Fosse stato lui a sparami, mi avrebbe fatto meno male. Mi creda.
Potevo quasi vederlo, mentre intratteneva gli amici versando del vino e blaterando cose in merito all’aneddoto in cui avrebbe partorito tale idea, magari inventandosi il bancone di un bar, in una serata di pioggia e solitudine. Come le sa raccontare lui, le storie… Convincerebbe anche lei. Ma quelli sono i miei giorni, è la mia solitudine.
Ho sete… Grazie…
Come? Dove ho trovato la Beretta? Eradi mio nonno. L’ha sempre tenuta nel cassetto del banco di lavoro e io non l’ho mai spostata da lì, anche se ho fatto il porto d’armi. Il nostro negozio non ha mai dato troppo nell’occhio, ma ci sono stati tempi in cui c’erano oggetti di particolare valore e un paio di volte avevano provato a rapinarci. Il nonno non ha mai sparato a nessuno in vita sua, se non al poligono. Mi ci ha portato qualche volta, più per compagnia che per altro. Ma poco prima di ammalarsi mi aveva insegnato ad usarla. L’avevo quasi dimenticata, ma dopo l’eloquente riassunto di Titti, la rabbia si è fusa con l’immagine della vecchia 98FS. Un altro segno dell’universo, il mezzo per la vendetta a portata di mano.
Ho immaginato la scena tantissime volte. Il pensiero era diventato quasi un’ossessione. Lui seduto che firma svogliatamente autografi, io che mi avvicino e invece di porgergli il libro gli punto la pistola. Ero solo un po’ indecisa sul dove sparare, al cuore? Tutt’ora non sono convinta che ne abbia uno. Lei lo conosce, che dice? L’ho vista, ha alzato il sopracciglio… come se mi desse ragione… Capito, faccio finta di non averla vista…
Io che sparo e lui cade a terra guardandomi tra lo stupore e il terrore. Immaginavo le urla dei presenti ma avevo occhi solo la macchia sulla camicia aperta, che si allarga lui che mi osserva prima di perdere lo sguardo nel vuoto. E poi l’odore del sangue…
“La morte ha odori diversi, voi avete mai sentito l’odore della morte?” lo disse un criminologo ad un convegno all’università. Immagino lei lo sappia meglio di me. Ma anche io l’ho sentito. Agganciata alla cintura di sicurezza nel sedile posteriore dell’auto dei miei genitori. Questo forse non mi giustifica, ma credo che in qualche modo possa aiutarla a capirmi.
Trovare la Piola non era stato difficile, la proprietaria mi è risultata subito simpatica. Un po’ mi dispiaceva le toccasse affrontare il caos che ho poi scatenato, ma lo consideravo un “danno collaterale necessario”, lo definiscono così nei libri noir, non è vero? Tutto sembrava andare come programmato: la piccola sala si è riempita velocemente. La gente che non trovava posto per sedersi restava appoggiata contro le pareti, io mi sono fermata dietro. Non mi ha nemmeno notata entrando. Rispetto a due anni fa porto i capelli cortissimi e neri, il berrettino ha aiutato. Sebastiano ha intrattenuto il pubblico stando in piedi. Ci sa fare. Non ha cambiato stile, faceva battute per cui accennava solo un mezzo sorriso ma, con studiata pausa, lasciava il tempo agli altri di riderci su. Lo sa ammaestrare il suo pubblico.
Dopo un’ora di parole, di cui conosco forma e tono a memoria, in cui sembrava quasi commuoversi raccontando l’incidente capitolo 4 – terzo capoverso, è giunto tempo degli autografi. Tutto come da copione. Si avvicinava il mio momento e il mio respiro era ancora tranquillo. Non credevo a me stessa.
Si è accomodato dietro al tavolino, sorseggiando un po’ di vino che la proprietaria gli aveva portato, lasciando la bottiglia nell’angolo del tavolo. Ho riconosciuto la sua editor/donna della vita 2, poco distante in prima fila, continuava ad armeggiare con lo smartphone da quando si era seduta. Non doveva aver sentito mezza parola di quanto è stato detto e mi dava l’idea che nemmeno le interessasse.
Mi sono unita alla coda davanti al piccolo altarino dove Sebastiano si chinava a firmare la sua grande opera.
Io ero l’ultima. O per lo meno credevo di esserlo…
Ho lasciato cadere il libro davanti a lui con un mezzo tonfo.
Finalmente mi ha guardata e mi ha riconosciuta.
Il silenzio ha preso una consistenza gelatinosa. Siamo rimasti così… come sospesi. Come se per un istante percettibile il tempo si fosse fermato. Mi ero preparata anche un discorso, ma non sono riuscita a dire nulla, forse una parte di me si era illusa stavolta che fosse lui a dire qualcosa di sensato. E invece niente.
“Avanti, fammi cambiare idea, non hai tanto tempo” gli ho detto alla fine. Mi sembrava una bella frase d’effetto. L’avevo pensata in treno.
Istintivamente ho stretto la Beretta nella tasca del giaccone. L’ho visto seguire il leggero movimento del braccio e intuire.
È stronzo, ma non è cretino.
È scattato indietro con la sedia di ferro e ha allargato le braccia, con ancora la penna in mano e uno sbaffo di vino rosso sul labbro superiore. Con il pallore cereo della paura si notava tantissimo e l’ho trovato piuttosto ridicolo. Si è voltato verso la sua donna nel tentativo di dirle qualcosa, ma non ha spiccicato verbo. L’ho guardata anch’io. L’ha vista? Titti non sbaglia a definirla topamorta. Ok, d’accordo non può sbilanciarsi…
Comunque la tizia nonostante il frastuono resta concentrata sullo smartphone e non si accorge di nulla, è presa a far scivolare l’indice sullo schermo, l’unghia lunghissima e banalmente rossa non le rende le cose facili.
È stato allora che sono scoppiata a ridere. Lei deve essere arrivato in quel momento, vero? Lui era lì, immobile e pallido e io ridevo come una pazza. Glielo garantisco: è stata la risata rivelatrice e catartica migliore della mia vita.
E il resto lo conosce, visto che andandomene le sono incespicata addosso.
Non prima di aver preso un sorso di barbera dal suo bicchiere, e rovesciargli il resto sui pantaloni.
“Non vali nemmeno i 32 centesimi del proiettile. Figurati se per te mi fotto i prossimi 12 anni. Buona vita, stronzo”. Devo avergli detto una cosa così, giusto? Incisiva pure questa, dovrei segnarmela da qualche parte…
Ma… veniamo a noi. Dato che non solo non ho usato la pistola, ma non l’ho nemmeno tirata fuori dal giaccone, e i documenti della Beretta sono in regola e sì, spargere Barbera è disdicevole ma non ancora un reato, non ha altri motivi per trattenermi, Capitano, e io avrei un treno per Padova tra poco più di mezz’ora.
A meno che non decida di farmelo perdere invitandomi a cena, in quel caso credo che assaggerei volentieri quella che voi chiamate “farinata”, e potrebbe raccontarmi la storia di quel cd che tiene seminascosto lì, sotto quei fascicoli… Cloud Nine… a vederlo da qui… Allora, che dice?