“Liberati tutti!”
Questa frase altisonante e un tantino risorgimentale bucava di frequente le tenebre nelle calde serate estive. Si elevava dal gruppo di noi piccoli, impegnati a giocare alla cut (o, se si preferisce, a nascondino) sotto il porticato del Credito Romagnolo e del palazzo Grazioli, mentre gli adulti, seduti sui loro seggiolini pieghevoli, conversavano placidamente davanti alla porta d’entrata.
Altre volte invece tutti insieme facevamo spedizioni nei bui cortili degli stessi palazzi, luoghi a noi ben noti, ma che di notte ci apparivano misteriosi e pieni di insidie nascoste. Qualcuno, mentendo, spaventava gli altri, asserendo d’aver visto laggiù in fondo un’ombra strana e allora tutti a fuggire gridando, mentre lui, il bugiardello, si spaventava più degli altri e se la dava a gambe in testa al gruppo.
Nella stagione delle lucciole invece eravamo impegnati a rincorrere quegli insetti surreali che parevano provenire dal mondo delle fiabe, così somiglianti alle tremule stelle che brillavano in un cielo limpidissimo, impreziosito da una falce di luna, rilucente come la lama di un pugnale. “Lucciola, lucciola vien da me, ti darò il pan del re” cantavamo in coro, turbando il silenzio notturno.
Che sudate dopo quelle corse affannose!
Ogni tanto qualche madre, affacciandosi ad una finestra, richiamava in casa il proprio pargoletto e, quando il gruppo si era sciolto, io, madida di sudore e col cuore palpitante per il gran correre, mi aggregavo alla mamma, che, continuando a conversare, mi accoglieva amorevolmente sulle ginocchia e lì fra le sue braccia, col capo appoggiato alla sua spalla, dimenticavo ogni timore e rilassavo le membra stanche. Non mi restava che ascoltare i discorsi dei “grandi” fino a quando quelle voci pacate, che giungevano alle mie orecchie come una ninna nanna, mi conciliavano il sonno, interrotto però di quando in quando dalle voci ora allegre, ora concitate dei giocatori di scopone, provenienti dal caffè di Terio e Gigino, da cui giungeva ininterrotto anche l’acciottolio dei piattini e delle tazze.
Mi chiedo come mai non venisse in mente a nessuno del nostro gruppo di andare a sedersi ad un tavolino del caffè e consumare una fresca bibita; dopo tutto bastava attraversare la strada; eppure ciò non capitava mai. Non so se dipendesse da un fattore economico o piuttosto dalla mentalità di quel tempo che non prevedeva svaghi di quel genere, se non in occasioni eccezionali. Solo di quando in quando la mamma mi dava i soldi per comprarmi una “gazosa”, ma più che la bevanda dolciastra, mi attirava quella pallina di vetro che tintinnava dentro la bottiglietta dopo che il contenuto era stato consumato.
Verso le ventitrè, prima di andare a coricarci, ci dirigevamo tutti insieme alla fontana della piazza per riempire ciascuno la propria bottiglia e per bere l’ultimo sorso di acqua freschissima che zampillava invitante a getto continuo. Come mi piaceva formare una piccola coppa con le mie stesse mani e sorseggiare, come fosse una bevanda prelibata, quell’acqua limpida e fresca! Altro che “gazosa”! A quell’ora la piazza e le vie del paese erano deserte; sulle facciate delle case buie e silenziose le finestre spalancate parevano grandi orbite vuote. Sulla via del ritorno, tenevo ben stretta la bottiglia accostandomela al viso accaldato; provavo all’inizio una bellissima sensazione, ma poi pareva che mille aghi mi pungessero la pelle, così dovevo interrompere quello sgradevole contatto, per riscaldare, accarezzandola, la gota umida e gelata.
Finalmente sull’uscio di casa l’ultima “buona notte” si perdeva come un soffio nella calda oscurità.
Un tonfo! L’uscio si richiudeva alle nostre spalle e io trovavo infine ristoro fra le fresche lenzuola del mio lettino dove sprofondavo in uno di quei pesanti sonni che solo l’infanzia ci sa donare.
La chiamavano tutti Checcoli, perciò ignoro quale fosse il suo nome di battesimo; era una bimbetta esile con un musino interamente cosparso di efelidi e con rossi capelli stopposi e cortissimi.
Aveva un carattere forte e battagliero che inconsciamente ammiravo. In casa parlavo di lei come di un personaggio di grande riguardo: ”Oggi la Checcoli ha fatto…
Anche la Checcoli dice… e la Checcoli qua, la Checcoli là…” Così, se per caso un giorno non ne parlavo, i miei famigliari, soprattutto il babbo, s’informavano preoccupati: “E la Checcoli cussa disla?” (e la Checcoli cosa dice?).
Ad ogni amica poi che capitava a casa nostra, mio padre domandava pieno di curiosità: “Sei la Checcoli tu?” e al diniego dell’interrogata, se ne andava con aria delusa, pronunciando un laconico “ah” e l’inchiesta finiva lì, quasi ad indicare che nessuna mia amica, che non fosse la Checcoli, meritava la sua attenzione.
Nelle commedie organizzate dalle Suore dell’Asilo, la Checcoli era la prima donna; a lei toccò infatti l’onore di indossare una lunga e bianca veste e di porsi sul capo una torre di cartone argentato per rappresentare l’Italia; di solito però primeggiava anche in tutte le baruffe durante le quali la si vedeva mollare ceffoni e calci a chiunque osasse contrariarla: insomma non era precisamente uno stinco di santo.
Chissà se tanta ammirazione da parte mia era dovuta a quel suo atteggiamento un po’ troppo disinvolto , non saprei rispondere, so però che la Checcoli si è piazzata fra i miei ricordi d’infanzia e non credo proprio abbia intenzione di andarsene.
Passare dal mondo della Checcoli a quello della Luisa Servidei fu per me un vero e proprio cambiamento. Basti dire che l’una era l’antitesi dell’altra.
Luisa, una bella bambina bionda con occhi azzurri da cui si sprigionava un sorriso dolce e sereno, era nel suo insieme una creatura serafica, tant’è vero che si fece in quattro per ficcarmi in testa le odiose divisioni e le subdole equivalenze.
Proveniva da una famiglia modesta e numerosa, credo fossero in cinque tra fratelli e sorelle, il suo aspetto sempre ordinato e decoroso la faceva somigliare ad uno di quei personaggi delle fiabe destinati a suscitare col loro comportamento generoso ed eroico l’ammirazione di chissà quanti piccoli lettori.
Abitava nella via della Fame (Via Roma) in una bassa casetta; le stanze, arredate semplicemente , erano linde ed ordinate proprio come lei. Giocavamo in un piccolo cortile sotto un pergolato che lasciava filtrare appena qualche raggio di sole.
Ricordo che sul comò di una stanza da letto c’era un sorridente Gesù Bambino di notevoli dimensioni, circondato da gigli finti e ricoperto da una cupola di grosso vetro; sembrava quasi un neonato vero con quelle rosee membra che pareva dovessero muoversi da un momento all’altro. Era una mia impressione oppure i suoi occhi mi seguivano in ogni mio spostamento? Ecco cosa ricordo della dolcissima Luisa Servidei: il volto sorridente e sereno e quel Gesù Bambino che un poco le somigliava.
L’ultimo anno della mia permanenza ad Alfonsine fu rallegrato da due nuove amiche: Edda Mariani e Flora Morigi. La prima era di un anno più grande di me, l’altra era mia coetanea. Non è stata la tipica amicizia nata fra i banchi di scuola, giacché frequentavamo classi diverse, bensì un’amicizia nata per caso, ma non per questo meno importante e meno profonda. La memoria, che pure ha conservato intatti i volti, le voci e gli atteggiamenti di tante persone amiche e che mi ripresenta fedelmente, quando io lo voglia, le vie, i vicoli, la chiesa, le scuole del mio paese, mi vien meno ogni volta che tento di ricostruire il nostro primo incontro. Sono quasi certa però che ci conoscemmo nei pressi dell’autopista durante la Festa dell’Uva che ogni anno si celebrava nel nostro paese. Probabilmente, come spesso accade, s’instaurò subito una corrente di simpatia che ci avvicinò e spinse ciascuna di noi a cercare l’amicizia delle altre due. Edda, una ragazzina tranquilla e giudiziosa, esercitò senza dubbio una benefica influenza su di me; mi aiutò infatti ad uscire dal periodo delle corse sfrenate, delle zuffe infantili e un po’ ridicole, delle bambole silenziose ed indifferenti, per condurmi in quello delle pacate e piacevoli conversazioni. Parlavamo di vestiti, di film, di attori, di canzoni; Flora con la sua bella voce accennava i motivi allora in voga e noi timidamente ci univamo a lei.
Come dimenticare l’arcinota canzone “Se potessi avere mille lire al mese” che furoreggiava a quei tempi? Edda era un’adolescente di aspetto gradevole con lunghi capelli scuri raccolti in grosse trecce e occhi nocciola ravvivati da un sorriso aperto e intelligente. Suo padre, che aveva un negozio di biciclette, metteva ogni giorno in bella mostra le ultime novità di quell’anno: le Sprint col manubrio ben diritto che costringeva, chi le usava, a protendersi in avanti proprio come fanno i corridori.
Lei, ovviamente, ne possedeva una bellissima color argento che io ammiravo senza riserve, sognando di possederne una uguale.
Anche Flora possedeva una Sprint nuova fiammante di un insolito color fucsia; la rivedo sorridente con un vaporoso abitino di taffetà o di organdis inforcare quella bici da sogno per intraprendere il solito giretto serale lungo il corso. Spesso quelle care amiche, a turno, mi permettevano di fare un giro nei paraggi con la loro bicicletta ed io, quasi trattenendo il respiro per l’emozione, sentivo crescere in me il desiderio di possederne una tutta mia; purtroppo quel sogno doveva restare tale per molti anni ancora. Quante volte Edda e Flora rinunciarono al giro in bicicletta per non lasciarmi sola! Quel loro piccolo sacrificio mi faceva intendere allora la misura del loro affetto nei miei confronti. Dopo che me ne fui andata da Alfonsine, ci scambiammo qualche lettera, poi gradatamente fra noi calò il silenzio.
Durante il primo anno d’Università (1951) alla Facoltà di Lettere, m’imbattei in una studentessa che aveva qualcosa di familiare, riconobbi in lei la piccola Flora Morigi di Alfonsine; entrambe fummo liete di quell’incontro e ovviamente rievocammo la nostra lontana amicizia, senza però quella gioia spontanea che di solito accompagna la rivisitazione dei bei tempi andati; c’era incombente fra noi il ricordo della terza amica, di Edda, tragicamente uccisa da una granata nell’ultimo anno di guerra, quella infame guerra che ha distrutto gran parte del mio paese. Non esiste più la Scuola Elementare, né la bella Chiesa in cui ricevetti i primi Sacramenti, né i bei palazzi che facevano da corona alla grande piazza Vincenzo Monti. Ssolo la casa in cui nacqui è ancora miracolosamente in piedi, ma nella mia mente la vecchia Alfonsine è ancora intatta, nemmeno la guerra è riuscita a cancellarne il ricordo, quel tenero, dolce ricordo a cui ricorro sovente alla ricerca di persone che non sono più accanto a me, ma che ritrovo laggiù serene, giovani immerse in quel mondo che non subirà più mutamenti, perché il cuore desidera ritrovarlo sempre così.