“Come una coppa di champagne” di Roberto Mistretta


L’umido sale dal fiume e penetra nelle ossa.
Amo le notti invernali, rendono la vita interessante e mi fanno sentire vivo come non mi accadeva da tempo. Dev’essere il contrasto col calore buono del fuoco. Ho voglia di brindare all’anno nuovo.
Una coppa di champagne per festeggiare la vita.
Non che io ne possegga una in senso stretto…Le case coi balconi fioriti e tua moglie che ti urla nelle orecchie e i figli appiccicati…oh no, quell’esistenza abitudinaria non fa per me. Vuole mettere la libertà di vivere sotto i ponti con un guscio di cartone per riparo e spostarsi dove ti pare senza obblighi né affetti?
Vita randagia la etichettano sociologi e giornalisti, vita priva di prospettive, allo sbando. I barboni riflettono il fallimento delle nostre opulente ma egoistiche società moderne, pontificano i tuttologi.
Chissà perché ci chiamano barboni. Io ogni mattina offro la mia faccia alla carezza del rasoio che affilo da me su questo pezzo di cuoio.
I sapientoni dovrebbero distinguere. Non sono un barbone, io amo la vita, ne sono intrigato. Non passa giorno che non ponderi quali forze oscure governino l’universo e da quale parte la mia natura tenda e perché è così importante che io mi trattenga qui questa sera a parlare con lei.
Voglio raccontarle una storia. Se si annoia lo dica pure, spegniamo il fuoco e buonanotte. Preferisce lasciarlo acceso? In effetti l’aria sa di neve. Ah se solo avessi una coppa di champagne…
Non la tedio? Allora le ruberò ancora un po’ di tempo, deve avere pazienza coi miei modi bruschi, non sono aduso ad avere compagnia e non parlo sovente con gli estranei, e tuttavia queste ore così gelide e questa notte magica invogliano le mie corde vocali ad articolare suoni e parole che normalmente trovano spazio silente soltanto nei miei pensieri, là dove si soffermano e fluttuano lievi.
Come onde nel placido mare di luna.
Sì, ha indovinato, sono un poeta. No, non me lo chieda, non declamo. Le mie composizioni sono sigillate nel cassetto della memoria. Posso dirle soltanto che parlano di amicizia e solidarietà. E tradimenti. Ognuno in fondo, racconta ciò che ha dentro.
Le dicevo della storia.
Da giovane conoscevo un ragazzo timido e sognatore. Si chiamava Walter e soffriva nel vedere albergare nel cuore degli altri dolori e solitudine, non riusciva ad accettare che gli uomini fossero così sperduti e tristi, ma la vita non è facile per i sognatori.
Chiara, la più carina della classe, col suo musino da cerbiatta gli chiese di aiutarla nella ricerca di botanica. Lei doveva accudire la mamma ammalata. Accompagnò la richiesta con un bacio. Innocente com’era, Walter si innamorò all’istante e con la ricerca le diede anche un’ode dolcissima composta al momento. Chiara ricambiò con una carezza e un bacio più audace, e la preghiera di portare a termine la sua composizione di latino e greco. La mamma s’era aggravata. Walter volava sulle ali del primo amore fioritogli in petto.
Si confidò con me. Io sorrisi.
La mamma di Chiara peggiorò. Walter imparò ad imitare la calligrafia di Chiara, le faceva perfino i compiti. I mesi passarono e arrivò la primavera. Chiara non si faceva vedere da giorni, la mamma doveva stare molto male. Walter pensò che la ricerca di entomologia sarebbe stata più esaustiva con allegati degli esemplari di farfalle catturati nella campagna circostante, farfalle che avrebbero allietato quei giorni bui di Chiara. Si inoltrò nel bosco armato di retina. Camminava col cuore gonfio di tenerezza, il sentiero sembrava guidarlo. D’un tratto trasalì. Da una macchia di arbusti proveniva un inquietante mugolio. Rumori soffocati, soffi rochi. Un animale ferito, forse ha bisogno di aiuto pensò Walter. Si avvicinò con cautela, scostò il cespuglio e in quell’istante il mondo gli crollò addosso con tutta la sua sozzura. Cominciò a correre. Correva e piangeva. Vomitò.
Mi ricomposi e gli andai dietro, Chiara mi seguì. Lo cercammo, a lungo, per ore. Lo trovammo all’alba. Aveva percorso un largo giro, alla fine era ritornato ai piedi del grande castagno, là dove ci aveva sorpresi nudi. Uno dentro l’altro. Si era impiccato al ramo più alto.
Per colpa mia!
Non ho mai dimenticato le sue orbite sbarrate sul nulla, la delusione scolpita sul volto bluastro e quelle lacrime che sembravano cadere senza fine. Dicono che nemmeno le farfalle volino più in quel bosco. Maledetto da Dio e dagli uomini.
Eppure dimenticai e anestetizzai i conti in sospeso con la mia coscienza.
Nessuno seppe mai il vero motivo di quel gesto estremo, nessuno tranne me e Chiara.
I genitori seppellirono Walter e si alcolizzarono nel dolore. Io presi l’abitudine di bere. Sposai Chiara. Nacque nostro figlio. Ci trasferimmo in città. L’aria satura di piombo e arsenico delle fabbriche avvelenò i polmoni del nostro bambino. Morì soffocato. Morì all’alba. Dicono che esista una giustizia divina che pianifica averi e debiti. Le liquidai come sciocche superstizioni.
Chiara pianse a lungo, io mi buttai nel lavoro e imparai a sopportare il ferro rovente che mi scavava il petto. Continuai a bere. Con Chiara non parlavamo più. Uscivo al mattino e rientravo a tarda ora. Dimenticai di avere una moglie. E quando me ne ricordai era troppo tardi. Mi disse che amava un altro, aspettava un figlio, voleva una nuova vita. Mi chiese il divorzio.
Chiara parlava e io rivedevo Walter appeso per il collo. Mi sembrò perfino di udire una lugubre risata cadere su noi due, ma avevo una vita da vivere, e ancora una volta dimenticai.
Davvero non la sto stancando? Se vuole smetto. D’accordo allora, aggiungo ancora un po’ di legna e riprendiamo. Promessa: domani festeggeremo l’anno nuovo come si conviene e le offrirò una coppa di champagne.
Lei era giovane e carina, si chiamava Marta, studentessa universitaria. Non ricordo neppure come cominciò. Odorava di muschio e spezie aromatiche. Era molto giovane, mi innamorai di lei. Mi persi nella sua freschezza. Poteva essere un nuovo inizio. Lo speravo. Ci vedevamo spesso. E furono giorni intensi, di passione e perdizione. Poi cominciarono i problemi. Dapprima il padre: un intervento al pancreas. Solo dei chirurghi altamente specializzati potevano eseguirlo in Svizzera. A pagamento. Era affranta, non sapeva a chi rivolgersi per racimolare la somma necessaria. Le offrii pieno sostegno economico.
L’intervento andò bene, lei puntuale mi chiamava ogni giorno e mi raccontava dei progressi. Il padre migliorava a vista d’occhio, le avevo ridato la vita, mi amava.
Poi si ammalò la madre, poi la sorella, e poi neppure ricordo chi altri.
Conoscevo fin troppo bene quel giochetto.
Stappai la bottiglia di champagne che avevo tenuto in serbo insieme all’anello, ne versai una coppa. La sorseggiai. Le bollicine solleticavano le narici, pizzicavano la lingua. Fu l’ultima volta che mi ubriacai. Mi condannai a ricordare, vivendo in solitudine alla deriva tra le onde della quotidiana esistenza, alla ricerca di me stesso, e quando come stanotte trovo qualcuno che mi rassomiglia ed è disposto ad ascoltarmi, brindo alla vita, per tracannarla d’un fiato. Come una coppa di champagne. Senza ripensamenti. Né rimorsi. Ad ognuno il suo calice. Con dentro quel che abbiamo costruito.
Promessa. Domani l’avrò mio ospite, stanotte mi sono sentito vivo come non mi accadeva da anni. Da troppi anni. E bisogna festeggiare.
Ecco mettiamo un ultimo ceppo sul fuoco e copriamoci meglio. La notte annuncia bufera. Si copra bene.

 

Con la punta dello stivale il poliziotto scuote energicamente il fagotto nel cartone. Una torma di ragazzini fissa la scena da lontano.
“Chi sarà?” chiede il giornalista.
“Il solito barbone”.
“Accidenti poveraccio, come è morto?”
“Come vuole che sia andato? Col vento gelido che tirava stanotte, sarà morto assiderato”.
“E quelle?”
“Due coppe ed una bottiglia di champagne. Le avrà rubate. Spesso sono anche ladri questi barboni”.
“Ma per quale motivo dopo averle riempite sino all’orlo non le ha bevute?”
“Bah, vallo a sapere. Questi sono tutti matti, il freddo lo avrà rincoglionito. Oppure, se proprio cerca una storia di Capodanno, può scrivere che stanotte ha brindato con la morte”.


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