1) Cosimo – I mobili vuoti
A Torino l’inverno spacca le mani, anche se si portano i guanti. Cosimo a metà pomeriggio non tiene più il conto degli appartamenti sgomberati. Soltanto la schiena lo avvisa che sta arrivando la sera.
Quando molti anni prima aveva aperto quella piccola azienda era certo che a cinquant’anni sarebbe stato qualcun altro a spaccarsi le ossa al posto suo, ma, col tempo, si era accorto che trasportare pesi lo alleggeriva dai problemi che lo aspettavano a casa. Almeno fino a quando la moglie fosse rimasta con lui.
La notte anche stavolta non fa sconti. L’uomo vorrebbe rimandare l’ultimo sgombero alla mattina successiva, ma l’indomani la visita settimanale del figlio lo avrebbe impegnato a sostituire la branda arrugginita che da anni ospita il ragazzo in un angolo della stanza da letto: al buio le vecchie molle si lamentano a oltranza senza alcun riguardo per Cosimo, che ormai, in presenza del figlio, non riuscirebbe più a prender sonno. Certo nulla a casa sua è definibile accogliente. Cosimo e quel piccolo bilocale arredato alla bell’e meglio si erano scelti per compassione, ai tempi del divorzio. Da allora il figlio li ha visti campare nella totale indifferenza reciproca, ma non ha mai dato segno di curarsene: a quindici anni si ha altro a cui pensare e la notte non ci si sveglia nemmeno con una cannonata.
Cosimo si costringe a un ultimo sforzo. L’alloggio da sgomberare è al pianterreno e non dovrebbe impegnarlo per più di due ore. L’uomo è assalito da un brivido: forse è perché il freddo, rinchiuso in quella casa da troppi giorni, lo ha investito con forza non appena aperta la porta. Forse è perché quelle stanze sanno di morte, ma respirano ancora. Piatti sporchi, libri sparsi sul tavolo, un pendolo rumoroso. Al telefono il padrone di casa, tal Valerio Longo, è stato molto chiaro: nessuno ha reclamato le cianfrusaglie dell’anziano maestro che occupava l’alloggio e tantomeno lo farà lui, visto che è stato ricoverato in lunga degenza per una brutta malattia. Cosimo ha sempre sgomberato mobili vuoti, ma per qualche soldo in più si è impegnato a disfarsi anche di tutto il resto. L’uomo fa un giro di ricognizione: le ante spalancate scoprono senza pudore la vita di quello sconosciuto. È angosciante anche solo il pensiero che qualcuno possa fare la stessa cosa in casa sua, ma ancora più angosciante, a pensarci bene, è il fatto che quel qualcuno non troverebbe niente. Cosimo rimuove con metodo gli oggetti, che, in ultimo appello, lasciano una triste forma vuota nella polvere. I colpi di nastro adesivo si abbattono come una scure sugli scatoloni destinati al macero. Prima di sigillare l’ultimo cartone, l’uomo afferra un piccolo volume e con un gesto rapido lo infila nella cinta dei pantaloni.
Cosimo sa bene che si spaccherà la schiena per le strade di Torino ancora per molti anni, ma da questa sera un vecchio libro impolverato riempirà uno scaffale della sua vetrina vuota.
2) Moreno – L’odore dei libri
L’odore di chiuso è più penetrante del solito. Moreno disprezza suo padre perché trascura quella casa esattamente come trascurava la mamma. Vederlo galleggiare nella sporcizia è una vendetta sottile che vale il sacrificio di tapparsi il naso una volta la settimana. Per Moreno la vita inizia alle due del pomeriggio, ovunque si trovi: due calci al pallone, un giro in moto, qualche tiro con la pistola, il tutto senza muoversi dal divano. Oggi si è dimenticato le cuffie Sennheier, ma suo padre è uscito e non dovrà ascoltarlo mentre finge di interessarsi alla sua vita. Come se i consueti tentativi di mettersi la coscienza a posto non fossero già pietosi, quel pomeriggio gli ha prenotato un’ora di ripetizioni da una professoressa in pensione che abita nello stesso palazzo. Come minimo questo brutto tiro gli costerà quanto l’ultimo gioco nato per la Playstation. La scuola non è mai stata il primo dei pensieri per Moreno né tantomeno per suo padre. Quando i genitori avevano deciso con grande liberalità di non pronunciarsi sulla scelta delle superiori, il ragazzo si era affidato alla corrente che tirava per la maggiore tra i suoi compagni di classe. Ora sua madre può dire che il figlio diventerà geometra e a Moreno non rimane che ingegnarsi ogni mattina su come sopravvivere per cinque ore. Il divano del padre dopo un’ora diventa scomodo. Moreno si trascina in camera da letto e osserva la lana che fino a qualche ora prima se ne stava nascosta sotto la sua vecchia branda cigolante. Suo padre l’ha appena portata via per far spazio a un letto nuovo, ma in fondo quello scricchiolio amichevole nelle notti passate a guardare le crepe delle pareti gli mancherà. C’è qualcosa di nuovo in quella stanza, oltre al vuoto lasciato dalla rete. Nella vetrina, sistemata in camera per nascondere un’infiltrazione nel muro, c’è un vecchio libro dall’aria importante. L’unica forma di lettura che Moreno abbia mai visto nelle mani del padre è il giornale dei programmi tv e questo è un motivo sufficiente per vedere di che si tratti. La copertina di pelle ha un odore sconosciuto. Le pagine spesse e ruvide sono scritte a mano, a tratti con la precisione di una stampa, a tratti con una linea convulsa, ma sempre leggibile. “8 settembre 1943”, “20 ottobre 1944”. Moreno salta da una pagina all’altra in cerca di un titolo, di un’immagine o di qualsiasi cosa subito riconoscibile. Le parole si susseguono fitte, con un’ostilità che snerva il ragazzo. Poi, finalmente, il ritratto a china di una donna bellissima, forse bionda: la china lo lascia solo immaginare. Gli occhi scivolano in pochi secondi dal tratto dolce del viso a quello della scrittura.
Oggi Moreno è stato nelle Langhe. Ha visto i boschi, le vigne e toccato la neve fresca. Ha sentito spari di fucile e li ha annusati tra le pagine di un vecchio diario.
3) Simona – I colori primari
La vista dalla mansarda oggi è più uguale del solito. Simona posa il pennello e copre la tela schizzata a matita. Erano anni che non riceveva studenti a lezione e quell’ora dedicata al figlio del vicino le ha scombussolato la giornata.
La donna non si spiega ancora il senso di quella visita. Il ragazzo, Moreno, lo si capisce già dal nome, è un povero disgraziato che non finirà la scuola nemmeno tra dieci anni, ma la settimana prima suo padre l’ha aiutata a sgomberare la cantina e ha insistito perché, anziché pagarlo, ricevesse il figlio per qualche ripetizione d’italiano. Davvero un pessimo investimento di denaro. Lei, che non ha ritenuto proficuo investirci nemmeno del tempo, si è limitata a fornire al ragazzo carta, penna e il titolo di un tema, dedicando quell’ora ad altre faccende.
Simona si guarda intorno irritata, alcool e panno in mano: sul tavolo, oltre al testo da correggere, il piccolo scocciatore ha lasciato un sacco di ditate unte. Dopo qualche giro a vuoto nella stanza, apre il ripostiglio e si assicura che le oltre quaranta tele con vista dalla mansarda siano accatastate in ordine cromatico, dai grigi chiari a quelli scuri.
La precisione l’aveva resa per anni una collaboratrice preziosa nel dipartimento di Lettere dell’Università di Torino, ma da piccola le era valso il soprannome di “principessa sul pisello”. Non era soltanto perché odiava la terra sotto le unghie che le sorelle più piccole la prendevano in giro. Essere figlia della madre, ma non del loro stesso padre era una cosa che la marchiava come una lebbrosa, soprattutto in un piccolo paese di campagna. Quando se n’era andata per mantenersi agli studi, aveva tolto un grosso peso a tutti e per questo non si era mai più fatta vedere, nemmeno per il funerale del patrigno.
L’ordine non è ancora ristabilito. L’occhio di Simona cade di continuo sul tema stropicciato del ragazzo, posato su uno scaffale in attesa della correzione. L’unica soluzione è leggerlo subito, almeno poi potrà archiviarlo in una cartellina, o, più probabilmente, gettarlo in pattumiera.
“Descrivi un luogo del cuore”. Le rughe della fronte si aggrottano a ogni punto e a capo. Non tanto per il periodare goffo e scomposto: quello non è certo una sorpresa. Tra un “poi” e un “cioè” di troppo, le parole del ragazzo la trascinano di forza in mezzo ai boschi e alle vigne che aveva rimosso dalla sua vita. Le colline sfregiate dalle rocce aguzze appaiono ammansite dalla mano di un giovane che non sa quanto possa essere crudele la terra. O forse è stato il tempo ad averle domate?
Simona tira fuori da uno scatolone i colori primari, ancora sigillati nei loro barattoli. Li sistema con cura in una valigia assieme a una tela nuova e qualche vestito che sa di canfora. La donna non ama la campagna e ancora di meno i viaggi in pullman, ma non aver mai dipinto dal vero un paesaggio naturale è una pecca che una pittrice degna di questo nome non può trascurare.
4) Rosetta – Il veleno nel sangue
La neve, in Langa, rende tutto indistinto, anche le giornate. Rosetta abbandona il corpo e i troppi anni sulla sedia accanto alla stufa, anche se a riscaldarla non bastano più né il fuoco né le urla dei nipoti che riempiono la grande cucina del cascinale.
La vecchia osserva ancora una volta l’orologio del campanile dalla finestra, ma le lancette non si sono ancora mosse. Poi si lascia sprofondare in un torpore avvolgente che la trasporta in un luogo dove il tempo scorre veloce.
Ogni giorno la gente che le fa visita non manca di ricordarle quanto sia fortunata: le figlie, dopo la morte inaspettata del padre, l’hanno aiutata a portare avanti l’azienda vinicola e ora vivono nella tenuta, con mariti e bambini.
Non possono capire: non sono l’egoismo o la depressione a impedirle di apprezzare tanta dedizione. È un dolore sottile che viene dal passato e, se ammazzarsi di lavoro le ha permesso di sopravvivergli per tanti anni, ora quel veleno antico le è entrato inesorabilmente in circolo. Nessuno può farci niente, nemmeno la giovane infermiera che ogni mattina le tormenta il braccio con la flebo dei ricostituenti.
Uno scoppio secco la strappa faticosamente dal dormiveglia. Le castagne che i nipoti hanno raccolto nel bosco saltellano e si contorcono sulla ghisa della stufa. Avrà spiegato mille volte che, prima di arrostirle, devono incidere la buccia, ma ormai non ha più voglia di ripeterlo.
Rosetta è sempre stata una colonna portante. Non si è mai chiesta perché avesse dovuto fare così tanti sacrifici. Li ha sempre fatti e basta. Non si era persa d’animo nemmeno quando a vent’anni si era trovata incinta di un giovane partigiano che si era fermato in paese per qualche giorno e che da allora non aveva mai più rivisto. C’era la guerra e Dio sa come la disperazione partorisca errori tremendi. Aveva poi sposato l’unico uomo che in lei aveva colto l’opportunità di estendere i propri terreni prima della bellezza di una ragazza madre. E c’erano volute altre tre figlie prima che la gente parlasse d’altro.
Il campanile suona l’ave delle sette. L’anziana tira fuori dal grembiule una foto sbiadita: è l’unica che ritrae la figlia maggiore, poco prima che lasciasse per sempre il paese. Era lei ad aver pagato prima con l’umiliazione e poi con l’esilio l’errore di una madre disgraziata e per questo nemmeno Dio ha mai perdonato Rosetta.
Le figlie irrompono in cucina, tutte e tre insieme. La vecchia indaga i loro sguardi turbati: è successo qualcosa, l’ha capito subito. D’istinto conta i nipoti nella stanza, cinque, ci sono tutti. Poi conta le figlie: quattro. Non è possibile, si è sbagliata. Una, due, tre e quattro.
L’anziana butta uno sguardo alla foto color seppia, poi di nuovo alla figura che spunta dietro le prime tre. Non ricordava quanto azzurri fossero quegli occhi. Fieri, caparbi e immensi come l’amore che li aveva generati.
Rosetta ha commesso tanti errori, ma quel giorno così lontano nel tempo ha fatto l’unica cosa giusta, ora lo sa anche Dio.
5) Fiorella – L’ultima fiaba
I pupazzi sono fuori posto e la cornice con la licenza da infermiera pende da una parte. Trovare le sue cose alla rinfusa, dopo che la mamma ha spolverato, è uno dei motivi per cui Fiorella si rimprovera di non essersi trovata subito una casa per conto proprio. Poi il profumo del minestrone che arriva dalla cucina la fa tornare sui suoi passi.
Certo non è esaltante scoprire su Facebook che le sue ex compagne della scuola di infermieristica lavorano negli ospedali più importanti di Torino, mentre lei è tornata in Langa per fare assistenza sanitaria presso una piccola A.S.L.. La ragazza, però, scrolla le spalle ogni volta: vedere negli occhi di sua madre la soddisfazione di riaverla a casa ripagherebbe qualsiasi rinuncia.
Al momento della cena le sarebbe piaciuto raccontare qualche aneddoto divertente, raccolto durante le visite domiciliari agli anziani, ma stasera ha troppi pensieri per la testa.
La vecchiaia e la malattia provocano spesso forme ingiustificate di egoismo, Fiorella lo sa bene. Per questo non si è mai stupita che quell’anziana signora cui fa visita ogni mattina non abbia mai accennato un sorriso di gratitudine nei confronti delle figlie che l’assistono da anni.
La ragazza ha sempre preferito ricordarla negli anni d’oro, quando la sua voce riempiva le strade del paese con le note del “Salve Regina”, mentre lavava i panni alla fontana comune o girava con le casse d’uva sulle spalle. Ormai da anni la donna non è più la stessa e nemmeno le vie del centro. Fiorella, come tutti, se n’è fatta una ragione.
La mamma di Fiorella entra in camera: il minestrone si sta raffreddando. La ragazza, scura in viso, incomincia a parlare con rabbia. Non è possibile che quella vecchia, con tre figlie che le hanno dedicato una vita, sia resuscitata di punto in bianco quando si è presentata l’unica figlia che in quarant’anni non si era fatta mai vedere. Quella mattina, durante la flebo, si è persino messa a cantare il “Salve”.
Sua madre, come tutti in paese, conosce bene le vicende di quella gente e Fiorella vuole il suo parere. Basta che non si azzardi a rifilarle la storiella del “Figliol prodigo”, perché a lei non è mai piaciuta. La donna osserva la figlia, che, rannicchiata nel letto, sembra ancora una bambina. Poi si siede accanto a lei e si prepara a raccontarle l’ultima fiaba. C’è una spiegazione per il comportamento di quella vecchia. Non si può pensare che abbia amato in modo diverso le sue figlie. Ma quella che se n’è andata è l’unica che, a differenza delle altre, ha realizzato se stessa. È ciò che rende felice una madre più di ogni altra cosa.
Fiorella stasera non ha appetito e l’odore del minestrone la lascia indifferente. Il giorno dopo tira fuori dalla cornice la licenza da infermiera e prepara le domande di assunzione presso i grandi ospedali di Torino.
6) Valerio – La spina nel cuore
Quando l’uomo apre gli occhi vede tutto per la prima volta. D’istinto guarda verso la grande finestra alla sua sinistra. Trattiene il respiro, aspettando che i palazzi grigi e il rumore del traffico gli rivelino dove si trovi e perché sia sdraiato in quel letto, ma quelli, crudeli, gli negano la risposta.
Si gira dall’altra parte: ci sono altri due lettini in fila, occupati da altrettanti vecchi, e un signore in camice che gli va incontro con una cartellina in mano. Il tizio gli afferra il polso raggrinzito, lo guarda in silenzio per qualche secondo e poi lo chiama ad alta voce: “Valerio!”. Finalmente un barlume. Prima di dileguarsi, gli dice di star tranquillo, ché tra un po’ passeranno le infermiere per un controllo.
L’uomo si guarda le mani, vecchie e pesanti. Le allunga verso il comodino e apre il cassetto: qualche stoviglia, un orologio fermo, delle parole crociate. Tra le pagine della rivista, in mezzo a schemi iniziati e mai completati, spunta una foto piena di bambini vestiti dello stesso colore. Poi altre due, con dei ragazzini. Alle loro spalle c’è sempre lo stesso uomo, ogni volta un po’ più grigio. Dietro la copertina uno scarabocchio a matita riproduce i tratti di una donna, forse bionda, sicuramente molto graziosa.
Valerio alza lo sguardo, quasi stordito dalle voci petulanti che hanno invaso la stanza. I due letti accanto al suo spariscono in pochi secondi tra le braccia gesticolanti di un gruppo di persone. Il vecchio fissa qualche istante la porta d’entrata, ma non arriva più nessuno. Poi un senso di spossatezza lo assale: si scrolla più volte con rabbia, ma in pochi secondi é costretto ad arrendersi al sonno.
La sirena di un’ambulanza lo sveglia con prepotenza. L’uomo osserva smarrito la neve che si schianta contro la grande finestra alla sua sinistra. Poi si volta distratto verso i due vecchi che dormono nelle loro brande con le bocche spalancate, così immobili da sembrare morti. Un violento impulso di muoversi lo sconvolge: si alza a fatica e barcolla per la stanza fino a trovarsi in bagno.
Lo specchio riflette un volto irriconoscibile: guance scavate, capelli radi e quasi trasparenti, uno sguardo mortificato dal peso delle palpebre. Poi si concentra sugli occhi. Quell’azzurro così intenso gli è familiare e non sembra per niente vecchio.
Una giovane col camice spunta dalla porta del bagno. Lo chiama Valerio e vuole riportarlo a letto. “Hai il colore dei miei occhi!” le dice. Fiorella sorride, senza badare a quelle parole e gli spiega di essere arrivata nel reparto da poco. Poi lo prepara per la flebo, canticchiando tra sé e sé. Con un gesto rapido gli buca il braccio e, forse senza accorgersene, alza un po’ la voce: “Salve, salve Regina…”.
L’uomo ha una fitta. Poi piange in silenzio. Più che un ago nella vena gli è sembrata una spina nel cuore. “Rosetta!” esclama “Quanti anni sono passati da quando sono fuggito da qui!”. E la spina si spezza. E i suoi occhi si chiudono.