La stanza è piccola. I termosifoni scottano. Fuori nevica. Le sedie sono occupate dai membri del direttivo e, nonostante sia vietato, molti fumano.
Alle spalle di Attilio Ricchiuti, che presiede la riunione, una foto sbiadita del Quarto Stato, di Pelizza da Volpedo: nobile sintesi delle nostre lotte, delle illusioni, delle utopie.
Più in basso foto di manifestazioni. Bandiere, facce, piazze. Ma più di tutto bandiere, in bianco e nero e, più recenti, a colori, con le sigle sindacali, gli striscioni con gli slogan, le bocche aperte, la rabbia, la rivalsa, la sconfitta. Piazza Ducale a Vigevano, Piazza della Vittoria a Pavia, Piazza Duomo a Milano…
Quando si doveva essere presenti e cambiare le sorti della classe operaia.
Ma che cazzo sto dicendo?
Davvero non ne ho ancora abbastanza di tutta questa gente, attorno a me? Eccoli, come sempre, seri e attenti all’ascolto del buon Attilio, il mio caro vecchio amico Attilio, compagno di tante battaglie, bello e autorevole, in giacca e cravatta e bretelle rosse, toscano spento tra le dita, orologio da polso posizionato di fronte, tra le carte della scrivania, per controllare i minuti del suo intervento e non sforare di troppo.
Fuori nevica. L’ho già detto. Viale della Libertà è un film in bianco e nero, le macchine rallentano, un corteo funebre, mi sembra. E qua dentro fa davvero troppo caldo.
“Dobbiamo rivendicare alle altre organizzazioni, non sono questioni di lana caprina, queste, il sindacato deve rinnovarsi, inetrfacciandosi sempre più con la società civile e superare una volta per tutte i condizionamenti partitici che condizionano le altre sigle da troppo tempo, retaggio di una cultura superata …” scioglie la lingua l’Attilio, col suo linguaggi orribile, che appartiene più o meno a tutti i dirigenti. Un martello sulle dita, un alito maleodorante che assorbe anche l’aria greve che c’è qua dentro, le sigarette di chi ancora si ostina a fumare (i vecchi), gli ammiccamenti, le risatine complici, insopportabili enigmi in politichese risolti all’ora di pranzo. Una bella mangiata e chi se ne frega …
Noi che pensavamo di possedere gli strumenti democratici per cambiare questo paese di servi, di “sissignore” a ogni ora del giorno, dipinti con cura, a volte cesellati dagli artisti del dissenso, quelli che dalla contestazione sono finiti diritti nei salotti TV a forgiare opinioni prezzolate di aria fritta. Quelli “ Io sto sempre dalla parte dei poveri, dei più deboli”, facile, con tre case, i calici giusti per ogni vino, le disquisizioni su calcio e politica moralizzando dai giornali, incasellati sempre dalla parte giusta, la parte dei più buoni.
Noi contro la corruzione e i privilegi. Noi, molti di noi, corrotti e privilegiati.
C’è puzza di chiuso. Assuefazione. Ogni tanto si leva, tra una frase e l’altra, qualche bolla di sapone. Sembra persino bella, leggera e fresca, portatrice di un pensiero nuovo e pulito. Ma, dopo, mica svanisce, non si dissolve come dovrebbe fare una bella illusione. Resta lì, galleggia, si deteriora ingiallendo, fino a marcire e incidere negativamente (anche questo va detto) sul mio sistema nervoso, alimentando l’odio contro tutti loro e il senso di frustrazione.
Adesso tocca a Filippo, il riformista, tra coloro che si vantano di appartenere alla vecchia guardia. L’amico fedele di tutti i dirigenti d’azienda, come dice sottobanco l’Attilio, che ancora sfila con lui alle manifestazioni ma poi, a livello Nazionale, lo critica sottilmente, come sa fare lui, delegittimandolo con virtuosi giri di parole.
“Non vorrei, ora, star qui e soffermarmi o tentare voli pindarici ma, nell’ultimo congresso di settembre, il nostro segretario Italo Zigoni, sosteneva …
Lo guardo svilito tra ribrezzo e malinconia. I più giovani, o i più opportunisti, lo stimano, Filippo Limonta, per via del suo stile puntuto, quanto basta egocentrico, la proverbiale cattiveria e, forse, anche il look impeccabile, le giacche di velluto, le sciarpette da ragazzino, il velo di barba e il capello lungo finto trasandato di successo. Un vigliacco come pochi, credetemi. Tutto un atteggiarsi da studente saputello. Supponente pallone gonfiato, traditore d’ogni causa, con in bocca, ogni tre, la parola più schifosamente abusata che io conosca: democrazia. Me li vedo proprio, lui e l’Attilio, a cena con le mogli, disquisire di vini raffinati, odiandosi amichevolmente a causa dell’eccessiva frequentazione. A me, non m’invitano. Una volta sì ma, ora, tutto è finito, non c’è più niente, se non il passato, da condividere. In compenso questi due fanno finta di andare d’accordo. Ma io so benissimo, come lo sa Attilio, che a Filippo brucia il suo successo e vorrebbe tanto fargli le scarpe. Oh, quanto gli rode al compagno Filippo che dietro quella scrivania sieda Attilio! Concreta inculata ai suoi danni perpetrata dal segretario Zigoni, affascinato dalla diplomazia cadaverica del suo delfino, Attilio Ricchiuti.
E io? Io chi sono, con tutto questo carico di letame, di odio inespresso? La vittima designata di questo stato di cose, il fiore candido reciso o semplicemente un incapace che ha perduto tutti i treni possibili?
Io sono soltanto quello laggiù, seduto in ultima fila, accanto alla porta, pronto a scappare da un momento all’altro. Barba incolta, occhi crespi di rughe, malati, capello sporco e paltò blu. MS accesa tra le dita gialle di nicotina. Lo sguardo perennemente cattivo dell’uomo fragile.
Da tre anni, anche se partecipo a queste riunioni, non apro più bocca. Muto, fingo d’ascoltare e, quando ne ho abbastanza, mi alzo e me ne vado a bere in qualche bar. Loro, gli amici, i compagni, mi compatiscono, ma non hanno il coraggio di farmi fuori del tutto. Aspettano che lo faccia da solo. Sanno che è solo questione di tempo. Come sono gentili, questi farisei! Sapessero quanto trovi insopportabile la loro bontà che altro non è se non ipocrisia, lurida ipocrisia. Il loro atteggiamnento untuoso, tipico di quel potere politico contro cui, un tempo, lanciavamo assieme slogan e sanpietrini.
Sto messo molto male, ultimamente. Mi cambio poco e mi lavo meno. Non mi frega più di vivere. Resto anche tre giorni senza mangiare, senza bere mica tanto. Mia moglie dice che rasento la follia, la depressione, il buio totale della ragione. Si augura, come tutti, che finisca presto la cassa integrazione, perché continuare così è un inferno. Ma intanto lei, un po’ di paradiso, o purgatorio almeno, lo ritrova facendo la troia col Santucci, la guardia giurata della fabbrica dove fa le pulizie. Un bel giovanotto, questo Santucci. Spalle larghe, pettorali, sguardo osceno da toro scatenato. Probabilmente fascista. Una o due volte sono andato a guardarlo negli occhi. Credo sappia che sono il marito della Marisa ma se ne frega alla grande. Non fa paura, un rottame come me. Mia moglie gli avrà raccontato che tra noi non c’è più nulla. Sono secoli che non la sfioro con un dito. Si sta insieme per il mutuo, dice lei. Però vorrei urlare in faccia, alla troia, che il suo Santucci (dieci anni buoni meno di me), non è stato capace di dire una parola mentre io lo fissavo negli occhi. Anzi, s’è voltato dall’altra parte. Ha fatto l’indifferente seguitando a chiacchierare col suo collega, quello che chiamano lo Svizzero, un marcantonio dai baffi folti, biondi, con la fama di frequentare, con la fidanzata, i locali dell’interland milanese dove si fa lo scambio di coppia. Pensa se la Marisa …
Io sono rimasto un po’ lì, a osservarli, questi due ignoranti. Ho anche sorriso, accarezzando il mio tesoro, nella tasca del paltò, quindi son filato via sotto la neve che sbiancava il paesaggio triste di fabbriche e viali deserti.
Non c’è niente di più triste delle fabbriche chiuse.
Adesso mi alzo e li pianto in asso: il frutto che a forza di maturare ha finito col marcire, se ne va, leva il disturbo. Senza nemmeno un cenno ai compagni imbalsamati nel loro ruolo sociale.
Sono le undici e trentacinque minuti. Fa freddo. Nevica. Attraverso Viale della libertà, oppresso dal traffico, sorvegliato dalla statua di marmo e bronzo della Minerva. Imbocco Corso Manzoni, in discesa, barcollando verso il sotto passaggio della ferrovia, sul pantano schifoso di nevischio, con gli automobilisti che se ne fregano e ti schizzano addosso.
Stringo il mio tesoro nella tasca del paltò e mi sento più tranquillo. O, forse, lo stato febbrile in cui vivo da tempo, va stabilizzandosi, nel senso di un perenne nervosismo che, obiettivamente, giustifica le parole di circostanza ripetute all’infinito da mia moglie.
Sono così svogliato, nemmeno deluso, solo abulico. Sfinito dalla vita. Dalle parole, soprattutto. Dalla gente che incontro sulla strada. Per cui chino il capo come un cane che annusa, preoccupato se qualcuno lo osserva. Ho sempre avuto un carattere difficile, scontroso, fin dai tempi della scuola, quando con l’Attilio stavamo su la notte a stampare volantini contro questo o quello, prima che lui si evolvesse nel beone ottuso (e di successo) che è oggi.
Intorno vedo gente impegnata. Non c’è lavoro, la crisi morde, ma tutti sembrano avere qualcosa per cui vivere. Questo acuisce la mia frustrazione, indebolisce i miei nervi. Non sopporto più il loro senso di responsabilità. Dovrei nascondermi in un buco, in qualche stazione e vivere d’accatto come un barbone. Zingaro, venditore d’accendini senegalese, puttana nigeriana o albanese. Quale ruolo scegliere? Una volta forse mi sarei speso anche per questa gente qua che pullula sulle strade, nel malcontento generale. Ma ho molti dubbi che qualcuno di loro sia disposto a sacrificarsi per me. Magari non sono che una manica di egoisti, incrudeliti dall’invidia di quello che vedono e non possono avere. Un giorno, forse, saremo tutti sulla stessa barca, e allora sarà uno spasso vedere chi ha le braccia, la rabbia e la cattiveria per salvarsi la pelle.
Certo, è troppo facile fare i sermoni, quando stai dalla parte giusta. Coi bambini addobbati tutto l’anno come alberi di natale, scintillanti pargoli del benessere, mica mutilati o schiavizzati sulle strade, futura benzina nel serbatoio di un crimine di cui fa comodo parlare, ogni tanto, ma non contrastare in maniera efficace.
Attilio diceva che io ero uno puro e duro, un idealista che non voleva capire che la politica è fatta anche di compromessi, mediazioni, cedimenti imposti da una visione pragmatica e realistica della società. Io credo che lui sia solo più furbo e anche più fortunato. Come quella volta a Milano, in Moscova (era il 77, credo) , quando la celere mi riempì di manganellate mentre lui sgattaiolava via, con una tipa al volante d’una 500 blu. A ripensare a quelle giornate di lotta mi si stringe il cuore, per un momento. Invece stringo il mio tesoro e entro al bar Lucas, così, fradico come sono. Tanta gente intorno, puzza di piedi e di caffè. Un tizio mi saluta e io faccio finta di niente. Ordino e la barista cinese mi serve il vino rosso, in un bicchiere spesso dalla forma tozza. Pessimo il vino, basso il prezzo. Ma che pretendono? Sono un cassa integrato, spronato da una moglie troia a darsi da fare, cercare qualcosa, per arrotondare, come se fosse facile a cinquantasette anni. Carogna, non mi senbra possibile che una volta, tanto tempo fa, si faceva anche l’amore. Adesso chissà il tempo che non la vedo nuda. Vado a letto sempre tardi. Carico le batterie dell’odio, meditando vendette contro i parassiti della TV. Tanti nemici borghesi, come si diceva ai bei tempi. Compagni perfetti, ben agghindati, rivoluzionari sciccosi, rampanti, che tra i simpaticoni reazionari ci stanno prorpio bene. Battibeccano e si fanno, sottobanco, gli sporchi affari loro. Parlano di trasparenza con la voce impostata, l’anima torbida.
Parole rubate dalle loro bocche infami: austerità e rigore. Fosse per me, davvero, tutti quanti col saio, li manderei in giro. Abolirei la TV, il calcio e la stampa in generale, ogni tipo di pagliativo, di divertimento, solo una breve vacanza premio per chi dimostra rigore assoluto e, chi sgarra, chi ruba soldi pubblici, carcere a vita quando non la ghigliottina, in piazza, come ai tempi di Robespierre. Deliri, certo, ma uniche fonti di sopravvivenza come stimoli diabolici, oramai.
Pago la cinesina che sorride ossequiosa, stupida cavia sfruttata sedici ore al giorno. Ecco come fanno, questi cinesi, a comprare le città italiane. Mica sono come i marocchini che, quasi sempre, accettano il destino dei piccoli commercianti o truffatori di bassa lega. Rumeni e albanesi si fanno furbi, imparano a sfruttare, mettono su l’impresa e tengono duro, anche con la crisi. Non come i cinesi, però se la cavano. I senegalesi invece, secondo me, sono tutti smidollati, sorridenti, poco coraggiosi.
Per quello che sono diventati (o sono sempre stati) gli italiani, preferisco tacere. Il senso di nausea è troppo forte. Osceno popolo che sputa su se stesso e rifiorisce di patriottismo da telenovela solo quando calciatori snob urlano l’inno nazionale. Per il resto, truffa e opportunismo. Genuflessione al santino di turno, quello capace di risolvere da solo tutti i problemi.
Raggiungo Via Riviera, zuppo dalla testa ai piedi. Il paltò è diventato un fardello insopportabile, la mente turbina, la fronte scotta. Il senso di solitudine, esagerato, spalanca il cuore. Finalmente vedo casa mia. Villetta bianca. Mutuo quasi tutto pagato. Urlo il nome di mia moglie: Marisa ! Lei esce e resta lì, sorpresa, a braccia conserte. Mi guarda, indifferente. La guardo anche io, provo a sorridere. Poi estraggo il mio tesoro dalla tasca del paltò, lo punto alla tempia e premo il grilleto.
Clic, è scarica, come me.