“Angelina Militiello” di Paola Varalli


Venne al mondo con un cervello di prim’ordine e una grossa voglia di fragola sulla natica sinistra.

Sua madre, durante la gravidanza, aveva desiderato avidamente un cestino di fragole di bosco, le sognava succose e profumate ma si era in febbraio e così non se ne fece un bel niente.

Dopo un paio di mesi la sfornò, spingendo e sudando e quando la levatrice glie la mise sul cuore notò quella grossa macchia rosa sulla chiappa.

“Ah, già, le fragole – pensò – meglio così! Quando sarà grande non si leverà tanto volentieri le mutande!”

Trattavasi di una donna pragmatica e sbrigativa.

La piccola Angelina Militiello, nonostante la madre e la voglia di fragola, passò una infanzia serena.

Non si curava dell’assenza di un padre e neanche dello schifo di baracca in cui viveva: tra la massicciata della ferrovia e l’inceneritore.

Giocare in una discarica con mocciosi caratteriali non sembrava crearle problemi, anzi, quel luogo era per lei sublime fonte di divertimento e di misteri da scoprire.

Intorno ai dieci anni aveva avviato un certo numero di collezioni, letto il leggibile e riciclato il riciclabile tra tutti i misteriosi oggetti che la discarica poteva offrire, ma la collezione che amava di più, la sua preferita in assoluto era quella di biglietti del treno.

Tra i mocciosi del quartiere ce n’era uno che Angelina non considerava cerebroleso come gli altri, si chiamava Geiar e non si sa se fosse solo il frutto di due genitori deficienti o se ci avesse messo del suo anche un impiegato dell’anagrafe privo di senso del pudore.

Fatto sta che Geiar, nonostante il nome da soap-opera, era un tipo con un certo carattere e con una totale devozione verso di lei, ed era fiero di considerarsi suo amico.

Inoltre va detto che Angelina era una ragazzina di imbarazzante bellezza e lui le stava, quindi, appiccicato come una patella da mane a sera.

“Dove andiamo oggi?”

Geiar, col berretto rigirato al contrario, ondeggiava le gambe dalla cima del muretto diroccato, tra rovi e luppolo, a lato della ferrovia.

“Oggi si va a Rapallo”

Rispose Angelina, sfogliando un album costituito da fogli usati tenuti insieme da scotch di carta e graffette: il suo tesoro!

“ Ecco il biglietto!”

Era un biglietto del treno per Rapallo, attaccato ad una pagina giallina, un biglietto di prima classe.

Geiar scese dal muretto e si avvicinò ammirato.

“Prima classe? Fiuuuu oggi si viaggia da signori!”

“Eh, sì questo deve averlo buttato via uno di quelli che scendono dal treno con il cappotto pulito e stirato e la valigetta del compiuter, poi sarà uscito dalla stazione, lasciandosi dietro un odore di dopobarba da ricchi… hai presente?”

Geiar annuì facendo segno con la testa, silenzioso, magari un po’ invidioso.

Angelina stava assorta, seduta su una pigna di bolognini con le gambe incrociate e trafficava alacremente nel suo bagaglio di immaginazione, l’unica vera immensa ricchezza di cui era dotata.

Fece gli occhi a fessura, poi alzò la testa, di scatto. Aveva finito, aveva una storia:

“Ce l’hai il costume?”

“Beh, no, mica sapevo che saremmo andati al mare!” Geiar la osservava, complice.

“Fa niente, lo compriamo là”

Geiar si sdraiò sull’erba beato, si tirò il berretto sugli occhi e sorrise.

“Sono pronto, dai, partiamo”.

L’unica cosa, a voler per forza aprire gli occhi, che poteva vagamente essere collegata al mare in quella landa desolata e puzzolente era uno stormo di gabbiani che si accaniva sui resti di cibo, ma i due ragazzi avevano gli occhi chiusi e quindi i versi degli uccelli marini rendevano soltanto più verosimile il loro viaggio.

Così Lei iniziò a raccontare di quanto era grande e azzurro il mare.


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