«Il Vescovo ha scelto. Sarai il mio successore. Oggi stesso mi dimetterò» disse l`Abate.
«Non dire queste cose, fratello!» fece il Priore. In realtà se l`aspettava, e doveva ammettere d’aver sempre sognato quel momento.
Da quando l’Abate s’era gravemente ammalato, era lui a reggere l’Abbazia, dirigendo la produzione del vin dolce il “Saio Gaio”, ricavato da vigne impiantate su impervie terrazze esposte al sole e al vento della riviera.
Fin dal 1300 i monaci del convento avevano domato l’ambiente ostile e avviato la viticoltura e la vinificazione artigianale. Attualmente, tutto quanto producevano veniva venduto a peso d’oro sui mercati mondiali.
Il ricavato bastava a mantenere la loro piccola comunità (cinquanta persone tra frati e novizi) e a fare beneficenza ai poveri.
A giudizio dei più grandi enogastronomi, il sapore del “Saio Gaio” era unico, e il suo abbinamento coi biscotti alle mandorle uno dei dessert più squisiti al mondo.
Il marchio, un giovane frate sorridente con sovrimpresso il motto del Monastero: ” In laetitia cum fratribus”, era divenuto sinonimo internazionale di prelibatezza.
Famosa la frase attribuita alla regina d’Inghilterra “a cookie drenched in a goblet of “Saio Gaio” makes me happier than a bonnet in the latest fashion “.
Si riteneva che la bontà del prodotto dipendesse dalla qualità dell’uva e nella particolarità del clima.
I frati portavano avanti il ciclo di lavorazione con instancabile cura quotidiana: dalla coltivazione certosina, viticcio per viticcio, al lungo invecchiamento delle bottiglie al fresco delle cantine. Un metodo tutto, rigorosamente, manuale.
Cantavano, i frati, quando lavoravano. Il Convento risuonava dalla mattina alla sera di lodi al Signore.
Ora il Priore avrebbe potuto scoprire il vero segreto del “Saio Gaio”: un ingrediente naturale, conosciuto solo dall’Abate in carica.
Era compito di questi versare nel mosto, lontano da occhi indiscreti, la misteriosa sostanza, capace di dare alla bevanda quel profumo e quel gusto così speciali. Nella stanza dell’Abate una cassaforte custodiva la preziosa formula.
«Immagino tu voglia conoscere l’additivo.» disse l’Abate.
«Ti prego, fratello! Non c’è alcuna fretta…»
Con un sorriso, l’Abate gli porse la chiave della cassaforte.
Il Priore, emozionato, andò ad aprirla.
Conteneva un antico rotolo di pergamena.
«Aprilo» disse l’Abate «E’ qui dalla fondazione del Monastero.»
Il Priore svolse con cura la pergamena, usurata e fragilissima, verosimilmente un reperto basso medioevale. Era scritto in calligrafia amanuense. Incominciò a leggere: “Videns autem iesus turbas, ascendit in montem…” Ma… è il sermone delle beatitudini!»
L’Abate sorrideva ancora. «Prosegui.»
Il Priore lo accontentò.
«”Beati pauperes spiritu… beati mites…. beati qui lugent… beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam… beati misericordes… beati mundu corde… beati qui persecutionem patiuntur… beati qui vinum diligunt…»
Si bloccò, esterrefatto. «C’è un’interpolazione apocrifa!»
«Sicuro?»
«Sì!» Lesse ad alta voce: «”…beati qui vinum diligunt, quoniam regnum coelorum erit magnum Canae convivium…”»
Beati coloro che amano il vino, perché il regno dei cieli sarà un grande banchetto di Cana…
Si volse smarrito verso l’Abate, sempre sorridente. Poi gettò lo sguardo oltre la finestra, ai pendii a terrazze dove, incuranti della gelida pioggia invernale, schiere di frati si muovevano cantando tra le vigne.