Valeria si rigirò nel letto, si tirò le coperte sopra la testa e strinse forte gli occhi, mentre sentiva una lacrima che si infilava sotto le ciglia e scendeva lungo la guancia. Poco prima aveva chiamato al lavoro per avvisare che non sarebbe andata perché non stava bene, poi aveva aspettato che suo marito uscisse, salutandolo appena. Lui si era fermato per un attimo accanto al letto a guardarla, incerto se dire qualcosa, chiederle se voleva che restasse, poi era uscito, probabilmente sollevato all’idea di andarsene e passare la giornata fuori, lontano da quella casa e da quella stanza.
Meglio così, tutto quello che Valeria voleva era restare sola, a letto, senza vedere né sentire nessuno. Voleva soltanto piangere il suo bambino che non era riuscita far nascere.
Ci aveva provato con tutta se stessa, con l’ostinazione e la volontà che le venivano da quel desiderio fortissimo, ma era stato inutile. Inutile imparare a farsi le iniezioni e correre a casa dal lavoro, facendo attenzione a non tardare nemmeno un minuto. Mai aveva tenuto in mano una siringa e mai avrebbe pensato di doverlo fare, ma internet l’aveva aiutata con un filmato dettagliato, che aveva guardato e riguardato innumerevoli volte, prima di riprodurre quegli stessi gesti, e a poco a poco l’iniezione era diventata un’abitudine quotidiana al rientro dal lavoro: copriva la lavatrice con un asciugamano, aspirava con l’ago il contenuto delle due provette, poi sceglieva il punto in cui infilarlo. Aveva imparato quali erano i punti migliori, quelli dove l’ago entrava più facilmente, senza fare male. Un’abitudine come un’altra, un gioco quasi, non fosse stato per l’eccitazione che le veniva dal pensare che stava facendo qualcosa per il suo bambino, per riuscire ad incontrarlo e ad abbracciarlo.
Avevano riso molto lei e suo marito, quando era rientrata e gli aveva raccontato la scena in farmacia, mentre sceglieva gli aghi e diceva al commesso sbigottito che ne voleva proprio venti.Ma adesso era tutto finito e non aveva più nemmeno voglia di parlare con Giacomo e di dividere con lui quel dispiacere. Sapeva che lui era convinto che fosse inutile disperarsi, perché ci avevano provato e avevano fatto quello che avevano potuto.
Si rigirò ancora nel letto, mentre sentiva l’inequivocabile dolore al basso ventre. Il suo ciclo, il suo maledetto ciclo non si era fermato, era arrivato anche questa volta, puntuale e implacabile, come nei mesi in cui avevano tentato e si erano illusi di riuscire naturalmente. E anche questa volta ogni speranza era svanita. Non avrebbero mai avuto un figlio, quello che potevano fare l’avevano fatto, e persino quello che mai avrebbe pensato di poter fare. Ma non era servito a niente e non restava che rassegnarsi: Giacomo aveva già iniziato.
Sobbalzò nel sentire la chiave che girava nella serratura. Avrebbe riconosciuto ovunque quel modo secco e deciso di girare la chiave: sua madre. Doveva essere stato Giacomo ad avvisarla, perché non aveva capito che voleva restare da sola, nel buio di quella stanza, senza vedere nessuno, senza sapere più niente di nessuno. Perché non la lasciavano in pace?
I passi si avvicinavano, poi vide l’ombra che si affacciava sulla soglia, come quando lei e i suoi fratelli erano bambini e sua madre veniva a controllare che dormissero. Ebbe la tentazione di far finta di dormire, come quando era bambina.
“Giacomo mi ha detto che non stai bene,” disse sua madre quasi sottovoce.
“Ho perso l’embrione,” disse Valeria con voce rotta, senza nessuna voglia di mitigare o di continuare il discorso.
Con un sospiro, sua madre si sedette sul letto, accanto a lei.
“Potreste riprovarci, magari naturalmente…”
Ecco, lo stava dicendo un’altra volta, non riusciva a darsi pace che non fossero riusciti in quello che per lei era l’unico modo: naturalmente. Era convinta che la fecondazione assistita fosse una loro fissa, sua e di Giacomo. Chissà, forse temeva di ritrovarsi con un nipote di plastica.
Ma Valeria ormai non aveva più nemmeno voglia di discuterci, di spiegare. Era come se tutte le sue energie se ne fossero andate con quell’embrione.
Era stato bello vederlo, appena due settimane prima, quando la ginecologa glielo aveva mostrato nel monitor e lei l’aveva seguito con gli occhi, mentre andava a posizionarsi nel punto giusto. Era il suo bambino e lo amava già.
“… e poi in fondo anche la vita senza figli non è male,” stava continuando sua madre. Lei, che di figli ne aveva avuti tre.
“Mamma, per favore!” la aggredì Valeria. “Tu non puoi capire.”
“Come sarebbe che non posso capire? Io so benissimo com’è avere dei figli, ti assicuro che non potresti fare la tua vita, dovresti rinunciare a tante cose, come ho fatto io per voi. Oggi la vita è diversa per una donna, siete autonome, lavorate…”
Come faceva a non capire che ce l’aveva proprio con il lavoro, quel lavoro per il quale aveva rimandato il momento di fare figli? Quell’ufficio dal quale era uscita quasi furtivamente, per un mese, per non tardare l’iniezione, sentendosi in colpa di andarsene così presto, preoccupandosi di come avrebbe fatto nel caso fosse riuscita a restare incinta.
“Non ti rendi conto,” disse Valeria, “ma le vere fortunate eravate voi, quelle della tua generazione. Avevate tutte le libertà che non hanno avuto le vostre madri, le stesse libertà che abbiamo noi, senza dover lavorare. E a trent’anni avevi già me e i miei fratelli.”
“Tu non ti rendi conto,” disse sua madre. “Proprio non capisci”.
Dora era sdraiata sul letto, guardava le ombre delle automobili che passavano fuori, nella strada, e si riflettevano sul soffitto bianco. Bianco? Non proprio ormai, era già ora di imbiancare un’altra volta. Quale altra volta? si chiese poi. Non sapeva nemmeno se ci sarebbe stata, un’altra volta. La vita si era fermata pochi giorni prima, quando il suo bambino, l’ultimo, se n’era andato e adesso le era rimasta solo questa debolezza dovuta all’emorragia che aveva seguito l’aborto. Ma forse la debolezza non era dovuta solo all’emorragia, la verità era che la voglia di vivere l’aveva abbandonata. Non voleva guarire e riprendere le faccende quotidiane, occuparsi degli altri bambini. Non sapeva se sarebbe stata ancora capace di tornare se stessa e perdersi in tutti gli impegni che avevano affollato la sua vita fino a quel momento. Le sembrava di esser capace soltanto di restare a letto e sentire le voci che venivano dalle altre stanze, come se appartenessero ad un altro mondo. Un mondo che non era più il suo, dal quale era uscita pochi giorni prima.
Ogni tanto le giungeva anche la voce allegra di sua madre, mescolata a quella dei bambini. Era lei che si occupava di loro e della casa, la sua cara, adorata mamma, sempre allegra e serena, che nella vita si era accontentata di essere soltanto una moglie e una madre.
Dora aveva sognato un futuro diverso, le era sempre piaciuto studiare, si perdeva nei libri, soprattutto in quelli di storia. Aveva immaginato di diventare una scrittrice, oppure un’archeologa… e poi? E poi invece aveva smesso di studiare, si era sposata e le era sembrato giusto così, perché era innamorata e felice. Credeva anche che avrebbe avuto tempo per tutto il resto, ma invece erano nati i bambini, uno dietro l’altro, e la sua vita era stata fagocitata da loro. A volte si guardava allo specchio e si stupiva di aver avuto una vita prima di loro, di essere stata una ragazza che girava per la strada da sola, con il passo veloce, senza una carrozzina da spingere o un bambino per mano. Dov’era finita quella ragazza?
Ma i suoi bambini erano belli e sani, le avevano riempito le giornate e il cuore, con la loro tenerezza.
Fino alla mattina in cui aveva scoperto di aspettarne un altro e con un altro figlio proprio non poteva farcela. Non avevano nemmeno i soldi per mantenere un altro figlio, perché era già difficile così. Ne avevano parlato a lungo, lei e suo marito, per molte sere, elencando tutte le possibili soluzioni, ma arrivavano sempre alla stessa, senza pronunciarla.
L’aborto era illegale, eppure molte sue amiche l’avevano fatto, anche più di una volta. Era una cosa semplice, di routine, un piccolo intervento, un grumo di sangue di cui bisognava liberarsi, anche per amore degli altri bambini, quelli che già aveva.
Il medico gliel’aveva consigliato un’amica, che si era trovata molto bene e Dora era stata da lui con suo marito. Il costo era alto, ma a loro era sembrata una garanzia di serietà. Dopotutto gli stavano chiedendo di fare una cosa illegale, una cosa che era addirittura contraria ai suoi principi morali.
E invece quel giorno, quando si era sdraiata sul lettino e l’aveva visto arrivare, aveva capito che qualcosa non andava, il medico era strano, forse aveva bevuto un bicchiere di troppo. Ma ormai era stato troppo tardi.
L’aborto era stato veloce, ma poi era seguita l’emorragia e quelle giornate di debolezza e apatia, in cui aveva temuto di morire e ora scopriva che forse non gliene importava nemmeno tanto.
Non sapeva nemmeno più cosa sarebbe stato del suo matrimonio, della sua famiglia. Voleva soltanto stare sdraiata nel suo letto e non sentire più nessuno.
Ad un tratto si accorse della piccola figura che si affacciava sulla porta. Da quanto tempo era lì la sua bambina? si chiese mentre si asciugava velocemente una lacrima, che le era rotolata lungo la guancia.
“Cosa stai facendo?” domandò, sforzandosi di sorridere.
La bambina ricambiò il sorriso e i suoi occhi radiosi si illuminarono.
“Sono un coniglietto!” disse simulando due orecchie con le mani e saltellando verso il letto.
Dora scoppiò a ridere divertita e l’abbracciò.
“Piangevi perché stavi male, mamma?”
“Un po’,” disse Dora.
“Ma adesso stai meglio?”
“Sì, tesoro, adesso che sei arrivata tu va molto meglio,” rispose e, mentre la guardava, si rese conto che era vero, a poco, la vita stava tornando a riaffiorare in lei. Perché non c’è amore più grande di quello per i figli e lei li aveva amati subito, fin dal momento in cui glieli avevano messi accanto, dopo il parto. Valeria allungò una mano e prese quella di sua madre.
Il nervosismo di poco prima, la rabbia contro di lei, stavano scemando a poco a poco. Povera mamma, pensò, non era colpa sua, non poteva capire, non poteva rendersi conto del suo dramma: aveva avuto una vita diversa, in un mondo diverso. Ma, appena Giacomo l’aveva avvisata che lei stava male, si era precipitata. Non avrebbe mai capito, ma ci sarebbe sempre stata, un sostegno a cui aggrapparsi, solido, sicuro. E non importava se diceva la frase sbagliata, se non capiva, se aveva paura di ritrovarsi con un nipote di plastica. Valeria si asciugò una lacrima. Accidenti, lei a quel bambino di plastica aveva voluto proprio bene ed era difficile pensare che non ci fosse più. Dora strinse la mano di sua figlia.
Aveva creduto che per lei la vita sarebbe stata diversa, più semplice. Valeria aveva studiato, era andata in vacanza da sola per la prima volta a diciotto anni, aveva un lavoro, tanti impegni, uno scopo fuori casa. Invece era sempre tutto maledettamente difficile. O forse erano loro che la complicavano, la vita.
Ma anche questa sarebbe passata. Presto Valeria si sarebbe alzata da quel letto e piano piano avrebbe trovato un motivo per essere felice di nuovo, per svegliarsi la mattina senza piangere. Perché un motivo c’è sempre, pensò Dora, prima o poi lo si trova.