“Capra e cavoli” di Paola Varalli


 

Siamo in tre.
Giulia Corvi, Mario Bellini e io, al secolo Gertrude Rimoldi, detta Gerry, formosetta quanto basta a dispetto del nomignolo maschile.

E’ luglio, è mattina presto e sediamo mezzo addormentati sui sedili appiccicosi- fintapelle del treno Milano – Verona, meta: le Dolomiti.

“Alta via numero uno!” ha decretato il Bellini.
“Sarà faticoso?”
“Non ti preoccupare, Gerry, si sale all’inizio, ma poi è tutto in quota”. Mai affermazione fu più menzognera.

Mario Bellini, uomo tutto d’un pezzo, oltre a portare con disinvoltura un nome da musicista (ma anche un po’ da cocktail) indossa un paio di braghe gialle di velluto a coste larghe che gli arrivano al polpaccio. Davvero inguardabili. Noi fanciulle sobri pantaloni da trekking e scarponcini da montagna. Gli zaini sono leggeri, ridotti al minimo, perché bisogna portarseli appresso per sette giorni: due magliette, un pile, la giacca a vento e panta-vento d’ordinanza. In montagna, lo sappiamo, anche in estate può far freddo e piovere.

Il Bellini, organizzatore indiscusso della spedizione, ha distribuito i compiti prima di partire:
“Tu, Gerry, porti frutta e formaggio, Giulia barrette e zuppe e io porto la tenda e il fornellino.

“La tenda? Ma sei matto? Con quello che pesa … non si era detto: “Dormiremo nei rifugi?” (coro di ragazze preoccupate)
“Eh, sì, ma non abbiamo prenotato, metti che non troviamo riparo?”
E vada per la tenda, a patto che se la carichi in spalla lui.

Io realizzo che sono l’unico genio al mondo ad aver riportato le mele in Trentino, le ho scelte perché sono serbevoli e nello zaino non si deteriorano, però potevo comperarle qui, invece che alla Conad.
Sbarchiamo dal treno a Villabassa, dopo il cambio a Verona, e ci infiliamo in un bus per il lago di Braies.

Scendere dalla predella e rimanere incantati è tutt’uno: il lago è magnifico, le montagne intorno si specchiano nella superficie di puro cristallo turchese. Nemmeno una leggera brezza ne intacca il lucente splendore. Anche la ciarliera Giulia rimane senza parole. I nostri occhi iniziano a vagare intorno e le vette ci attirano come carta moschicida, guardiamo il sentiero tra gli abeti, è lì per noi e ci invita all’avventura.

Il Bellini, pragmatico, ci scuote dall’incanto: “Forza raghe, si va!”

Prendiamo verso sud, ci sentiamo bene negli scarponi. Respiriamo aria pulita, abbiamo il cuore leggero e le gambe scalpitanti. Pezzetti di cielo blu tra gli alberi ci regalano sensazioni di pura gioia, camminiamo scavalcando, a tratti, nodose radici su un letto di aghi bruni e morbidi, costeggiamo la sponda est del lago. Alta via numero uno: eccola qua! La vita ci sorride. La Croda del Becco ci osserva maestosa dall’alto, Rifugio Biella …arriviamo!

Il Bellini, contrario a tutto ciò che è tecnologico, non possiede cellulare. Io e Giulia sì, ma la nostra guida, vetero quanto basta, ci impone di spegnerli. Tanto non è che prendano sempre il segnale, quassù. Va però detto che noi due, giusto per farlo un po’ infuriare, ogni tanto raggiungiamo una altura e cominciamo a far finta di accendere i telefonini dichiarando: ” Ehi vieni, qui c’è campo, qui prende”. Quando il Bellini inizia a sacramentare contro le diavolerie moderne: “Guardate la natura che è così meravigliosa e non perdetevi dietro a ‘ste stronzate… eccetera”, noi, che non lo abbiamo neanche acceso, ci sbellichiamo dalle risate e ci riteniamo soddisfatte per aver raggiunto il nostro scopo di vecchie ragazze dispettose.

“Siete due cretine! Non vi porto più!” borbotta lui, ma si vede che se la ride sotto i baffi, divertito, suo malgrado, dalla nostra piccola sceneggiata.

A conti fatti è meno talebano di quanto sembra.
Il sentiero non è molto frequentato, incontriamo qualche gruppo che, come noi, va al Biella. Scambiamo due chiacchiere in inglese con una coppia di Danesi molto simpatici.

Lui è ingegnere e lei porta un nome Italiano, Marina, perché suo padre era innamorato del nostro paese.

In una radura ci imbattiamo in un branco di cavalli Avelignesi, pascolano tranquilli con i puledrini, sono docili e vengono a mangiarmi in mano le noci che sgranocchio da una decina di minuti. Fame!

Giulia si allontana per fotografare una baita diroccata.

“Stai attenta – le grido – mica che ci sia una vipera! Guarda bene tra i sassi”

“Non ti preoccupare, ci bado.”

Il Bellini, che ha gambe lunghe, pulsazioni basse e fiato buono, si porta avanti. Il sentiero ora sale parecchio.

Abbiamo abbandonato i mughi e attaccato le rocce. Una marmotta fischia e si rizza in piedi, deve avvisare le altre che arriva gente. Mi attardo a guardarla, incantata. Ha un musetto meraviglioso. Tento una foto ma sparisce nella tana.

E spariscono pure gli altri. Bellini avanti, Giulia indietro e io sola. Che faccio? Corro a raggiungere l’uomo veloce oppure siedo e aspetto la fotografa lenta?

Mi attesto sulla seconda ipotesi, mi metto a guardare in giro e ad annusare l’aria che ha un sopraffino profumo di freschezza montanara. Sa di pino, di timo, sa di buono. Fa a pugni, e vince alla grande, con la puzza della città di pianura immersa nello smog, a cui il mio naso è, purtroppo, piuttosto abituato.

Giulia, però, non arriva.
Spazientita decido di tornare indietro, sarà ancora lì che fotografa, benedetta ragazza!

Scendo verso la baita diroccata, ma, man mano che mi avvicino, mi rendo conto che non solo non c’è Giulia, non c’è nemmeno la baita!

Ora, non è che tutto a un tratto sia apparso il Poltergeist dei monti, spiritello burlone della tradizione nordica, e l’ha fatta sparire. No! Molto più semplicemente, da lontano, abbiamo scambiato per baita un agglomerato di rocce e sassi che davvero possono trarre in inganno, per forma e disposizione. Quando raggiungo questi sassi “travestiti da casetta” l’illusione si scioglie come il ghiaccio nel Negroni: niente baita, e, peggio ancora, niente Giulia!

Preoccupata estraggo il cellulare … ah già, spento per colpa del Bellini, paladino dell’antitecnologia. Fa niente, lo accendo e provo ugualmente a chiamarla.

Una sola tacca, segnale scarsissimo.
“Utente non raggiungibile.”
Spento pure i suo, ovviamente. Lo rimetto in tasca, ma lo lascio acceso, si sa mai.
E adesso che faccio?
Calma Gerry, ragiona. Saranno passati quindici, forse venti minuti, Giulia non può essersi volatilizzata. La chiamo, ma il suono della mia voce rimbalza orfano tra le distese detritiche.
Mi guardo intorno con attenzione, cerco di aggirare la formazione rocciosa a forma di baita.
Un grosso masso, quello che da lontano ci era sembrato un tetto di piode, sovrasta massi più piccoli, quasi fossero muri. Un tempo, probabilmente, qui si ricoveravano gli animali. Scorgo a terra escrementi a pallina, produzione di caprioli, credo.
Ora che sono sul retro della strana costruzione riprovo a chiamare.
“Giuliaaa!”
“Shht, zitta!”
Una voce leggera, sembra lontana, ma non vedo nessuno.
Strizzo gli occhi, li stropiccio con le nocche e finalmente … eccola!
Giù, oltre un lastrone di roccia il terreno fa un dosso, salgo su un sasso più alto e, oltre questo dosso, mi appare la sua felpa rossa: una macchia neanche tanto piccola. Muovo verso di lei, la vedo che si sbraccia e mi fa dei segni come a invitarmi a raggiungerla ma a farlo in silenzio, porta l’indice vicino alla bocca in verticale, vuole che vada lì lentamente, agita le mani dall’alto in basso con lo scopo di farmi rallentare l’andatura. Ma che diavolo ha trovato?
Mi blocco. Che sia ostaggio di qualche strano individuo che ci ha seguito fino dall’inizio e la vuole rapire?
La famiglia di Giulia è piuttosto benestante, anzi direi decisamente ricca! I suoi sono di certo in grado di pagare un riscatto cospicuo.
Ma allora perché non è legata e perché mi fa strani segni?
No, non ha senso. Pensiero stupido. Riprendo il cammino verso di lei.

Mi riblocco. E se fosse una trappola? E se Il bandito mi avesse vista (e sentita) e le imponesse di farmi segni per attirare pure me nella valletta per poi eliminarmi in quanto testimone scomoda? Magari la minaccia con un’arma!

Poi, però, penso che sto facendo congetture prive di senso. Troppi libri gialli sul mio comodino. Dove sarebbe questo fantomatico bandito? Non c’è nessuno, solo Giulia e la sua felpa rossa che si sbracciano. Inoltre, diciamocelo, tutto può essere, ma se io fossi un rapitore non credo che me ne andrei a esercitare la professione in un posto come questo che è, sì, meraviglioso ma pure scomodo e pieno di saliscendi, un posto dove non prendono i telefoni e non si può neanche sbattere l’ostaggio dentro a un furgone, narcotizzandolo, e ripartire sgommando.

“Allora ti sbrighi? ”
Riprendo a scendere e finalmente capisco il motivo di tanto agitarsi. Altro che rapimenti e banditi!

Sotto uno spuntone di roccia, accucciato e tremante, Bambi mi guarda terrorizzato.

“Ma… che …”

“Shht, Gerry, parla piano che si spaventa. Ho sentito una specie di lamento, deve avere perso la mamma, oppure è ferito. Dicono che non li si debba toccare che poi la madre non riconosce più l’odore, ma non so se sia vero, non è che me ne intenda tanto. “Sembra Bambi, che occhi dolci.”

“Ma va’, Bambi era un cerbiatto!” “Perché? Questo cos’è?”

“Un capriolo. Ma il Bellini dov’è? Lui è più montanaro di noi, una volta che serve …magari sa cosa fare. Non so come aiutarlo, povero cucciolo!”

“Eh, sai com’è Mario, ha il passo lungo, va veloce. Sarà fermo ad aspettarci in qualche punto critico. Mi pare che più avanti ci sia un percorso attrezzato con i cavi. Starà lì a mangiar barrette e a lamentarsi della nostra lentezza.”

Guardo il capriolo e mi viene una idea: “Tu che gestore hai?”
“Gestore di cosa? Ma che ci azzecca coi caprioli? (Le origini napoletane di Giulia ogni tanto escono allo scoperto.)

“Ci azzecca, ci azzecca: siccome il mio cellulare prende poco, magari il tuo, se hai una compagnia telefonica diversa, quassù funziona!”

“E chi chiamiamo? Mamma capriola?” “Ma vedi che sei pirla!”

Scoppiamo a ridere, ma sommessamente, per non disturbare il cucciolo, e ci ricomponiamo subito.
“Chiamiamo il Corpo Forestale dello Stato!”
“Quindici quindici!”

“Mhh, non so … mi sa che nelle regioni autonome si fa prima a rivolgersi ai Forestali di zona, quelli provinciali.”

“Ah, giusto … ma tu sai il numero?”
“No, ma il mio telefono, anche se ha scarsissimo segnale di linea, si connette con i dati” “Dunque?”
“Dunque cerco il numero su internet, tu accendi il cellulare, che tanto il Bellini non è in zona e non può rognare.”
Leggo da Google il numero e Giulia chiama i Carabinieri Forestali, spiegando loro il problema. Descrive il punto in cui ci troviamo, spiega quando è uscita dal sentiero e …”Sì, veniamo dal lago, sì, siamo dirette al Biella, alta via numero uno”. Ma non siamo sicure che sia sufficiente. Allora estraggo da una taschina dello zaino il piccolo GPS che porto sempre con me, di nascosto dal Bellini (“Raghe, cos’è ‘sta roba? Carte e bussola, mica ‘sti marchingegni elettronici, che si possono rompere o restare senza batterie!”).Clicco su “posizione” e diamo ai Forestali latitudine e longitudine del luogo.
Grazie alle nostre coordinate raggiungeranno presto il piccolo capriolo e sapranno cosa fare, forse lo porteranno in un’oasi faunistica per curarlo e poi rimetterlo in libertà. Oppure cercheranno mamma capriola per farglielo ritrovare. Ci ringraziano, ci chiedono le nostre generalità e ci consigliano di proseguire, hanno capito perfettamente dove siamo e non occorre aspettarli.
Ci assestiamo bene gli zaini in spalla e riprendiamo il cammino. Mi giro continuamente a guardare il luogo in cui ci trovavamo, forse spero di veder arrivare Terence Hill a cavallo in divisa da Forestale, ma per il momento non si scorge nessuno.
Arriviamo in uno stretto vallone che si chiama Buco del Giovo e … eccolo lì il Bellini, accoccolato su una roccia che sgranocchia pistacchi.
“Allora, voi due, ma lo sapete che vi aspetto da un’ora?”
Lo guardiamo sorridendo. Pensiamo che gli vogliamo bene, che il suo amore per la montagna e la sua avversione per la tecnologia siano in qualche modo ammirevoli: è vero, bisogna sempre potersela cavare senza strumenti e con le sole capacità dei nostri sensi e del nostro cervello, ma senza telefoni e senza GPS non so se avremmo soccorso il povero capriolo.
E dunque gli raccontiamo di compromessi, di come salvare capra e cavoli (anzi caprioli), di come dare un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma … cerchiamo di dirgli che vanno bene tutte e due le cose, ma che una non esclude l’altra. Non siamo mica sicure che si sia convinto, ma – forse – abbiamo avviato lo sgretolamento delle sue granitiche convinzioni.
Una cosa di certo l’abbiamo ottenuta: Il Bellini incomincerà a pensarci su.


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