“Che bisogno c’era” di Paola Varalli


La madre di Ernesto Rivolta era una donna tutta d’un pezzo. 

Lei non “passava di lì”, ci era venuta apposta. 

La Signora Rivolta non si dimenticava mai di fare un acquisto, andando al mercato, poiché redigeva precise liste della spesa e vi si atteneva meticolosamente.

Non era tipo da abbandonarsi a fantasie come acquistare una scatola di gallette non prevista o, peggio, farsi tentare dalle proposte lussuriose della bancarella della pasta di mandorle. 

Per carità! Questo Mai. I dolci guastano i denti.

Viene quindi naturale pensare che, con tanta madre, Ernesto Rivolta venisse su un po’ disturbato.

E invece pareva proprio di no.

Pareva.

Ernesto Rivolta era sensibile e fantasioso, e, soprattutto, aveva il dono del sorriso.

– Ernesto! È quasi pronto! Vai a lavarti le mani, usa lo spazzolino ruvido e la lisciva e frega bene, altrimenti non presentarti neanche a tavola, non posso immaginare di vederti mangiare con quelle mani luride!

Ernesto sorrideva e andava a cercare il sapone. 

A volte veniva in visita sua cugina Agnese e, a tavola, gli rubava i bocconi migliori prelevandoli direttamente dal suo piatto.

Ernesto, con un sorriso scuoteva la testa e pensava: “povera piccola, mi sa che oggi ha più fame di me”.  

Non è che fosse tonto o particolarmente codardo, anzi. 

La cosa era diversa, Ernesto Rivolta era “superiore”.

In pratica non c’era proprio niente che arrivasse a scalfire il suo buonumore e la sua propensione alla tolleranza.

Questo, almeno, fino a quel giorno.

Ma per capirci bene, occorre fare un passo indietro. 

Due settimane prima, di Venerdì Santo verso le tre del pomeriggio, Ernesto Rivolta si trovava a bighellonare nei dintorni dell’officina del falegname del villaggio.

Osservava Mastro Giovanni che lavorava il legno e ne era estasiato. 

-Ti piace l’odore del faggio, Ernestino?

-Mi piace sì, ma non chiamatemi Ernestino, per favore Mastro Giovanni.

-Hai ragione, scusa, lo vedo bene che sei alto, oramai. Ma mi viene naturale, ti ho visto crescere: è un omaggio alla tua giovane età.

-Mica sono poi tanto giovane. Farò diciassette anni fra meno di un mese.

-Caspita, scusa. Ti facevo più piccolo, sei quasi un uomo, oramai.

Mastro Giovanni accennò un sorrisetto sornione, ma Ernesto Rivolta non fece caso. Era tutto preso da quella bottega delle meraviglie, ne assorbiva l’odore pungente e i suoi occhi si aggiravano osservando gli attrezzi lucenti e i banconi polverosi. 

Il lato sinistro del laboratorio era riservato al legname, alcune scansie erano fatte in modo che vi prendessero posto i pezzi di legno lungo e i pezzi più piccoli, organizzati con ordine, così che si riuscisse a trovare agevolmente ciò che serviva. In fondo alla stanza c’era la sega a nastro. 

Mastro Giovanni non aveva mai voluto acquistare una pialla a spessore, non si sa se per mancanza di fondi o per cocciuta propensione alla fatica artigianale. Per questa ragione le uniche macchine che funzionassero a corrente, lì dentro, erano, appunto, la grande sega a nastro, i trapani e la levigatrice orbitale, detta “la ballerina”. Per quanto anche quest’ultima non fosse utilizzata tanto di sovente.

 Per il resto Mastro Giovanni usava le mani e gli attrezzi convenzionali: pialla, scalpelli, sgorbie… tutto quello che gli aveva lasciato suo padre che faceva il falegname come lui e che aveva, a sua volta, imparato da suo nonno buonanima.

Nonno Alfredo, Massone e con i baffi. Figura che incuteva timore reverenziale, incorniciata in un ritratto a lato dell’ingresso.

-Te lo ricordi mio nonno, Ernesto?

– Come no? Mastro Alfredo. Mi regalava sempre le caramelle. Era un brav’uomo. Forse un po’ triste.

– Già, era per via del figlio morto in guerra, mio Zio Gianni. Io porto il suo nome. 

Nessuno dovrebbe sopravvivere ai propri figli.

– Vero, disse Ernesto, e sorrise.

Mastro Giovanni, con un colpo preciso di martello, staccò una scheggia di legno manovrando lo scalpello con grande maestria. Stava facendo uno scasso per porvi una cerniera da mobile. La cosa che lasciava ammirati era come riuscisse a tirare colpi di martello così precisi sulla testa dello scalpello guardandone solo la punta. 

Ernesto pensò ad un violinista che aveva visto in un concerto sul canale tre, anche a lui le dita si posavano sulle corde come dei martelletti senza che dovesse guardarle, e anche l’archetto andava su e giù come per magia. Lo sguardo del violinista era a volte sullo spartito e a volte perso nel vuoto, Mai sul suo strumento. Proprio come Mastro Giovanni con il martello. 

-Siete bravo, Mastro Giovanni.

Il falegname sollevò la testa, i suoi occhi chiari incontrarono gli occhi neri di Ernesto Rivolta e ci videro dentro la voglia di fare.

– Vorresti imparare?
– Io?

– Non vedo altri qua dentro.

– Davvero potrei?

– Davvero.

– Allora vengo domani.

– No, domani non puoi.

– Ci avete già ripensato? 

– Non ci ho ripensato, è che domani è la vigilia di Pasqua e non lavoro. Vieni martedì.

La Madre di Ernesto, la Signora Rivolta, Sua Rigidità, soleva spesso uscirsene con questa frase:

– Oh, ben, che bisogno c’era?

Quando era ancora vivo suo marito, il padre di Ernesto, la moglie esprimeva spesso il personale disappunto per qualsivoglia impresa avviata dal consorte, che esulasse strettamente dai doveri quotidiani: Casa-Famiglia-Lavoro-Chiesa. Queste sono le uniche cose che contano davvero.

Una volta il padre di Ernesto aveva deciso di costruirsi una barca. In fondo abitavano vicino ad un lago, una barca sarebbe stata utile, oltre che divertente, avrebbero potuto andare a pescare o a fare delle gite nelle domeniche di sole. Aveva ordinato i disegni su una rivista specializzata, ma non era riuscito a portare a termine l’opera.

A colpi di “che bisogno c’era” Sua Rigidità lo aveva fatto desistere, affogando i suoi entusiasmi definitivamente in fondo al lago. “In fondo che ce ne facciamo di una barca? Che poi, al bambino, ci viene il raffreddore.”

Quella sera di Venerdì Santo suo figlio Ernesto se ne era uscito con quella bella storia di andare a bottega dal falegname.

-Vorrei ben sapere chi ti mette in testa queste idee. Tu non sei nato per fare il falegname.

 Ernesto sorrideva serafico, come di consueto, nulla turbava il suo buonumore.

– Ci voglio andare, madre, anche a papà sarebbe piaciuto.

– A scuola, tu devi andare a scuola, hai capito? Non ho programmato di avere un figlio falegname. E poi che bisogno c’era di andare a perdere tempo da Mastro Giovanni? Magari gli hai pure dato fastidio.

– No che non gli ho dato fastidio, Madre.

– E allora cosa ci sei andato a fare?

– Niente, volevo vedere.

– Vedere cosa? Là dentro è tutto sporco e polveroso. Poi torni a casa e puzzi di legno. Non se ne parla proprio, ci parlo Io con mastro Giovanni e ti faccio passare la voglia.

Ecco, forse quella frase lì proprio non la doveva dire. 

Se avesse tenuto di più alla sua salute, non l’avrebbe detta.

Sua Rigidità diede le spalle al figlio per prendere una casseruola che aveva  sul fuoco. 

Il primo colpo d’attizzatoio la raggiunse da dietro, tentò di voltarsi, lo sguardo atterrito e poi due, tre, tanti colpi da non riuscire a contarli. 

Nemmeno una goccia di sangue, forse in quella testa non ce n’era. 

Poi cadde al suolo inerme, senza più alcuna velleità, senza più nuocere ad alcuno. 

Finito.

Ernesto mise la madre nella carriola e prese il sentiero deserto, nascosto dai carpini scaraventò il macabro contenuto nel lago profondo, dopo averlo zavorrato per bene. Stette a guardare che il cadavere non riaffiorasse e se ne tornò fischiettando verso casa

Ernesto Rivolta guardò distrattamente un corvo che si posava sulla staccionata e lo guardava come se sapesse, poi andò a sedersi sulla sedia a dondolo in veranda. Si accese perfino una sigaretta. Aspettava martedì, sarebbe andato a bottega e sarebbe diventato falegname. Se la sarebbe cavata da solo.

Avrebbe detto che era partita, col treno del mattino,  andata a trovare sua sorella che stava lontano.

In fondo… che bisogno c’era di avere una madre così?

Un grande sorriso gli curvava le labbra.


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