"Ci fu un tempo" di Dario Villasanta


 

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Lo spaccio era pesante come lavoro, pure che si stava a Napoli e per quanto si dicesse, ma si sapeva ovunque e in ogni ‘giro’. Sì certo, qualche soldino in più poteva arrivare in tasca, ma si campava a tirare avanti. E poi c’era il nonno a casa, nonno Antonio, che non stava più molto bene e, a dirla tutta, vista l’età e la vita che aveva fatto, Cecco temeva che potesse non essere tanto lontano il momento in cui avrebbe reso l’anima al Cielo. Cecco arrivò presto a casa, quella sera, arrivò prima del solito, senza sapere neanche lui perché. Forse perché era stufo di parlare con gente in astinenza da tranquillanti, o forse perché lui al Cielo non ci credeva.

Era poco dopo l’ora di cena, e lui aveva deciso che per oggi non avrebbe più pensato al quel carico difficile da consegnare, di persone e di storie, ed era un problema che, almeno stavolta, secondo lui la Polizia non intendeva far finta di ignorare, avrebbe dovuto almeno intervenire anche solo per ‘nota di servizio’, come fanno spesso fermando gente che non ha nulla di delinquenziale, ma intanto viene schedata, così, per fare archivio. Un domani, chissà, potrà sempre servire, e capita. Tutto ciò era seccante, certo, ma faceva parte del gioco che Cecco si era scelto, come forse lo era sempre stato. Almeno così doveva essere stando a sentire le storie del nonno, che non era poi così diverso dai comportamenti dei suoi tempi. Forse. Pensò che prima o poi glieo’avrebbe dovuto chiedere. Chissà.

“Franceschie’, si’ tu?” udì chiamare dalla cucina già odorante di fritto, vino rosso e sigarette.

“Sì nonno, sono io” rispose varcando la soglia di casa con gran voglia, quella di chi non vede l’ora di trovarsi nel suo ambiente. Era il nonno che lo aveva chiamato e, dal tono della voce roca e affannata, Cecco capiva che stasera doveva essere particolarmente stanco. Chissà come il vecchio aveva passato la giornata, se aveva ancora avuto quelle crisi respiratorie tremende, o se si era ritrovato a parlare da solo di situazioni incomprensibili, come spesso gli accadeva. L’asma, certo indurita dalle sigarette che ogni tanto clandestinamente ancora fumava, era altresì inesorabile e dura da sopportare.

“Vie’, vie’ qua. T’agg’ a dicere ‘na cosa” (“devo dirti una cosa”) raschiò di gola il nonno.

“Eccomi’ rispose sollecito Cecco, mentre appoggiava negligentemente il giubbotto sullo schienale della sedia accanto all’uscio, lo sguardo che girava veloce tra i fornelli unti, il tavolo ingombro di stoviglie usate e, solitario e macchiato di rosso stantio, il bicchiere del vino che il vecchio, in verità quasi astemio, si presentava stolido sul tavolo da cucina mentre il nonno lo riempiva di tanto in tanto, allungandolo sempre con acqua dal rubinetto del lavello. Che poi mica lo beveva, o quasi mai, e Cecco lo sapeva: il nonno se lo versava e lo lasciava lì, quasi intatto, proprio per il gusto di non farsi mancare niente, solo un vizio che non gradiva ma che ostentava. Il perché si intuiva solamente, ma tent’è: gli anziani hanno storie loro, tutte loro, che necessitano di tempo per essere comprese. E il nipote le avrebbe volute approfondire, certo, ma ‘quando aveva tempo’. Cioè, forse mai.

Era però la sua filosofia, quella del nonno: “se devo vivere da malato per morire sano, preferisco crepare subito”, usava dire quando si affrontava l’argomento salute, ma non solo. Lo stesso argomento che usava per giustificare le poche sigarette che ancora riusciva a fumare, nonostante il respiro fosse ormai un faticoso impegno, più che una naturale funzione ludica.

“Che fai nonno? Ti sei fatto i panzerotti, eh? Ne è rimasto qualcuno per me?” chiese il ragazzo entrando nella piccola cucina abitabile.

“No” rispose secco il vecchio.

Cecco provò una punta di delusione, era abituato da sempre a un nonno che gli lasciava in ogni caso qualcosa da mangiare, quando cucinava lui, anche quando c’era la nonna, e pure quando aveva ancora la mamma. Un padre non sapeva neanche cosa fosse, non l’aveva mai conosciuto, perciò non ne aveva mai sentito la mancanza. Sapeva comunque di amare la cucina casareccia del nonno, fin da quando era bambino, un nonno che gli aveva sempre tenuto da parte qualcosa da fargli assaggiare al ritorno, pure a costo di non mangiarne lui nei tempi più duri della famiglia, tempi in cui si faticava a far la spesa. Ma ormai era acqua passata, almeno per ora.

” Nonno, ma che hai stasera? ” domandò Cecco vedendolo con occhi pensosi, più assorti del solito e meno vivaci di quanto era abituato a vedere.

” Perché me lo chiedi? Quando si spaccia per sopravvivere, non si chiede mai ‘come stai’ a nessuno’ ” si schermì il vecchio, abbandonandolo con gli occhi neri, stretti come due fessure e carichi di un qualche nascosto significato. Non era la prima volta che l’anziano tratteneva ignoti e lontani ricordi, ma quella sera sembravano più urgenti, importanti. Cecco doveva capire cosa avessero di vitale, perché qualche significato dovevano pur averlo, oh sì che l’avevano. Ne era certo come lo era che quella sera avessero un’importanza speciale, come una tradizione famigliare, o anche un’eredità di un qualche tipo da lasciare a lui. Se fosse stato e quando, non avrebbe voluto perdersela quell’eredità, per niente al mondo. Così si diceva, da quando aveva nove anni.

“Mi pari strano, stasera, nonno. Dico davvero. Mi pari più ‘in orbita’ del solito, e sai cosa intendo” provocò il ragazzo. “Veramente più del solito, sai? Li hai ancora, i ‘ricordi brutti’?

I ‘ricordi brutti’ erano memorie del nonno, di quando era giovane, e di esse si sapeva solo che riguardavano fatti molto avventurosi. I dettagli però non li aveva mai voluti raccontare. non tutti almeno, non realmente. Aveva solo lasciato intuire che, in passato, era stato una specie di fuorilegge, anche se non aveva mai voluto dire di che tipo, nè perché lo fosse diventato. A Cecco comunque tanto bastava per considerarlo un uomo retto e senza paura, un esempio da seguire se lui in futuro non avesse potuto inseguire e realizzare l’integrità morale della sua vita. Era un obbiettivo che gli avevano insegnato sua mamma, finché era viva, e il nonno in tutti quegli anni. “Non dimenticare mai chi sei, da dove vieni e cos’hai nel cuore, se vuoi diventare per davvero un uomo. Non un ‘ominicchio’, ma un uomo vero, di quelli che sanno andare dritti per la loro strada e che, quando credono in qualcosa, non danno retta a nessuno”.

Parole di pietra, nel cuore di un bambino che cresce nel caos delle periferie che non conoscono regole, se non quelle mai scritte, che poi finivano per contare sempre meno quando si stava per strada. A lui lo spaccio non sempre dava abbastanza per campare, di questo se ne faceva un cruccio, e non da poco. Questione di orgoglio, da giovane quanto precoce ‘padre di famiglia’. Di suo nonno sapeva che non perdeva mai occasione di manifestare odio acceso per la Polizia e le istituzioni in genere, tutte quante e senza troppe distinzioni, per la stampa nazionale e i servizi sociali che cercavano le famiglie a casa per dare loro un presunto aiuto. Lui soleva dire, con un astio che si intuiva arrivare da lontano, che di quell’aiuto non si capiva mai l’esatta natura. Quell’astio lo si coglieva nei suoi commenti mentre guardava la TV, spesso a bassa voce come borbottando tra sé e sé, o quando leggeva i giornali al bar (era contrario per partito preso a comprane) che poi gettava in fretta con disprezzo, sbottando puntualmente in un indignato ‘ci stanno fottendo a tutti, e neanche ce ne accorgiamo ‘.

In quel momento comunque, alla domanda di Cecco, il nonno lo guardò per un attimo ma poi, distogliendo l’occhiata sconsolata, sospirò.

“Sì, figliolo” si risolse a dire. “Sì, sono ancora i ricordi. Bussano alla porta e stasera fanno tanto rumore, fanno un gran baccano nel cuore” bisbigliò chinando di nuovo lo sguardo, dopo avergli lanciato un’altra occhiata rassegnata, come di compassione. Cecco avvertì un retrogusto nascosto in quell’atteggiamento così insolito, o almeno una nota più angosciata. Cos’aveva nel cuore, suo nonno, che quella sera faticava a tenere dentro? Potevano essere solo ricordi da sfogare, per non soccombervi nelle notti insonni, o qualche verità ignota a Cecco, ma fondamentale per il nonno? Gli sembrava che il suo fosse uno sguardo più amaro del solito, o a lui almeno non era mai parso così triste. Si trattava forse della piccola Patrizia e dell’indifeso Renato, di un passato di dispiaceri mai confessati, sopportati in doloroso silenzio. La vita però, il nonno glielo ripeteva sempre, va avanti lo stesso, anche se qualcuno non c’è più. Asciugarsi le lacrime, quindi, e dritti come prima. La sua, con il nonno, era sempre stata una convivenza intensa. Un guardarsi negli occhi e capirsi, fin dalla prima bisticciata con i compagni più grandi delle elementari, che lo sfottevano per lo zainetto troppo vecchio per la loro moda, o per altre futilità da bambini. E la comprensione profonda era continuata negli anni: dall’ebbrezza del primo amore, consumato su una spiaggia di maggio quando Cecco era sulla soglia dell’adolescenza ed ancora sognatore, ai pensieri condivisi mentre per forza si faceva un adulto precoce, alle decisioni sempre più pesanti da prendere per la loro ormai ridotta famiglia.

Quella sera dunque Cecco si era preoccupato molto, anche senza sapere con precisione di che cosa, però in quei minuti ebbe l’stinto di incalzare il nonno su un tema preciso, quello dei ricordi, il cui mistero che li accompagnava fin dalla sua prima infanzia lo affascinava, incuriosiva e, dentro di lui, esisteva una sicurezza cieca e innata che racchiudessero dei fondamenti vitali per un suo futuro. Il futuro che si sogna da piccoli, quello che sembra cos’ lontano quand’anche lo stai vivendo in tempo reale. Qualcuno la chiama speranza. Ora e in quell’attimo, in cui sapeva di essere purtroppo adulto e, suo malgrado, responsabile di qualcosa, non coglieva il motivo esatto di questa percezione che lo mise in allerta e lo preoccupava. Adesso e da tanto tempo però, lui era consapevole che si era dovuto addossare il ruolo di uomo di casa e la famiglia, cioè sorellina e fratellino più il nonno, dipendeva da lui. Niente madre e padre a decidere, né a prendersi responsabilità per il loro futuro, nessun organo statale a parare i colpi del disagio il nonno si era opposto con tutte le sue forze agli aiuti dei Servizi Sociali locali) ma una sorella adolescente e un fratello piccolo cui dover badare, e un anziano che in fin dei conti era la loro storia, le loro uniche radici umane, a cui voler regalare in ogni modo un finale di vita dignitoso, dato che, dopo decenni di lotte (che a Cecco erano peraltro sconosciute, ma che era certo avesse combattuto) meritavano una qualche soddisfazione di qualche tipo. Magari vedere Patrizietta diplomata e fuori dal quartiere, o forse, sapere che le sue storie non fossero semplicemente dimenticate. Sì, forse si sarebbe sentito grato di una cosa così.

“E perché non ti decidi a parlarne anche con me, di questi benedetti ricordi, una buona volta?” domandò energico il ragazzo al nonno, con un insolito sospetto nel tono che neppure lui stesso si aspettava, né realmente intendeva esprimere. Ma non poté evitarlo, e il vecchio parve avvertirlo come una schioppettata.

“Ma dovresti parlarne per bene, voglio dire” insistette Cecco. “No, perché ogni sera, da quando ti ricordo, sei sempre lì pensoso e triste a rimuginare cose, che sembra tu stia rimpiangendo, che ne so, una qualche donna della tua vita, o non so che cazzo potrai aver mai perso di tanto importante. Di certo c’è solo che di quei pensieri non c’è più niente, nonno, mi dispiace. Il tempo è passato e, che ti piaccia o meno, il tempo continua a passare per te, come per me, e pure per Patrizia e il piccolo Salvatore. In fin dei conti, me la vo’ di’ per bene, ‘sta storia che tieni ‘nta capa nella testa, nda)? No, anche perché io so’ stanco de preoccuparmi de tutti, me so’ fatto il culo tutto ‘o santo juorno e vederti con quella faccia da impiccato me fa’ sali’ ‘a cazzimma e pure ‘nu poco ‘e scuorno, se te la devo dire tutta Mi piacerebbe almeno sape’ per cosa stiamo a soffri’. Che dici, ‘o puosso sape’ che cazzo succede in casa nostra? Forse che chiedo troppo?”
Il vecchio, con fare mai neppure sospettato dai suoi ragazzi e dalla famiglia dacché esisteva, alzò un timido sguardo sul nipote, un po’ curioso e come indagatore, come se volesse forse capire cosa potesse rivelargli o meno di chissà quale cosa si sentiva depositario . Lui sapeva che non poteva, né aveva mai voluto, nascondergli tutto il profluvio di quel passato tanto diverso e complicato che ristagnava schiumoso nel suo cuore. Un ingombrante e pesantissimo bagaglio da trasmettergli, che doveva rivelargli, prima o poi. Forse aveva atteso troppo, ma certe esperienze ci si chiede sempre quando è il momento giusto di rivelarle ai figli, ai nipoti o ai qualsivoglia nostri cari, eredi per nascita o per crescita non fa poi sempre differenza, se si vuole. Un erede si può scegliere in fondo, no? In ogni caso, si teme spesso l’effetto che le verità della vita, quelle che non ti racconta né spiega nessuno perché sanno farti davvero male, o perché si vuol fingere che non esistano che sempre più spesso così fa più comodo che sia, per nonno Antonio (così si chiamava il vecchio) era stato invero un sacrificio di coscienza tacere sul suo passato, nonché su cosa aveva capito del mondo sulla strada percorsa fino al presente, quello dei suoi eredi. Cecco, Patrizietta e Salvatore, i bambini che aveva in qualche modo cresciuto sostituendo, per amore o per forza, i genitori che avevano smarrito troppo presto. Doveva adesso far chiarezza sugli anni attuali, cioè quelli in cui suo nipote, per vivere e guadagnare qualche soldo in più e dar da mangiare alla famiglia, si costringeva a spacciare farmaci: ansiolitici in genere, ma anche altri tipi di medicine – perlopiù a base di erbe – che curavano veloci e bene, ma dallo Stato erano vietate. Senza sapere né come né perché, il nonno realizzò che era arrivato il momento di dover parlare in modo chiaro e di spiegare qualcosa al nipote. Avrebbe potuto non averne più il tempo un domani,e in galera aveva imparato che ogni domani è più prezioso di qualsiasi altra cosa al mondo: troppa gente non l’aveva raggiunto, il domani. Non sapeva che effetto avrebbe avuto sul suo giovane e già sofferto discendente, ma realizzò che non poteva più tacere oltre.

“Siediti” gli impose a un tratto la sua voce ferma e baritonale, schietta come da anni non la si era più sentita uscire dal suo petto affaticato e asmatico. Fu allora come un tuono in un pomeriggio assolato d’estate per Cecco. Il ragazzo obbedì senza indugi e come incantato da quel tono inaspettato, che lo privò senza che lui potesse , o sarebbe più giusto dire volesse, opporvisi in alcun modo, abbandonando di sua sponte ogni forma di volontà e resistenza. In fondo, non aspettava, Cecco, un momento come quello da tutta la vita, anche se non sapeva di cosa si trattasse? Non era forse in attesa di un segno, di un segreto, di qualsivoglia evento che gli avesse potuto indicare dei sentieri più luminosi,, sia per la vita di lui che per i suoi due fratellini? Francesco aveva sempre conservato la fantasticheria del bambino che fu, nel suo intimo, cioè quella di poter rappresentare con coraggio un ipotetico gruppo di ‘giusti’, di guidare delle persone verso imprese e battaglie impossibili, vincerle o poter lasciare, in un modo o in un altro, un suo segno importante nel mondo. Non sapeva né aveva mai saputo con chi, né perché o contro che cosa; forse solo una crociata per sé stesso, o forse no.

Ora, lui stava solo spacciando medicine vietate invece, che erano fuorilegge da quando lui era nato, ma sapeva che spesso facevano stare meglio le persone a cui le procurava. E intanto fu lì, tra un sogno di un eroe-bambino e il fardello di un’eredità scomoda da consegnare, che il vecchio ricordò e sospirò, e parlò alfine rompendo la diga, colma di un passato che avrebbe preferito contenere, ma che non aveva più senso lasciar stagnare nei suoi ricordi. I ricordi, come le esperienze, sono inutili se non servono altro che a noi stessi, così sentiva di credere ora. Quando ne possiamo far tesoro, concluse, ci ritroviamo più spesso sorpresi in un perenne ritardo sulla vita, rispetto a quando, almeno, ne avremmo e dovremmo far tesoro. Per cui nonno Antonio, che si era fatto da tempo una ragione di questo, ebbe chiaro che fu tempo di parlare.

“Ci fu un tempo in cui le cose non erano come le conosci ora. Non è poi così lontano, ma tu non l’hai mai conosciuto per davvero se non quando ti raccontavano che mi avevano messo in prigione, e allora toccavi con mano, pur senza saperlo, la realtà di quei tempi.” Sospirò, prese fiato e coraggio e proseguì sotto lo sguardo catturato e ancora interrogativo del nipote, che non sapeva di che stava parlando il nonno, ma intravvedeva una storia che aspettava da una vita.

“Cecco, te la faccio più semplice perché tu possa comprendere. E no, non guardarmi come se fossi andato fuori ‘de capa’, che quando avrai finito di sentire ciò che ho da dirti penserai che, semmai, i matti oggi siete voi. Sai cosa facevo per vivere io, ad esempio?”

“No” sussurrò il giovane, esitante.

“Vendevo droga. A chili.”

“Droga? Ma… E’ legale usarle, come può essere che…”

“Che mi sia fatto la galera per questo? Facile: perché allora era reato.”

“E perché?”

Il vecchio sorrise amaro, e raccontò.

“Una volta” riprese poi il vecchio “e ti parlo di pochi decenni fa, la legge era diversa da ora. Ma erano tutti proclami, e basta. Avevamo visto gli abomini dei nazisti, i lager, il terrorismo rosso e nero e quello islamico, finché con l’andar del tempo anche i ‘buoni’, o chi pensavamo lo fosse, cominciarono a capire che poteva convenirgli creare loro stessi il terrorismo e la paura, incolpandone altri, così che la gente pensasse giusto e necessario concedergli ancor più potere per ‘proteggerli’ . Avevamo creduto tutti nella democrazia, anche se la pancia degli italiani ha sempre guardato ‘a destra’, diciamocelo, e nessuno, o almeno quasi, pensò ci fosse da preoccuparsi nel mettersi nelle mani dei potenti. Ci promettevano pugno duro contro lo sfruttamento, sicurezza per le strade, case e lavoro per tutti … Io però non ci credevo, e non vedendo cambiar le cose continuavo a fare quello che aveva sempre fatto per vivere e mantenere la mia famiglia: spacciavo droghe appunto, rapinavo Banche uffici postali e truffavo le Assicurazioni, e via dicendo. Anche le estorsioni erano vietate, sai?”

“Le… cosa?” balbettò stralunato Francesco.

“Le estorsioni. Oggi, è vero, le chiamiamo in altro modo: ‘Colletta di Solidarietà’ . Che, come sai, è quando il Governo riscuote i beni dei cittadini senza dar loro nulla in cambio, ma punisce chi tiene qualcosa per sé”

“Io credevo” disse il ragazzo “che fosse una misura per assicurarci sanità e scuole, per tutti…”

“Sì certo, a te l’hanno spiegato così, e lo fecero anche allora con noi” commentò amaro il nonno con una smorfia. “In realtà l’azione è la stessa: ottenere le cose degli altri sotto minaccia di ritorsione. Estorsione, appunto.”

“Ma insomma, anche il Governo, per un po’ di tempo, si è sentito in dovere di far sembrare che le cose dovessero essere sempre ‘pulite’, capisci? I media di ogni tipo, dai giornali alla TV per finire con Internet, avevano cambiato il modo di chiamare le cose. La scusa era il ‘politicamente corretto’, e noi ci credemmo, ma la sostanza era che in seguito bastò dire che una cosa era bianca – e farlo dire a tutti – perché, nonostante fosse nera, la gente decidesse che era davvero così. Non so se mi sono spiegato… D’altronde, anche chiedere il ‘pizzo’ era illegale, sai?”

“Stai scherzando, vero?” sgranò gli occhi incredulo il nipote.

“Ma no, giuro! Non si poteva mica pretendere denaro dai commercianti perché esercitassero la professione, sai? Lavorare era considerato un diritto, perciò era vietato pretendere che si pagasse per farlo. Oggi invece, come sai, è obbligatorio pagare per esercitare un ‘diritto’, come le cure mediche, l’iscrizione dei figli a scuola e il voto. Una volta, votare era gratuito, anzi era un dovere farlo. Non come oggi, che con la scusa di sostenerne le spese si obbliga il popolo a pagare perché si indicano le elezioni annuali.” Il nonno trasse una lunga boccata da una nuova sigaretta, guardandola incuriosito come a chiedersi quando l’avesse accesa.

“Quindi accadde che le torture della Polizia al G8 di genova del 2001, i voti comprati con la mafia che ammazzava pure le donne e scioglieva bambini nell’acido, la collusione dello Stato con la criminalità organizzata, che è poi quella che oggi è la nostra classe dirigente, beh erano tutti camuffati da anomalie su cui lo Stato ‘avrebbe indagato’ e ‘preso provvedimenti’, salvo poi aspettare che il popolo dimenticasse per poter passare alla schifezza successiva.”

Alzò per un attimo lo sguardo su Francesco, che era come rapito ma che ancora non metteva a fuoco il discorso. Certo, che ne sapeva lui che ad esempio, il ministro degli Interni di oggi era uno dei delinquenti di ieri? Aveva un bel tentare di spiegarglielo, era ben complicato fargli capire che i criminali e gli sfruttatori di ieri avevano raggiunto così tanto potere da poter poi rendere legali le loro manovre, diventando loro stessi i responsabili di un popolo a cui avevano fatto credere di esser l’unica soluzione per un mondo migliore. Era per questo che oggi suo nipote rischiava la galera spacciando medicine, quelle sostanze che aiutavano a uscire dalle dipendenze dalla droga, dall’alcol e dal gioco d’azzardo, vizi e catene di cui i potenti non potevano fare a meno per asservire una popolazione sempre più debole, sempre più distratta, sempre meno ancorata alla realtà, cieca e sorda. Una popolazione che non riusciva a pensare di poter stare meglio di così. Ed era inoltre per questo che Cecco e tanti altri rischiavano ogni giorno in attività che, in sé, non sarebbero state poi così dannose. Lo Stato però faceva in modo di tener basso il livello di vita della gente perché continuasse ad aver bisogno di lui, un guinzaglio corto e stretto che assicurava il dominio sulle masse ormai inerti, assopite davanti a uno schermo che trasmetteva partite di pallone truccate e spettacoli coloratissimi, infarciti di propaganda strisciante e messaggi neppur tanto subliminali.

Il nonno guardò il nipote, lo vide che era ancora lì impietrito e confuso, un’espressione interdetta gli faceva una maschera di sale. Sospirò, il nonno. Scosse leggermente il capo, crollando le spalle e arrendendosi allo schienale della vecchia sedia con uno scricchiolio.

“Ci fu un tempo, caro Francesco, in cui tutto era diverso. Ma forse no, non così tanto. Dimentica quel che ti ho detto, sono solo tristezze di un vecchio stanco. E adesso vattene, lasciami guardare la partita che quest’anno è il turno del Napoli di vincere il campionato.”


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