”Alla cieca” di Nicoletta Retteghieri


 

Herbert Holzer sta cercando di capire cosa sia quel rilievo inaspettato sotto la sua scarpa. Lo tasta con la suola più e più volte, sicuro che quel marciapiede sia sempre stato perfettamente piano e liscio, in quel punto. Cosa può essere quella protuberanza granitica che non sembra volersi scollare dal selciato?
Accanto a lui Hildegard, la femmina di pitbull che scandisce i ritmi delle sue giornate, fiuta rumorosamente il terreno con il tartufo umido e rosa.
“Hild, cosa c’è in terra? Cosa stai fiutando?”
Ma il cane non gli è di nessun aiuto, perso com’è nelle considerazioni personali sulle tracce olfattive che il suolo sprigiona.
Holzer, ritenendo di essersi fermato anche troppo su quell’inaspettato cambiamento della sua rotta quotidiana, riporta Hildegard al suo principale compito, ovvero quello di guidarlo verso la sua destinazione.
Il maggiore Holzer, pluridecorato eroe della Nationale Volksarmee della DDR, ricorda il tempo in cui la sua vista raggiungeva gli undici decimi e lo aveva sicuramente favorito nella propria carriera militare. Peccato che si fosse trovato troppo vicino alla squadra di artificieri e che si fosse pure dovuto considerare fortunato, dal momento che l’esplosione gli aveva soltanto spappolato gli occhi, mentre aveva smembrato altri cinque militari.
Era il 16 giugno del 1964 quando successe, e lui aveva solo trentasette anni.
Dodici anni dopo, passati a considerare in silenzio che fossero stati più fortunati i commilitoni saltati in aria, prova una certa umiliazione a perdere il suo tempo per capire cosa abbia sotto al piede; umiliazione che aumenta pensando che il resto del tempo, tolto il periodo del sonno, non gli restituisce grandi emozioni.
Non è mai stato un personaggio particolarmente espansivo e conviviale, sopportando a fatica la quasi totalità delle persone, vanamente impegnate a dargli degli stimoli. Lui glissa, tenendo tutti i rovelli nella sua interiorità e cercando, senza essere scortese, di allontanare tutte le premure nei suoi confronti.
L’unico suggerimento che ha accettato, non senza un’iniziale, istintiva diffidenza, è stato quello di prendere un cane guida.
Anche in questo caso, però, non ha mancato di scontrarsi con chi gli consigliava di prendere un pastore tedesco, o un golden retriever, o un collie, e non quella giovane femmina di pitbull su cui si era intestardito.
Ma il generale Wollraum, uno dei pochissimi uomini di cui avesse stima e con cui coltivasse una sorta di amicizia, era morto, e aveva lasciato Hildegard spalmata ai piedi di una poltrona vuota, atterrita e vibrante di un continuo e sommesso guaito.
Appena lo venne a sapere considerò che il caso gli stesse offrendo la giusta opportunità e scalpitò per ottenere l’affidamento del cane, che fu addestrato per circa cinque mesi con discreti risultati, anche se gli addetti al settore continuavano a pensare che non fosse l’animale adatto per quel compito, e soprattutto perché Herbert Holzer vive solo.
La sua abitazione è costituita da una piccola casa isolata a Berlino Est, nel quartiere di Treptow. Molti lo considerano un privilegiato, essendo la stragrande maggioranza della popolazione costretta a vivere in ottuse e spigolose scatolette chiamate appartamenti, inseriti con monotonia in file grigie di blocchi di cemento con qualche inserto in ferro.
Il maggiore Holzer, in virtù della sua encomiabile carriera, ha ottenuto di poter abitare in quella casa che, per un periodo di quattro anni, ha anche condiviso con una moglie, dalla quale si è separato non molto prima del grave infortunio.
Non che lei si sia mai fatta viva per sapere come stia, anche se lui è convinto che sia venuta a conoscenza del fatto. Ciò ha maggiormente contribuito alla sua volontà di isolamento; d’altra parte sente di avere ormai acquisito una certa indipendenza a dispetto della sua invalidità.
Le persone che lo incontrano per strada, vestito sempre in uniforme e occhiali scuri sul viso, provano un senso di disagio, dovuto sia al suo aspetto severo e scostante, sia alla compagnia di quel cane poco rassicurante.
Dimenticato oramai l’episodio del marciapiede, unica nota di varietà in una delle sue giornate tutte uguali, Holzer arriva a casa. Chiusa la porta, toglie la giacca per appenderla sul solito attaccapanni fissato al muro, costituito da quattro ganci.
La sua mano tocca un altro capo d’abbigliamento appeso, forse una giacca.
Holzer si irrigidisce.
Non ricorda di avere appeso nient’altro all’attaccapanni.
Tasta il tessuto, che sembra panno.
“Hild! Vieni qua!” intima al cane che però, come di consueto, si è diretto alla propria ciotola, dove rastrella gli eventuali avanzi del pasto precedente.
Herbert Holzer la sente lappare e masticare e la richiama con più forza, restando immobile vicino all’appendiabiti.
“Hild! Ti ho detto di venire qui! Subito!”
Ma non ottiene risposta e non solo: non sente più alcun rumore prodotto dal cane.
La sua esperienza militare gli fa capire in un attimo che qualcuno si è introdotto in casa sua e ha avvelenato o anche solo addormentato l’animale. Non può avere dubbi su quello; la giacca in più potrebbe anche essere una delle sue, e lui potrebbe anche avere una sorta di black-out non ricordandosi di averla appesa al gancio, ma Hildegard che non risponde a un comando e che è rimasta assolutamente silenziosa dopo avere ingerito qualcosa dalla ciotola, non può essere casuale.
Il maggiore Holzer tiene ancora una pistola Makarov nel cassetto del comodino e un Kalashnikov sul fondo dell’armadio, che conserva più per nostalgia che per utilità, a meno che non abbia un senso mettersi a sparare a vanvera.
Esclude quindi qualsiasi tentativo di raggiungere le armi, anche perché è oggettivamente alla mercé dell’intruso, che potrebbe fargli del male sia usandole, che in altro modo.
Chiedendosi dove possa trovarsi lo sconosciuto si stupisce, tuttavia, del fatto che non avverta alcun rumore o odore particolari. Può trattarsi di qualcuno che è entrato e già uscito da casa sua prima che lui arrivasse?
“Chi c’è?” si decide a dire, ma non ottiene risposta.
Pensa allora di fare un giro della casa, nella speranza di acquisire qualche informazione su cosa stia succedendo. Il suo primo pensiero è il telefono, anche se dubita che sia ancora funzionante. Procede a sinistra verso il divano, sul cui fianco sta un tavolino con sopra l’apparecchio. Lo raggiunge e alza la cornetta. Come si aspettava, è isolato.
Cerca di razionalizzare il tutto: fino a quel momento, nonostante alcune stranezze, non c’è una prova certa che qualcuno gli stia tendendo una trappola. Non perde tempo a interrogarsi sul movente; il suo passato, come quello di qualunque ufficiale della NVA, è zeppo di scheletri nell’armadio, anche se non tutti per colpa sua, ma a causa di ordini superiori. Probabilmente c’è pieno di soggetti interessati a vendicarsi, ma lui ha sempre pensato che la sua infermità li abbia sufficientemente appagati come se fosse una giusta punizione. In quel momento, però, pensa di essere stato troppo superficiale. La sete di vendetta può non avere limiti.
Ma se non si tratta di un movente del genere, cos’altro potrebbe essere?
Non propende per l’ipotesi del furto; nonostante possa permettersi una vita più che decorosa, non ha in casa particolari ricchezze, a meno che il ladro non sia interessato alle armi.
Ma perché lasciare una giacca appesa all’attaccapanni?
Si dirige verso la cucina per cercare di capire che fine abbia fatto Hildegard.
Varca la soglia con circospezione, trovando subito il piano in formica della credenza. Le sue mani toccano qualcosa di metallico.
Un cucchiaio.
Eppure non ricorda affatto di avere lasciato un cucchiaio sulla credenza anche se, effettivamente, la sera prima ha cenato a base di zuppa di fagioli rossi e quindi lo ha usato.
E un cucchiaio non è un’arma, ma Holzer lo afferra ugualmente, pensando anche che, se qualcuno lo sta osservando, giudichi ridicolo un cieco che tenta di difendersi con un cucchiaio in mano.
Continua ad esplorare la credenza senza trovare altre stranezze e si sposta quel tanto per riuscire a toccare, col piede, la ciotola di Hildegard.
A fianco della ciotola tocca qualcosa di morbido e capisce che si tratta del cane.
Si accuccia e lo accarezza constatando, con sollievo, che respira regolarmente.
Dubita di qualsiasi ipotesi di tipo patologico e conclude che sia stata addormentata.
Ma perché addormentare un cane; non sarebbe stato più semplice ucciderlo, per toglierlo di torno?
Pur essendo un militare, Herbert Holzer capisce che sta per perdere il controllo e non può permetterselo.
Arriva al tavolo nel centro della stanza e vi trova regolarmente le sedie disposte attorno. La superficie è sgombra, priva di tovaglia, che lui non usa quasi mai.
L’inquietudine aumenta, alimentata dalla sensazione che qualcuno lo stia fissando, nonostante i sensi che gli restano al di fuori della vista, resi molto più acuti in ragione della propria invalidità, non gli trasmettano segnali di altre presenze all’infuori di se stesso e Hildegard.
Rimane ancora una stanza: il bagno.
Sempre scivolando attaccato alle pareti, lo raggiunge ed entra.
Come si aspettava, anche qui c’è qualcosa che non quadra.
Tastando la mensola dello specchio, ritrova il pettine di metallo che usa abitualmente; non ha ragione di credere che sia un altro pettine. Ma lui non lo lascia mai sulla mensola; lo ripone sempre nell’armadietto laterale.
“Chi c’è?” urla e si pente subito di avere dato alla sconosciuta presenza un chiaro segnale dei nervi che cedono.
Nessuno risponde.
Il maggiore Holzer verifica il resto del bagno, non trovandoci nulla di strano e improvvisamente gli viene un pensiero: e se le sue dita toccassero qualcuno? Vivo o morto? La cosa gli sembra sconvolgente e si augura di finire presto questa messinscena, che nella migliore delle ipotesi è solo uno scherzo di pessimo gusto.
Valuta che più o meno ha esplorato tutta la casa, come peraltro può esplorarla un cieco. No, non è vero che l’ha esplorata tutta; c’è ancora un vano da verificare: la cantina.
Non è certo un’idea meravigliosa quella di scendere in cantina, ma nella sua situazione di estrema vulnerabilità fa poca differenza.
Nel corto corridoio, striscia rasente alla parete fino a toccare lo stipite della porta.
Che è aperta.
Inutile stare a pensare che se la sia dimenticata aperta lui, ma ci spera.
Incomincia a scendere i gradini, avvertendo il tipico odore di stantio dei luoghi chiusi; niente di particolare, poiché lui non tiene generi deperibili o roba vecchissima e forse ciò che incide di più su quel microclima è la carta appartenente a documenti di vario tipo; alcuni anche scottanti. Ma se fossero quelli, che cercano, non avrebbero fatto prima a prenderseli e magari uccidere anche lui, senza tutta quella messinscena?
E poi sente un ronzio, ma non ha idea di cosa possa causarlo.
Finito di scendere la scala i suoi piedi avvertono i grandi lastroni rettangolari del pavimento e urtano qualcosa a destra.
Una sedia, piazzata lì dal misterioso visitatore.
“Prego, maggiore, si sieda.”
La voce è vagamente stridula, con un indubitabile accento slavo.
Holzer si siede senza replicare e l’altro continua.
“Sono il professor Sorokin, docente e ricercatore di psichiatria all’Università di Leningrado. Lei ha reso grandi servigi alla patria e alla causa del comunismo e gliene siamo grati. L’abbiamo individuata perché può ancora essere molto utile, mi creda.”
Herbert Holzer continua a non parlare, per niente rallegrato dall’idea di essere ancora utile, ed è preoccupato dalla presenza di uno scienziato sovietico che padroneggia bene il tedesco e che quindi porta a dedurre che collabori con la DDR da lungo tempo.
“La stiamo osservando da un pezzo per una ricerca che stiamo conducendo su – come dire? – sulle tecniche da adottare con soggetti, diciamo, poco collaborativi. Riteniamo che non sia poi così necessario ricorrere a metodi immediati e violenti. Una tecnica di lento logorio è sicuramente molto più efficace, anche se richiede un po’ di tempo in più.”
Il maggiore Holzer, oltre che preoccupato, è infastidito da quel continuo uso della prima persona plurale, anche se ci è abituato, avendo fatto parte lui stesso del fagocitante apparato statale.
Sente del tramestio; qualcuno sta scendendo le scale. E sente anche l’odore di Hildegard.
“Ora – prosegue il professore – non creda che quanto ho appena detto significhi che lei è un soggetto poco collaborativo; lei si è sempre mostrato fedele allo Stato e non ha informazioni che ci interessino. Ma la sua condizione di invalidità ci può aiutare a capire certi meccanismi del cervello quando non si vede il mondo circostante.”
Qualcuno – probabilmente la persona che ha sceso i gradini – lega strettamente Holzer alla sedia.
“Mi scusi se la leghiamo, – dice Sorokin – ma è necessario ai fini dell’esperimento.
“Abbiamo già potuto notare dei segni di ansia in lei dovuti a qualche piccolo nostro intervento sulla sua realtà quotidiana e vorremmo saperne di più su quanto questa ansia possa crescere in condizioni di pericolo. Ovviamente lei non può vedere che abbiamo installato una telecamera in questo locale, che la inquadrerà per tutto il tempo. Il suo cane, che è ancora addormentato, giace ora sul pavimento, poco lontano da lei. Ora ce ne andremo e vi lasceremo qui per un certo periodo di tempo; purtroppo non so dirle quanto. Ciò dipenderà dall’andamento dell’esperimento. Vuole chiedermi qualcosa?”
No. No che non vuole chiedergli niente e non darà a quell’individuo la soddisfazione di un’interlocuzione con lui.
Sa benissimo cosa succederà.
Hildegard si sveglierà e prima o poi – ma sicuramente più prima che poi – comincerà ad avere fame. E se per un po’ continuerà a vedere il padrone come un essere da adorare, i suoi meccanismi cerebrali saranno ottenebrati dall’angoscia di non nutrirsi e a quel punto il padrone diventerà soltanto una preda.
Gli intrusi se ne vanno e Holzer sente la porta che viene chiusa a chiave e dei rumori di mobili spostati, che sicuramente stanno ammassando in cima, per togliere qualunque eventuale possibilità di fuga.
Potrebbe coltivare la speranza che il periodo di tempo esista davvero e che a un certo punto i suoi aguzzini decidano di andare a liberarlo, ma sa che non sarà così. Perché tenere in vita un cieco ormai inutile che potrebbe rivelare certe criminali strategie di persuasione adottate dal regime? Inoltre non può nemmeno sperare che qualcuno noti la sua assenza, vista la pressoché inesistente vita sociale che conduce. E se anche fosse, ognuno si fa i fatti propri, per evitare di trovarsi la Stasi che gli viene a casa e lo preleva senza nemmeno spiegargli il perché.
Non ha mai avuto paura di morire, ma ha sempre pensato che dovesse succedere in qualche azione militare; anche da cieco, immaginava di spegnersi, un giorno, come un qualunque vecchio giunto alla fine. Oppure in ospedale, per una malattia. Oppure per un imprevisto, tipo un incendio, un crollo.
Ma non così lentamente e per giunta sbranato dalla sua adorata Hildegard, che è ancora addormentata.
Non pensa nemmeno di poter trovare una soluzione, perché anche se riuscisse a liberarsi e in qualche modo a distruggere la telecamera, loro arriverebbero subito. Ha ancora in tasca il cucchiaio; glielo hanno lasciato proprio perché sanno che è uno strumento inutile per qualunque tentativo di fuga.
E pensare che se ci vedesse una possibilità l’avrebbe, ma non con quella maledetta telecamera in funzione, che continua a ronzare stupidamente.
Fuori comincia a piovere; le previsioni avevano parlato di temporali imminenti e per un attimo Herbert Holzer ha la visione della cantina che si allaga e di lui che muore annegato. Improbabile; non è mai successo che le piogge, per quanto violente, fossero riuscite a penetrare lì, ma lui non può evitare le più cupe fantasie, chiedendosi quale sia il modo migliore di morire. Forse se Hildegard lo azzannasse direttamente alla giugulare avrebbe più probabilità di morire presto.
Il cane si muove, emette una sorta di grugnito.
Vorrebbe invitarlo ad aggredirlo, ma pensa che al momento non sia ancora affamato.
La pioggia diventa più intensa e si sentono i primi tuoni; Hildegard, nonostante non abbia paura, abbaia, inquieta.
Il maggiore Holzer si chiede se anche lei percepisca la situazione senza uscita in cui entrambi si trovano. Oltre a tutto lui è quasi più angosciato per la fine del cane, che per la sua. Non crede proprio che lo risparmieranno.
Hildegard gli si avvicina e gli lecca la mano, che è legata dietro alla spalliera della sedia.
“Buona Hild, buona.”
Se solo l’avesse istruita a mordere e lacerare le corde, potrebbe quasi provare, anche solo per il gusto di vedere il disappunto di Sorokin e di chi sta dietro a lui. Ma Hildegard è solo un cane guida e tutt’al più interverrebbe se il padrone fosse minacciato.
Il cane gironzola per la cantina e lui sente solo il suo scalpiccio e il maltempo che, tetro e impietoso, si accanisce su quella parte di Berlino già cupa di suo.
Manca qualcosa.
Ecco: dov’è finito il ronzio della telecamera?
Holzer comincia a pensare; nessuno è rimasto in quella cantina e poi se ci fosse un’altra persona ne avrebbe avvertito la presenza, in qualche modo. Quindi nessuno ha spento la telecamera, ma allora?
La spiegazione che gli si rivela è la più logica e anche la più incoraggiante: ci dev’essere stato un black-out.
Con un black-out, difficile che la banda di Sorokin venga da lui; semplicemente aspetteranno che si risolva e che la telecamera riprenda a funzionare.
Vale la pena di tentare.
Herbert Holzer agita la sedia e Hildegard si avvicina.
“Stai lontana, Hild!”
Il cane sembra capire e si scosta, mentre il maggiore oscilla fino a cadere in terra.
La spalla non è certo in buone condizioni; se non è rotta, ha perso comunque tutta la sua funzionalità e Holzer, come può e a dispetto del dolore, si dimena per allentare le corde.
Il cane, che istintivamente percepisce la situazione di difficoltà del padrone, arriva e, dopo avergli girato intorno un paio di volte uggiolando, azzanna le corde e le tira.
Si allentano e Herbert Holzer riesce a divincolarsi e con difficoltà a rimettersi in piedi.
“Vieni, Hild.”
Si dirige, seguito dal cane, verso la parete opposta, su cui è posizionata una cassapanca voluminosa.
Con fatica, a causa della spalla dolente, riesce a spostarla e a scoprire una botola.
La apre e fa scendere il cane, poi si infila anche lui nel passaggio sottostante, richiudendola sopra di sé con un catenaccio che aveva fatto mettere apposta per i casi di emergenza.
In momenti come quelli è quasi contento di essere cieco, perché l’oscurità non gli dà certo noia e non è costretto a servirsi di una torcia, conservando entrambe le mani libere per qualunque evenienza.
Quel passaggio è il suo grande scheletro nell’armadio: in quel modo ha messo in salvo diverse decine di perseguitati politici e lui non lo ha mai usato perché non aveva più niente da perdere e perché se rimaneva lì poteva aiutare altre vittime del regime.
Intanto Hildegard è passata dietro a lui e lo segue emettendo di tanto in tanto qualche breve uggiolio.
Dopo circa venti minuti di faticoso cammino, Holzer e Hildegard arrivano ai piedi di una scaletta sulla cui sommità sta una botola.
Il maggiore picchia sul metallo a intervalli variabili, ma strutturati secondo un codice e pronuncia la parola “Wollraum”, un omaggio a colui che non solo gli ha fatto ereditare Hildegard, ma che era anche al corrente della sua intenzione di salvare vite umane e che lo ha coperto durante la costruzione del passaggio sotterraneo.
Si sente spostare qualcosa e la botola viene aperta.
Due braccia potenti aiutano Holzer a risalire; sono quelle di Friedrich Hammermann, uno dei suoi ex commilitoni che lui aveva aiutato a fuggire dalla Stasi.
“Maggiore, che gioia rivederla! Ma com’è conciato?”
“La spalla, immagino niente di grave. Per favore, dia qualcosa da mangiare al cane.”
Hammermann chiama la moglie e le dice di andare a comprare del cibo per l’animale e di chiamare un medico, dopodiché fa accomodare Herbert Holzer su una poltrona.
Ovviamente vorrebbe essere messo al corrente di tutta la storia, ma conosce bene il militare e sa che è di poche parole e che gli racconterà a tempo debito.
Gli porge un bicchier d’acqua e si limita a dirgli: “Benvenuto a Neukölln, Berlino Ovest.”


Lascia un commento