IX.
Mi sto preparando mentalmente per l’incontro con Aleksandra, neanche fosse la mia strizzacervelli, e me lo trovo di fronte. Porta tra le mani una lepre morta. Me la getta ai piedi e si siede accanto.
– È un regalo?
Mi accenna un sì.
– Grazie, allora, ma almeno posso farla cuocere?
Sorride.
– Se non ti piace cruda.
– A te come piace?
Non risponde. Ma la risposta ce l’ho sotto il naso. E puzza decisamente.
È immobile accanto a me. Ci guardiamo. Ci annusiamo. Saldiamo la nostra amicizia con un dono. Non è da poco.
Il tempo scorre, ma non una parola, non un cenno.
Lui indossa una giacca militare più abbondante di due taglie, pantaloni scuri, faccia sporca di terra e mani insanguinate. I capelli non sono sporchi ma solo neri. Lunghi. Liberi sulle spalle.
– David, lei ti aspetta – la voce di Lue interrompe la nostra lotta psicologica, fatta di sguardi. O semplicemente interrompe un momento di condivisione, che io non so leggere se non con teorie psicodinamiche strampalate.
– Grazie ancora.
Si volta e con uno scatto veloce è oltre la soglia.
– Lui è così – dice Lue. E le scappa un ghigno.
È la definizione più azzeccata.
Conosco poco Aleksandra, eppure le sono entrato dentro. Letteralmente.
La schiena è appoggiata alla testiera, le gambe distese sotto la coperta, suppongo nude.
– Vorrei chiederti una cosa – le dico.
– Non credo proprio.
– Nulla che riguardi me. Volevo sapere del bambino che mi ha portato qui.
– Che bambino?
– Non so come si chiama, quello che hai mandato al Villaggio a liberarmi, che è libero di girare dove vuole.
– Tutti sono liberi, anche tu.
Si stira e sistema il cuscino. È un’altra persona. Ma sono certo che possa trasformarsi da un momento all’altro.
– Per prima cosa, non l’ho mandato io. Ha scelto da solo, anche se è vero che ti volevo qui.
– Continua, ti prego.
– Perché vuoi sapere di lui?
– Forse è solo disfunzione professionale.
– Non ha nome. Salta fuori quando abbiamo bisogno di lui. Diciamo che è molto indipendente. Vive e credo abbia sempre vissuto nella Foresta. L’ho incontrato per caso un paio d’anni fa e da allora si è unito a noi. A modo suo.
– Ma come può essere? Così piccolo.
– È fuggito dal Villaggio. E credimi, non è facile. C’è un controllo efficiente attorno al perimetro. Ma si sa difendere.
– Me ne sono accorto – rispondo tra me e me – è un caso originale, vorrei saperne di più. Probabilmente non ha mai conosciuto i genitori e sopravvivere da solo a quell’età è quasi impossibile. Ricorda il bambino selvaggio, trovato nell’Aveyron, verso la fine del XVIII secolo.
– Ma nel mondo di fuori siete tutti così stronzi? Forza dottore qual è la diagnosi e quale la cura? Cazzo, ti ha salvato la vita.
È probabile che a furia di essere masticato dalla vita e dalle persone ora sia lui a masticarsele. Un bambino che cresce senza possibilità di attaccamento a una figura di riferimento, nell’età più importante per la formazione della sua struttura psico-emotiva, può avere danni emotivi inimmaginabili.
– Magari posso aiutarlo – le dico. Sto solo facendo il mio lavoro.
– Certo che puoi. Lue mi ha detto che ti ha portato un dono, inizia a condividerlo con lui, crudo, magari poi si fida di te. Poi aiutami a… – e si ferma.
– A fare cosa? Qual è il vero motivo per quale sono qui? Maledizione, sono stufo delle vostre frasi a metà.
Si alza di scatto. Si avvicina e allunga la mano sul mio stomaco. Accarezza la ferita, sopra la maglietta, che mi ha fatto lei stessa in una notte di pioggia. Mi annusa. Si allontana.
– Ma lo sai almeno dove sei?
– No, che non lo so. Mi hanno sballottato ovunque e nessuno risponde a questa maledetta domanda.
Terrore. Ansia. Voglia di frignare come un poppante.
– Guardati attorno. Vedi la tv, il telegiornale, qualche quotidiano che non abbia almeno dieci anni? Vedi genitori affettuosi nei paraggi? Solo pezzi di merda per le strade. Vuoi sapere dove sei? Bella domanda, nessuno può rispondere e tanto meno io. Forse Patrick sa qualcosa di più, ma si farebbe uccidere pur di dirlo.
– E allora io… cosa?
– E allora mi sa che tu non servi davvero a nulla. Pensi che sia utile a qualcosa tutta la tua psicologia qui? Bisogna sopravvivere. Uccidere, mangiare, scopare. E sperare che nel frattempo nessuno ti strappi il cuore per puro divertimento.
– Ma tu – quasi sussurro – hai creato qualcosa, un ordine.
– Non sono meglio degli altri, dovresti saperne qualcosa.
Si accorge di aver abbassato l’armatura. Ha lo sguardo di chi ha superato il limite una volta di troppo ed io ne approfitto.
– Aleksandra, hai ragione quando dici che non posso esserti utile. Sono come un bambino in questo mondo, anzi meno.
– Ma conosci il mondo di fuori.
– Questo sì.
– E non solo. Forse dentro di te c’è ancora qualcosa.
Certo: paura, confusione, nausea.
– Raccontami della tua vita fino a qualche giorno fa.
– Normale. Nel senso che si può dare a una semplice vita. Sono emigrato in Francia sei anni fa circa. Lavoravo all’università di Milano, come docente. Mi piaceva insegnare.
– Cosa ti ha portato in Francia?
– Una studentessa, arrivata da Marsiglia con l’Erasmus.
Mi guarda.
– È un progetto di collegamento tra le città europee. Di studio e condivisione.
– Qual era il suo nome?
– Elodie – sussurro – era una mia allieva ed io me ne sono innamorato.
– E hai lasciato tutto per una donna appena conosciuta? Viviamo davvero in due mondi diversi.
– È stata in Italia un paio d’anni. Poi, prima di tornare, è rimasta incinta ed io, insomma, ho scelto lei. Marsiglia è una città piena di possibilità e non c’è voluto molto per un docente con le mie credenziali a ottenere un dottorato nella ricerca.
– Sei uno importante?
– Direi di no. Ma fin da piccolo amavo studiare. Mi sono laureato presto, mio padre era rettore all’università e sono abbastanza conosciuto nel settore. Sono il classico topo da biblioteca.
– Non lo sembri.
– Non porto gli occhiali e ultimamente ho avuto un pessimo parrucchiere, ma rimango un professore.
– Che si innamora, mette incinta una ragazza e la segue in Francia, a Marsiglia – m’interrompe.
– E che una sera si ubriaca, fa una cazzata che non ricorda e si ritrova qui, a dire più parolacce di quante pensava di conoscere.
– Davvero non ricordi nulla?
– Poco.
– Hai fatto qualcosa a una persona importante.
– Ho solo immagini confuse, forse una lite. Me le sono prese di certo. C’era anche Marc. Tu come lo sai?
Sorride.
– Il mio amico Marc è un poliziotto – continuo – mi cercherà.
I suoi occhi nei miei.
– Voglio che mi racconti ancora della tua vita.
– Perché? Sono io che voglio sapere. Cos’è il Villaggio? Perché tu ti sei allontanata e hai creato tutto questo?
– Devi sapere solo che tua figlia è fuori di qui e, se vuoi sperare di raggiungerla, ti conviene stare ai patti.
Mi allontano da lei e da tutto quello che mi fa sentire un topo in trappola.
– A meno che tu non voglia andartene, ma pensavo fossi un uomo di parola.
Non lo sono, passerei sopra a quella sconosciuta e a una ventina di bambini per tornare a casa, ma non ho nessuna possibilità da solo.
– Cos’altro vuoi?
– Hai menzionato un poliziotto. Che mi sai dire di lui?
– Era un caro amico d’infanzia di Elodie. Un commissario di polizia, non rammento di quale distretto di Marsiglia. Ci è stato accanto quando se n’è andata.
– Potrebbe davvero provare a rintracciarti?
– A questo punto non saprei. Forse è morto, o è in un luogo simile a questo. Era con me quando è successo. Ha pronunciato un nome, ma…
Mi avvicino a lei.
– Senti, dobbiamo fidarci l’uno dell’altra. Raccontami tutto quello che sai, forse ti posso aiutare. Arrivo da quello che chiami il mondo di fuori. Magari so qualcosa che ci può essere utile, ma non so di saperlo.
– Tu non sai un cazzo.
E mi bacia.
Sento i suoi respiri. I suoi seni. La sua voglia.
La respingo. La raggiungo. Sono sopra di lei e le tengo le braccia, ma il mio potere è solo una sensazione. Con le gambe mi stringe la vita fino a farmi urlare. La lascio e cado all’indietro. Una parte di me vorrebbe che continuasse, una parte invece vorrebbe scappare.
Ma non mi è concessa scelta.
Fa ciò che vuole, con il mio corpo che risponde a ogni sua richiesta. Due animali che si accoppiano. Le mie mani dentro di lei. La mia bocca dentro di lei. Io dentro di lei.
Seni gonfi. Pelle calda. Dita che s’incrociano. Sudore che impregna le pance. Pensieri sporchi. Voglia di essere usato e di usare. Voglia di fottere e di amare, ma nello stesso momento.
Piango, pensando che per un istante ho dimenticato. Solo per un istante. Poi esco dal buio e ricordo ciò che devo fare. Continuo a farci sesso, senza pensarci troppo, se questo può aiutare il mio progetto.
Non credo più a nulla e posso essere un bastardo figlio di puttana, quando serve.
X.
Suono il pianoforte. Ludovico Einaudi mi accompagna con una musicalità irreale. Non sono mai stato troppo bravo, benché oggi le note mi sorridano e sembri quasi non stia suonando io. Iris è dietro di me, la scorgo con la coda dell’occhio. Mi ha chiesto di accompagnarla in uno spettacolo e sta ballando in pigiama. Sono le otto del mattino. Anch’io sono in pigiama. Il suo modo di interpretare i passi di danza mi fa sorridere. Piroetta e la maglia si allarga, poi cade e si rialza. Sono dove vorrei essere, non capita spesso. È il mio pensiero felice, direbbe Peter Pan, quello che mi permette di volare.
Poi accade qualcosa, sento un profumo, il profumo di Elodie, che ha impregnato la manica. Ma questo può succedere. Per mesi, se non anni, dopo la sua morte, la mia testa non smetteva di annusarla per casa. Credo sia la stessa cosa per chi perde un arto: sentire la gamba mozzata come ancora presente, muovere le dita dei piedi.
La vedo e sono certo di vivere in un sogno, ma non importa. Ha la vestaglia azzurra, che mette quando è di buon umore. Spalline sottili, collo nudo. Capelli luminosi, seni che s’intravvedono sotto la seta. La vestaglia si ferma appena oltre il sedere ed io so che sotto non porta nulla. Mi concede questo spettacolo solo il sabato mattina, quando ci lascia giocare e prepara la colazione. Mi godo la mia unica possibilità di rivederla.
– Sapevi suonare il pianoforte? – la voce è un martello sulle tempie, che mi fa scontrare con la realtà.
Vedo Aleksandra accanto a me. Attraverso l’oblò del camper osservo il sole sorgere tra le piante.
– Come diavolo lo sai?
– Continuavi a muovere le dita nell’aria, mentre dormivi.
È nuda. È vicina. È quasi divertita e confidenziale. E questo stona con tutto. Con me stesso, con la situazione, con il mio passato.
– Abbiamo fatto l’amore? – le chiedo.
– Avevo solo voglia.
– Non è quello che ti ho chiesto.
Non abbiamo solo scopato.
– Ora vestiti e vattene.
Mi avvicino e la bacio sulla guancia.
– Cazzo stai facendo?
– Bella domanda. Non lo so, mi andava.
Si alza e si veste velocemente.
– Non mi fotti.
– Pensavo di averlo appena fatto.
Sorride.
– Hai capito cosa intendo.
La imito, ma non me ne vado. Scaldo il caffè e glielo porto. L’aroma ci raggiunge e per un istante mi sembra stia cedendo. Funziona.
– Cosa ci fai qui? – le chiedo.
– Non è che abbia avuto scelta.
– Come sei arrivata a creare tutto questo?
Mi guarda e reagisce in un modo inaspettato: risponde.
– L’uomo che mi ha trovato per primo mi ha istruito. Voleva prepararmi al mondo di fuori. Era un docente di economia. Il suo nome era Yacov, di origine russa, come me. Nato e cresciuto a Mosca, non ho idea di come fosse finito qui. Mi ha protetto finché è riuscito.
Non per sempre, gridano le cicatrici sulla sua pelle.
– Poi cosa gli è successo?
– L’hanno spellato.
Tossisco.
– Cosa intendi?
– L’hanno attaccato a un palo, un po’ come hanno fatto con te, ma a testa in su, e gli hanno tolto la pelle. Da vivo.
– Non prendermi per il culo.
– Tu forse non hai ancora capito. Qui può accadere di tutto. Ero ancora una ragazzina e mi hanno obbligato a godermi lo spettacolo. Fino in fondo.
– Perché questa violenza?
– Non servono motivi. Aveva delle sue idee e alcune persone iniziarono ad ascoltarlo. Voleva aiutare i bambini. Stava organizzando un piano e questo non piaceva a qualcuno. Il nuovo capo branco, diciamo.
– Patrick, suppongo.
Mi fa cenno di sì.
– Ha ucciso il tuo mentore?
– Ha ucciso l’unica persona che mi proteggeva da loro.
E hai subito tutto il male del mondo, fuori o dentro il perimetro che sia.
Ho aperto una breccia nell’armatura e un po’ mi spiace, ma non abbastanza.
– A te cosa è successo?
– Sono diventata quella che sono.
Si corica sul letto. Respira profondamente e prosegue.
– Non è finita. Si diceva avesse delle armi. Nessuno aveva reclamato, fino ad allora. Lui era una specie di gran maestro e non le avrebbe usate per dettare legge. E poi nessuno le aveva mai viste.
– Per questo l’hanno ucciso?
– Mentre gli toglievano i primi lembi di pelle. Lentamente. Pazientemente. Giocosamente. Mentre le urla mi strappavano i timpani e lo osservavo morire, iniziò a spifferare tutto. Pistole e fucili, munizioni varie. Confessò anche il luogo segreto, dove erano nascoste.
La guardo. I contorni del seno nudo, colline morbide e sode, le labbra carnose, i capelli che scivolano dal viso per mostrarlo in tutta la sua voracità.
– Ma non le trovarono.
Respira profondamente.
– Perché qualcuno le aveva portate via.
Tu? Vorrei chiederle.
– Contento, dottore? Hai saputo abbastanza o vuoi anche sapere cosa mi ha fatto diventare così? – il suo viso che si specchia nella mia pupilla – Io non ho paura.
L’eco della frase di Iris.
– Io sì – questa volta rispondo.
– Bene. È un buon inizio.
Salta sopra di me, mi gira e al posto di baciarmi mi morde il fianco, all’altezza della vita. Penso sia un gioco sessuale, ma presto avverto la carne lacerarsi. Urlo, ma lei non smette. Scorgo, con la coda dell’occhio, una macchia scura che dipinge il letto.
Si ferma. Non mi fa voltare. Con due dita stringe la carotide. Ora il suo peso è sulla schiena. Alza la mia testa, tirando i capelli, e continua a premere con le dita.
Poi mi molla.
– Perché non mi uccidi e la facciamo finita? – parole sputate fuori con la saliva.
– Ti sto solo insegnando come sopravvivere.
Bel modo.
– Vuoi tornare a casa oppure no?
– Più di ogni altra cosa.
– Allora non usare solo la testa, in quello sei bravo.
Stringo il lenzuolo contro la ferita, sperando non ci vogliano ancora dei punti. Lue permettendo.
– Non ci so fare con le mani, mi sembra si sia capito.
– Anche la violenza è una questione di testa.
– Non iniziamo con la filosofia orientale o la psicologia da strapazzo – rispondo a fatica.
Si lecca le labbra, sporche del mio sangue.
– Volevi sapere cosa mi è successo dopo la morte di quell’uomo? Mi hanno stuprato, picchiato, spento le sigarette addosso, pisciato addosso – la sua voce è atona.
– Nessuno mi aveva mai insegnato a difendermi, né lo sapevo fare – continua – ma proprio nell’istante in cui stavano uccidendo una parte di me, scattò qualcosa. Volevo vivere, volevo vendicarmi, volevo usare il mio corpo in ogni modo possibile e impossibile.
– Alla fine – un sorriso morboso – è solo una questione d’immaginazione.
Il mio sguardo.
– E l’ho fatto – finisce.
Pausa tra i miei pensieri, tra le nostre parole. La ferita smette di sanguinare, ma il dolore non diminuisce.
– Spiegami ancora.
– Il tuo corpo è un’arma, insegnano le arti marziali. Non sai quanto è vero, ma non per le tecniche che impari, quanto per l’immaginazione distruttiva di una testa che non ha nulla da perdere. E che ha uno scopo. I modi per uccidere un uomo non sono molti: un’arma, meglio se da fuoco, o il tuo corpo.
– Non capisco.
– Facciamo un esempio. Io sono una donna molto meno forte di te, ma conosco il mio corpo così bene che posso utilizzarlo per ucciderti in ogni momento. Ma solo se sono priva di inibizioni. Dopotutto sei un dottore, anzi, meglio ancora, uno psicoterapeuta, dovresti saperlo meglio di chiunque altro.
Una nuova branca della psicoterapia applicata.
– Nel senso che tutti noi abbiamo paura di qualcosa e ci freniamo?
– Non ci sei ancora. Se tu mi blocchi a terra e tenti di fottermi, io cosa posso fare?
– Non lo so, cercare di scappare? Tirarmi un pugno?
– Posso morderti le labbra con i denti. Se mi metti l’uccello in bocca potrei tranciartelo e sputarlo.
Questa immagine fa a pugni con la notte appena trascorsa.
– E dopo – prosegue – mentre sei confuso, infilarti le unghie nelle orbite oculari e penetrare nel molle fino al cervello, potrei strapparti le palle o il naso.
– Ferma… ferma…
– La questione è molto semplice, ma è proprio questa semplicità che non è facile da accettare. Solo il parlarne ti tocca dentro. E la tua faccia me lo sta gridando. Solo a sentirlo stai male. Io ho superato questo limite e ora chiedo anche a te lo stesso.
– Io…
– La scelta è tua. Ma non c’è altro modo. Non possiamo farcela se rimani ancorato al passato.
Che direbbe Elodie di me? Tutto mi è concesso pur di tornare da nostra figlia? E ritroverà lo stesso padre o un mostro?
– Devo pensarci.
– Non abbiamo troppo tempo.
Mi alzo dal letto. La testa gira. Sesso. Violenza. Dolcezza. Confusione. Mi vesto meccanicamente e solo quando sono sulla soglia, le chiedo – Le armi?
– Di quelle non preoccuparti. Sono il solo motivo per cui Patrick non ci ha ancora scagliato addosso i suoi.
– Le hai tu?
– È importante che loro lo pensino.
Il sole non è ancora alto. Fuori, sono già seduti ai loro posti e aspettano la colazione. E con essa il buon giorno dell’unica madre che abbiano mai conosciuto.