"Una storia da ridere" di Alberto Cristofori


 

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Come lo raccontava mio zio, l’aneddoto aveva un carattere diciamo pure eroico. La situazione no, non era affatto eroica, anzi: si trovava al Policlinico per dei calcoli alla cistifellea. Al mattino l’avevano ricoverato e operato, al pomeriggio si era risvegliato ed era lì, nella stanza 208 del reparto di Chirurgia I, attaccato alla flebo, col pappagallo a portata di mano, quattro buchi nella pancia e la testa ancora confusa per l’anestesia. Ma lui, poche ore dopo, in quella situazione, si era comportato come un vero paladino della giustizia, un cavaliere dell’ideale, un difensore dei poveri e degli oppressi contro l’arroganza del potere!

Il potere, nel caso specifico, era rappresentato da una caposala dai capelli rossi, che a mio zio (posso garantirlo) era piaciuta subito, per quei capelli raccolti con aria di niente, in verità con cura sopraffina, e per le guance lisce e il nasino sottile pieno di lentiggini, certo, ma anche per la falcata decisa, il portamento: giacché camminava su tacchi alti, sonori, tatac tatac, che le inarcavano le reni, e indossava il camice come altre l’abito di Versace sulla croisette… Pur essendo già sul lettino alto e stretto della sala operatoria, rivestito solo di quello speciale velamprino da ospedale che ti lascia praticamente nudo sotto al lenzuolo leggero leggero, mio zio doveva aver fatto il cascamorto con un paio di battute, quella mattina, e si era preso le sue brave occhiatacce dalla starlette offesa: come si permetteva, quel panzone vecchio e calvo, di fare il cretino con una come lei? che, se proprio voleva, si capiva benissimo, aveva la fila dei medici pronti a buttarsi ai suoi piedi, dal dottorino neolaureato al primario, e pazienti di ben altro portafoglio che da corsia della mutua – se proprio voleva: ma non voleva, era chiaro che non voleva affatto…

Mio zio, in verità, sarà anche un po’ in piazza e un po’ sovrappeso, ma non è per niente un cretino, e tantomeno un dongiovanni da quattro soldi. È un uomo molto intelligente, invece: insegna qualcosa tipo grammatica all’università, scrive dei libri, alle feste ci fa morire tutti dal ridere con le sue battute, e a me insomma piace, anche perché si chiama Massimo, che è un bel nome, da attore figo, mica Pietrandrea, che è il nome di mio padre ed è perfetto per il direttore delle poste di Casalpusterlengo. (Io mi chiamo Carolina, a proposito, che la dice lunga sui gusti dei miei, ma mi faccio chiamare Carol, ovviamente). Ma zio Max è sempre andato dietro alle tipe sbagliate, dice mio padre, e sbaglia oggi, sbaglia domani, alla fine è rimasto solo; e ormai si è rassegnato, a cinquant’anni, però quando trova qualcuna che gli piace si mette a scherzare. Non è che “ci provi”, lo sa benissimo che sono “tipe sbagliate” (sbagliate per lui, s’intende), ma è fatto così. Comunque, non è di questo che vi volevo parlare.

Dunque: la notte dopo che era stato operato, dal Pronto soccorso avevano mandato “su alla 208” un tipo con la mano fasciata. I quattro pazienti che già dormivano nella stanza, tra cui mio zio, si erano risvegliati al trambusto e avevano osservato il quinto compagno che, sedato, veniva sistemato in uno dei due letti liberi. La mattina, misura della temperatura e della pressione, prelievi, verifica delle flebo ecc. Mentre chi poteva faceva colazione (mio zio era ancora “a digiuno”, ovviamente, avendo subito un intervento all’addome), era venuta fuori la storia: l’uomo era un immigrato turco a cui, durante una rissa, “un amico” (parole sue) aveva staccato un dito con un morso – i medici, recuperato il frammento (che l’amico aveva subito sputato, bontà sua), erano riusciti a ricucirlo e adesso bisognava solo sperare che i nervi… i tendini… insomma, attaccato era attaccato, ma ancora non si sapeva se avrebbe potuto muoverlo e come.

La normalità ospedaliera aveva appena ripreso il suo corso e il ronzio del reparto invitava alla prima dormitina, in attesa della visita di rito del chirurgo + codazzo di assistenti, quando era entrata la caposala coi capelli rossi, tatac tatac, per compilare i documenti del turco, con l’aria molto scocciata di chi deve abbassarsi a un lavoro indegno di lei e mettere a repentaglio, impugnando una penna a sfera, la perfezione rileccata delle unghie.

Senza salutare nessuno e senza guardare in faccia nessuno, sua eccellenza la principessa delle caposale si era appollaiata su una delle scomodissime sedie che al pomeriggio dalle 18 alle 19 erano destinate ad amici e parenti e si era messa a leggere il questionario, tenendolo sulle ginocchia e parlando velocissima, a mezza voce:

“Dati anagrafici?”

Il povero turco, semisdraiato sul letto, tenendo alto come uno stendardo la mano steccata e avviluppata nelle bende, l’aveva guardata con la bocca aperta. Era evidente che il suo italiano non contemplava il burocratese e che la domanda, per lui, era del tutto incomprensibile.

“Senta (aveva continuato la principessa con aria molto scocciata, senza rallentare, né alzare la voce), io sto solo facendo il mio dovere e le chiedo di collaborare. La prego di darmi subito le sue generalità per il modulo 406”.

Il turco, continuando a esibire quel cotechinone al mercurocromo della mano bendata come se ciò bastasse a spiegare ogni cosa, si guardava intorno in cerca di solidarietà, con un’aria spaesata da “basta che mi dite cosa devo fare, e sono qui…”. Mio zio, che era nel letto accanto e che aveva, come ho detto, qualche cosa in sospeso con la rossa, eccolo intervenire lancia in resta, parlando all’uomo, ma tenendo gli occhi fissi su quella massa di capelli raccolti alla come-vien-viene e su quella nuvola di lentiggini che ostentatamente lo ignoravano:

“Nome – vuole sapere come ti chiami”.

“Ah”, si è illuminato il tipo: “Can Erener”.

E la rossa, più fredda che mai: “Residenza o domicilio?”

Mio zio, ormai scatenato: “Dove abiti?”

E il turco: “Via Donatello 21”.

“Cittadinanza?”

Zio Max, stringendo il ritmo per non lasciarle un attimo di respiro: “Turchia”.

“Attività professionale?” – sempre rivolta all’immigrato, come se non ci fosse nessun altro nel raggio di chilometri tutt’intorno.

“Che lavoro fai?”

“Pissa che bab”.

Gli altri pazienti seguivano il duello col fiato sospeso, in un silenzio lunare.

La rossa aveva alzato gli occhi, con un minimo aggrottar della liscissima fronte. “Le ho chiesto la professione”.

“Pissa che bab!”

Era evidente che la rossa non capiva. E lo zio, carogna, zitto. Doveva tradurre? Ma neanche… Avrebbe pagato per sapere cosa le faceva frullare nel cervello quel “pissa”…

Poi, di colpo, l’illuminazione della caposala: “Ah, fai il kebabbaro!”

“No”, mio zio alza il dito, si sporge quasi dal letto, dio che fitta! alza la voce, lui sì, professorale, autoritario, per sovrastare la nemica finalmente smascherata, per bloccarle la mano che già vergava l’epiteto offensivo nell’apposita casella del modulo 406: “addetto alla ristorazione!”

Così, dicevo, l’aveva raccontato mio zio al rientro. Perché abitava sopra di noi, da parecchi anni, e nei primi giorni della convalescenza era quasi sempre a casa nostra, o noi a casa sua. In seguito, quando io gli chiedevo di raccontarlo ai miei amici, alle mie compagne, si schermiva: “una sciocchezza”, diceva, lasciando intendere che uno come lui aveva compiuto ben altri gesti, ben altre imprese, in vita sua… lasciamo stare! E tuttavia, continuava cedendo alle mie richieste, sacrificando per l’edificazione di noi giovani la propria naturale modestia, tuttavia, è proprio dalle piccole cose che si misurano le persone: e citava Bobbio, pentito, ancora cinquant’anni dopo, di non aver protestato quando, da ragazzo, aveva visto il cartello con la scritta “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei” sulla vetrina del bar di Torino dove faceva sempre colazione; citava don Abbondio e il latinorum con cui il vigliaccone cerca di ingannare Renzo (capitolo II: l’avevamo appena studiato, a scuola); o don Milani, uno dei nomi che aveva sempre sulla bocca, che insegnava ai poveri l’italiano (e anche il francese, l’inglese, tutte le lingue) per potersi difendere dai ricchi e dai potenti e ridere dei sacri confini delle patrie; e in un modo o nell’altro finiva per tirare in ballo i grandi temi, gli ideali in cui credeva, la giustizia, la libertà, la pace, perché la grammatica non è solo la grammatica, nel modo in cui usiamo la lingua c’è il bene e il male, la democrazia e la prepotenza; e tutto, dalle guerre in Medio Oriente alle donne sfigurate con l’acido, dal riscaldamento globale alla disoccupazione e al narcotraffico, tutti i problemi del nostro tempo, dico, a sentirlo parlare sembrava che fossero lì, nascosti, adombrati, liofilizzati in quello scambio di battute fra la caposala prepotente e il turco con la mano a paletta e lui, professor Massimo De Bortolis, che traduceva e giudicava perché sapeva come rimediare ai mali del mondo. E rimediava, infatti, per quanto era in suo potere e pa pa pa e po po po…

Ora, non credo che questa si possa definire una storia triste, anche se certo un po’ di tristezza c’è, in quello che sto per dirvi, se uno ci pensa. Mio padre dice che bisogna sempre immaginare come vedremo le cose fra dieci anni, e io capisco che alla sua età si possa pensare alla vita come a una serie di decenni, gli anni Ottanta, gli anni Novanta, magari ci arriverò anch’io, a fare la vecchia saggia e distaccata, ma adesso ne ho quindici, di anni, e se proprio proprio faccio uno sforzo mi vedo fra sei mesi, sette. Piuttosto, è vero che ultimamente non so bene cos’è che mi fa ridere: perché tutti si commuovono davanti a un cucciolo che guaisce e si sganasciano se un ciccione cade dalle scale? Una volta ho detto alla prof che il romanzo di quel tizio trasformato in uno scarafaggio a me sembrava buffo, non terribile – ed è venuto fuori un pieno, volevano portarmi dallo psicologo, per fortuna mio zio (sempre lui) mi ha spiegato che anche Kafka, ecco come si chiama l’autore, Kafka, ghignava quando lo leggeva ai suoi amici, e va be’.

Comunque, la storia finisce così: che un paio di mesi dopo l’operazione, era il mio compleanno – il quindicesimo, appunto; e zio Max ha pensato bene di invitarmi a un brunch in centro, in un posto che conosceva lui, vicino all’università ecc. ecc. E anche se lui dovrebbe stare a dieta, dopo l’operazione (e anche prima, perché ammettiamolo: la pancia ce l’ha davvero!), e io sono la degna nipote, sempre in lotta con la quarantaquattro, ci mettiamo seduti a un tavolino sul marciapiede, sotto a un’ombrellone quadrato pieno di loghi, coi passanti che ci sfiorano e le macchine a pochi metri, rombanti, e lì ci godiamo una montagna di schifezze piene di grassi e di zuccheri, le salsicce al cognac, la quiche lorraine, la cheesecake, che non si dovrebbe neanche guardarle, ma una volta all’anno, con lo zio prediletto, che cavolo…

Mentre siamo lì che ce la raccontiamo e io mi sfogo un po’ sulla scuola, sui genitori, come si fa in queste occasioni, si avvicina un tipo tutto sorridente e saluta dicendo, “Non mi riconosce?” perché Max lo guarda aggrottando la fronte perplesso.

Ma certo, l’ho riconosciuto subito, io – erano insieme all’ospedale, due mesi prima, lui era quello con l’ernia, era entrato in sala operatoria proprio dieci minuti prima di lui. Una di quelle persone che ti riescono odiose senza un motivo, a pelle, e proprio per questo ti si fissano nella memoria. Lui ci aveva messo del suo, quando mi ero presentata fredda fredda, col mio nome da direttrice delle poste di Casalpusterlengo, “Piacere, Carolina”, osservando subito “Come la mucca!” E cosa non avevo pensato di sua madre?

“Ma certo!” adesso anche lo zio l’ha riconosciuto, si alza – tutto bene? E si stringono la mano e come va e gli ultimi esami e la trovo in piena forma e altre balle così, poi si stringono la mano di nuovo e il tipo fa per allontanarsi, perché è chiaro che non hanno niente da dirsi, a parte il fatto di aver passato qualche ora nella stessa camera al Policlinico. Invece il tipo torna indietro, e quasi sottovoce, chinandosi, sfiora con la mano la spalla di mio zio che si è già riseduto, e lo guarda, annuendo senza più sorridere, lo guarda dritto negli occhi, e all’improvviso è come se tutto intorno a noi si fermasse e rimanesse immobile e silenzioso, il traffico, i pedoni, e in quel silenzio lunare io sento benissimo che dice: “Si ricorda, il turco con il dito staccato a morsi? Ci ho ripensato spesso, sa – avremmo dovuto intervenire, noi che potevamo, e non lasciare che quella stronza lo maltrattasse così. La caposala, dico. È vero?”

Mio zio è diventato tutto rosso, di colpo, come se gli fosse caduta all’improvviso una mano di bianco dalla faccia. E io mi sono messa a ridere, a ridere, che credevo di strozzarmi e il cameriere è arrivato di corsa a chiedere se c’era qualche problema con il milkshake.


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