La serratura si chiuse con difficoltà, come tutte le sere. E, come tutte le sere che qualche buon Dio mandava, si ripromise che il giorno seguente avrebbe provveduto a farla sostituire.
A parte quell’inconveniente, non era male tornare a casa la sera.
Il lavoro lo assorbiva per tutto il giorno, lasciandogli ben poco spazio per qualcosa che non fosse mangiare al volo un panino e fare cinque chilometri sul tapis roulant nella palestra aziendale. Usciva di casa che il sole si era appena stropicciato sui tetti della città, e spesso rientrava con le ombre sui palazzi già lunghe. Ma, nel momento in cui la sua serratura traballante gemeva e le mandate arrivavano a fondo corsa, la stanchezza rimaneva fuori dalla porta e si sentiva invaso da un’ondata di pace e felicità. Tirò un sospiro di sollievo. Casa. A volte, quando le giornate di lavoro erano particolarmente intense, gli sembrava di essere uno di quei vecchi attori dei film western anni cinquanta, perduti in mezzo al deserto, che nel momento in cui trovavano un abbeveratoio ci si buttavano dentro ancor prima che a bere fosse il cavallo.
Allungò la mano sull’interruttore per illuminare il monolocale. Non amava molto i colori vivaci, tanto meno il bianco che lo irritava parecchio. Pensava facesse ospedale. Non a caso, le pareti di casa erano dipinte di un rilassante ed intenso color lilla, che non stonava per niente con il pavimento di granito scuro. Si diresse verso l’angolo cucina, e benedì nostra signora del Microonde. Il pasticcio di carne e patate che gli aveva preparato Maria, una volta scaldato, aveva tutto un altro sapore.
Un sottile ronzio.
Il cellulare, dall’ingresso, richiamava la sua attenzione vibrando ed illuminandosi. Lo osservò distrattamente, da lontano. Pensò che, chiunque fosse, avrebbe potuto aspettare. Dopo poco, nemmeno il tempo di deglutire il terzo o quarto boccone, la chiamata cessò.
Passarono trenta secondi ed altre due forchettate.
Un altro ronzio, questa volta più insistente.
Con fare annoiato e movenze quasi da moviola, si alzò, sbuffando. Prese in mano il telefono, sul display campeggiava la scritta “Chiamata anonima”. Era convinto che le chiamate anonime fossero delle fregature: chi non rendeva visibile il numero, aveva qualcosa da nascondere o in alternativa da vendere. In ogni caso, la chiamata cessò nuovamente. Guardò l’elenco delle chiamate perse. Anche quella prima era presumibilmente dello stesso, anonimo, rompicoglioni.
Osservò per qualche secondo il telefono con fare distratto; poi, lo gettò sul divano. E, quasi che si fosse creato un cortocircuito con la stoffa nera della chaise-longue, il telefono di casa si mise a squillare. Si diresse verso la scrivania, per prendere il cordless e rispondere a chi, evidentemente, lo stava cercando con insistenza. Il telefono tornò muto, ed anche in questo caso sul display campeggiava un “chiamata anonima” che iniziò ad innervosirlo. Cercò di passare in rassegna mentalmente tutti coloro che potevano averlo chiamato con così tanta tenacia. I genitori erano mancati da diversi anni, ed anche se suo padre era tipo da portarsi il cellulare nella bara, dubitò che dal fondo della tomba potesse avere campo per telefonare. Suo fratello, forse era lui. Dubitò anche di questo. Erano circa sedici anni che non si sentivano, e le scuse aveva smesso di aspettarle da un pezzo; come gli auguri di natale. L’elenco, non avendo amici né fidanzata (un tempo c’era una donna, una bellissima donna che aveva amato alla follia) si era esaurito rapidamente. Chiamò in ufficio, la centralinista lo accolse con un cordiale e metallico buonasera. Lo chiamò per cognome, avendone riconosciuto il numero.
-”Mi avete cercato?”
-”No Ingegnere, stia tranquillo è tutto a posto”
-”E’ sicura signorina?”
-”Si, glielo assicuro. In azienda non c’è nessuno tranne la sottoscritta ed il guardiano. Che, per chiamarla, si sarebbe fatto passare la linea da me”.
-”Le auguro buon lavoro”.
Click.
Il cellulare, spaparanzato sul divano come una donna sul bagnasciuga, riprese a squillare e vibrare.
Questa volta si precipitò per rispondere. Anche in questo caso, la chiamata restò anonima e senza risposta.
-”Vaffanculo”.
L’istinto di scagliarlo contro il muro era alto, ma si trattenne. Lo guardò con cipiglio prima di infilarselo in tasca, quasi che fosse una minaccia : ”alla prossima, contro il muro ti ci lancio veramente”.
Tornò a tavola, per finire la cena che ormai tendeva ad assomigliare ad un pastone per cani, tiepido ed informe.
Il telefono di casa squillò di nuovo, altre tre volte. Altrettanto fece il cellulare.
Restò a fissare il piatto vuoto, indeciso se incazzarsi e perdere definitivamente il controllo, oppure provare ad ignorare il tutto. Optò per la terza opzione, anche se era la più difficile: sbuffando, prese il telefono di casa (tre chiamate anonime) e compose il numero del fratello. Avrebbe preferito donare la propria verginità anale piuttosto che fare quella telefonata, ma l’irritazione era troppo forte. Così rompicoglioni, non poteva che essere lui. Squillò libero. Bene. Non aveva cambiato numero. Visto il tipo di persona che era, la cosa era assolutamente scontata.
-”Pronto?”
-”Mi hai cercato?”
Il telefono rimase muto per qualche secondo. Pensava che suo fratello fosse sul punto di riagganciare, o forse nemmeno aveva capito chi fosse.
-”Dimmi.”
Glaciale e secco. Tutto a posto. L’aveva riconosciuto.
-”Ripeto. Mi hai chiamato?”
-”Mi prendi per il culo?”
-”No. Volevo solo sapere se mi hai cercato”
-”No. Dovevo?”
-”Beh, in linea generale si. Sono sedici anni che dovresti.”
-”Resti convinto della tua idea quindi. Che sarei io a doverti delle scuse”
Sbuffò sonoramente, prima di rispondere.
-”Provare a spiegarti le cose è come al solito utile e costruttivo quanto sbattere il cazzo contro un cactus. Non ho intenzione di riprovarci.”
-”Bene. Felice che lo pensi.”
-“I ragazzi stanno bene?”
-“Vivono. Respirano.”
-“Salutameli.”
-“Eh, credo che eviterò se non ti dispiace. Al piccolo, poi, vorrei evitare il trauma di scoprire che ha uno zio ancora in vita. Ora ti saluto. Ho gente a cena.”
-”A presto allora”
Suo fratello chiuse la comunicazione mandandolo a quel paese. Non aveva il minimo senso dell’umorismo da giovane, figuriamoci se l’aveva acquistato nel tempo.
Solo in quel momento avvertì nuovamente il ronzio all’interno della tasca. Tirò fuori quello che ormai stava diventando il suo nemico numero uno. Altre quattro chiamate senza risposta, ed ovviamente anonime.
Si grattò con insistenza quasi compulsiva il sopracciglio. E spense il cellulare. Compose il numero di Maria, la sua governante sudamericana. Anche lei, non l’aveva minimamente cercato. Quindi, espletata anche quell’ultima formalità, si recò alla base del portatile e staccò la linea. Tirò un sospiro di sollievo. Aveva risolto il problema. Semplice ed efficace: il modo in cui affrontava la vita di tutti i giorni.
La serata scivolò via insipida ed incolore, a metà tra zapping frenetico e qualche pagina di libro, letta senza un minimo di concentrazione. Perché, lo sapeva benissimo, il problema in realtà non era minimamente risolto. Avvertiva un fastidio in fondo allo stomaco, ed era sicuro di aver digerito le spezie della sudamericana. Riaccese il cellulare e riattaccò la spina del fisso. Entrambi i telefoni ripresero a squillare alternativamente, quasi che si passassero la palla. Era uno scherzo, non poteva essere altrimenti. Non pensava di avere nemici, i suoi rapporti interpersonali escludevano da anni l’amicizia o la confidenza con qualsiasi essere umano, ma allo stesso tempo il suo lavoro di informatico si svolgeva in modo del tutto ordinario, senza scossoni. I suoi colleghi avevano rinunciato ad avere un rapporto con lui, anche se rispondeva a tutti con cortesia e disponibilità. Ne era certo, nessuno in società ce l’aveva con lui. Mentre vagliava mentalmente tutte le ipotesi, sussultò come se un cane gli avesse afferrato la caviglia. Sentì un colpo al cuore, una pugnalata, una sensazione che non provava da tempo. Nella sua testa, entrò improvvisamente un nome, un volto a cui aveva rinunciato da tempo. Hadija. Era l’ultima persona a cui pensare, ma anche l’unica, assurda, possibilità. Aveva mantenuto il numero nella memoria del cellulare: non che ce ne fosse bisogno, se lo ricordava a mente. Eppure, per quasi due anni, aveva sognato di vedere il suo nome campeggiare sullo schermo, e di dire a se’ stesso “E’ tornata”. Poi, con il tempo la speranza era sparita, ma non il dolore di quell’addio. Si era ripreso a fatica, chiudendo tutti i ricordi in un cassetto in fondo al cervello, impedendo in ogni modo che si aprisse. Di colpo, era come se quel lucchetto fosse esploso, e tutto tornava a galla con la velocità di un fulmine.
Selezionò il nome sul display, e con il cuore in gola schiacciò il tasto verde. Siamo spiacenti, il numero selezionato non è più attivo. Se erano dispiaciuti anche loro, non potevano nemmeno immaginarsi di quanto lo fosse lui.
Si gettò sul divano, con gli occhi al soffitto. Hadija.
Se inspirava profondamente, ne poteva ancora sentire il profumo dei capelli. Sulle dita affiorò quella sensazione unica, che provava nello sfiorarle la pelle: olivastra e liscia, come una camicia di seta appena stirata. Ripensò ancora al giorno in cui la vide per la prima volta, quel pomeriggio in cui i loro sguardi si incrociarono. Aspettavano entrambi l’ascensore al piano terra, lei portava un cartellino appeso alla giacca, con una graffa metallica. Sopra, il simbolo dell’università. Una studentessa, dietro a qualche stage in una delle società dell’edificio. Erano saliti assieme, mantenendosi a distanza ma senza staccarsi lo sguardo di dosso. Aveva guardato molte persone negli occhi in vita sua; mai e poi mai aveva sentito nulla di paragonabile a quello che stava provando risuonare in quello scambio di sguardi. Era come se gli occhi di fronte a lui dicessero le stesse cose, pensassero le stesse cose, avessero uguali argomenti, ideali, sogni, canzoni da cantare. Si guardarono a lungo, da lontano. Senza avvicinarsi. E fecero lo stesso il giorno dopo, fino al momento in cui quella giovane donna abbozzò un timido sorriso e gli diede la forza per andarle incontro.
-”Ciao”.
Sfoderò il sorriso migliore che aveva nell’arsenale. Contemporaneamente, si maledì per l’originalità.
-”Io non parlo bene la tua lingua. Sono appena arrivata”
-”Studentessa?”
-”Si, architettura.”
Sorrise, abbassando lo sguardo per un istante. Poi ricominciò a guardarlo.
-”Ti posso offrire il pranzo?”
-”Volentieri”.
E fu così che mangiò il migliore Mc Chicken della sua vita, e contemporaneamente conobbe Hadija. Nata e cresciuta in Iran, figlia di petrolieri: ma ciò che più contava incredibilmente, immensamente bella. Fecero l’amore per la prima volta tre sere dopo, nel suo appartamento, e gli sembrò di non averlo mai fatto prima. Le luci della città entravano nella stanza da letto, e conferivano alla penombra ed al buio un sapore romantico. Era come se la città li spiasse, volesse a tutti i costi rompere quel sigillo di passione ed intimità. Eppure, il mondo era tagliato fuori quella notte, perché nulla esisteva più se non il seno di Hadija, la bocca di Hadija, il profumo di sole e lavanda della pelle di Hadija.
Tre mesi dopo, vivevano assieme, passavano le giornate a fare l’amore ed a litigare sui nomi dei figli che avrebbero avuto. Parlavano di politica, Dio e religione (lei, araba eppure atea convinta e lui, agnostico di radici cristiane) ma anche della comune passione per i b-movie, la letteratura noir, i misteri del mondo e della natura. E lei era una spugna, avida di conoscenza, avida di sentirlo parlare e raccontare. Non aveva scordato un solo secondo tra le sue braccia. Ce n’erano stati tanti di secondi, per quasi tre anni. E domeniche passate a vedere film, spiaccicati sul divano uno contro l’altro, cene passate in silenzio a guardarsi negli occhi senza dire una parola. Perché tra loro, spesso, le parole erano un refuso ingombrante di quella conversazione che riuscivano a portare avanti lo stesso.
Affiorò anche l’ultimo secondo. L’ultimo bacio. Solo due anni prima. Alla fine di quella giornata come le altre, lui era tornato a casa la sera; e lei non c’era più. Aveva portato via tutte le sue cose. E sul tavolo della cucina, c’era un biglietto. Dimenticami. Quella sera, pianse e si disperò. Non capiva, non poteva in nessun modo trovare una logica in quella parola. E dimenticarla, tanto meno.
La cercò sul lavoro, al vecchio indirizzo. Andò anche dalla polizia. Di Hadija, nessuna sapeva più nulla.
Tornò alla realtà, il ronzio del cellulare gli ricordò che qualche rompicoglioni non si voleva rassegnare a rovinargli la serata. Si sedette con il telefono in mano, e lo portò all’orecchio con il dito indice sul tasto verde, pronto a rispondere al fuoco come un pistolero durante un duello. Vibrò nuovamente, e rispose, restando in silenzio.
Dall’altra parte, rumore di auto e strada. Sentiva ansimare, e riconobbe quel suono che aveva così tanto amato nei momenti di intimità.
-”Hadija…”
Gli parse di udire una voce in sottofondo, un bambino piangere, il suono prolungato di un clacson. Poi passi, un urlo, la portiera di un’auto che si chidueva di schianto.
La telefonata cessò.
Restò immobile, in uno stato a metà tra l’incredulità e l’ipnosi.
Hadija. Ne era assolutamente certo.
Quella sera passò il resto del tempo a passeggiare nervosamente per casa, avanti ed indietro, stringendo il cellulare nella destra ed il cordless nella sinistra. Pensava ai vecchi fumetti di Topolino, in cui Zio Paperone a furia di camminare tracciava il solco sul pavimento. Sentiva il cuore a mille, la testa che gli pulsava, il fiato corto. In attesa che lei telefonasse ancora. Perché era lei.
I telefoni rimasero muti.
Si portò pesantemente verso il letto, a notte fonda, piombandoci sopra a corpo morto. Verso le tre del mattino il sonno arrivò a fatica. Durante quelle poche ore nel mondo dei sogni la rivide, più bella che mai. Erano in mezzo ad un lago di montagna, lui portava avanti una piccola barca a leggeri colpi di remo. Lei, era seduta a prua, più bella che mai. Indossava un abito color lilla, come i muri di casa sua. Tra le mani, stringeva un ombrellino per ripararsi dal sole. E lo guardava, piena di dolcezza e sensualità.
Lui smise di remare, e disse :
-”Lo sapevo che saresti tornata amore mio”
Hadija rise, tirando lievemente la testa indietro.
-”Ma non me ne sono mai andata, tesoro.”
Lo sguardo divenne carico di malinconia, e continuò: “Ora si che me ne vado per davvero.”
Terminò la frase, cambiando ancora espressione; il suo viso si incupì, e si lasciò andare a corpo morto, di schiena, nelle acque gelide del lago.
-”Hadija”
Urlò, si gettò in avanti nel tentativo di afferrarla. Si sporse dall’imbarcazione, giusto in tempo per vederla affondare lentamente, con i lunghi capelli neri simili ad alghe fluttuanti che si irradiavano dal viso. Continuava a guardalo, e con lenti gesti della la mano lo salutava. Fino a sparire, nell’abisso blu e ghiaccio delle acque.
Sobbalzò tirandosi su dal materasso di scatto, sudato ed ansimante. Guardò l’ora. La sveglia sarebbe suonata qualche minuto dopo. Riprese fiato, e si calmò, tentando di cancellare quell’immagine nel sonno. Cercò di lavare via sudore e pensieri sotto una doccia bollente. Fece colazione, si vestì ed uscì di casa. Dopo mezz’ora, era alla sua scrivania, con in mano un caffè di plastica da macchinetta e lo sguardo perso sul panorama che si poteva godere dalla grande finestra. Fu in quel momento che lo vide.
Ma prima di capire che era un Boeing 767 che puntava verso di lui, le fiamme lo divorarono in un secondo, senza scampo.
In memoria delle vittime del 9\11