"Di luna e d'onore" di Simone Togneri


 

La luna è come una puttana: a tutti sembra voler dire “sono solo tua”. Crederci è un cattivo affare. Qualche illuso forse c’è, giù in città. Quassù no. Quassù a lei cantano odi solo i lupi. Gli uomini la spiano solo quando è tempo della semina, di tagliare il bosco, di segnare le piaghe. O per prendere certi sentieri, di notte, senza bisogno delle fiaccole.
Dalla finestra vedo la cima della montagna. Nera contro il blu del cielo. Dai crinali il vento porta una frescura inattesa e odore di umido. Forse domani pioverà. Ma intanto arrivarci, a domani. L’eco di uno sparo lontano, oltre la linea dei faggi, mi avvisa che questa è una di quelle notti in cui nessuno dormirà.
Nel rettangolo lattiginoso che la luce della luna disegna sulle tavole dell’assito ci sono gli stivali. Accanto, appesa alla spalliera della sedia, la fondina con il revolver.
Calzo gli stivali. La cintura tintinna mentre l’allaccio e rompe il silenzio della casa. Tolgo il paletto ed esco nella notte. L’orologio da tasca fa mezzanotte. Abbandono il pianoro con riluttanza. Il vento adesso scuote le cime delle conifere, che frusciano e scricchiolano sopra la mia testa. Il sentiero sale seguendo il pendio erboso che porta alla macchia. La luce della luna penetra a fatica tra le fronde, ma basta per farmi vedere dove metto i piedi. Qui ci si abitua in fretta anche alla solitudine, figuriamoci all’oscurità.
Trovo i resti all’alba, su un pianoro erboso poco sopra il limite di resistenza degli alberi. Erba colorata di sangue, pelo e budella malamente nascosti tra le rocce. Non sono stati i lupi. Loro divorano anche le interiora e lasciano lo scheletro pulito. E non usano fucili e coltelli. Lupi, ma a due gambe, piuttosto. Di quelli che lasciano solo ciò che non torna loro utile. Dei cervi si portano via anche il palco, quando è la stagione. Dei mufloni e dei camosci le teste intere, debitamente scarnificate, finiscono con l’adornare qualche camino di pietra. Solo degli uomini, gli uomini lasciano tutto.
Al villaggio ci ho messo piede tre volte da quando sono qui. La prima al mio arrivo. La seconda per acquistare cibo e sigari. La terza per fare domande. È lì che ho cominciato a capire l’indole di questa gente, ruvida e nodosa come corteccia di carpino bianco. L’unico che mi parla è Guastaferro, un vecchio tutto nuca e baffi a manubrio che ricordano la neve sporca. Lui non è di qui, viene dalla città. Per anni ha coperto il posto che adesso occupo io e alla fine del mandato ha deciso di restare. Dice che non si può vivere quassù per quasi due decenni e tornare indietro facendo finta che non sia successo. Dice che questo posto è come il morso di una vipera: se non muori subito, non ti uccide nient’altro. Chi è venuto dopo di lui, un tal Biancalana, non ha retto neanche un anno. Sparito una notte di luna piena senza che nessuno lo abbia più visto. Era giovane, con la smania dell’intemperanza negli occhi. Guastaferro non l’ha mai avuto in simpatia. Io invece gli piaccio. Per questo mi ha detto di fare attenzione. E di vegliare in ogni notte di luna. Perché è lì che il Rigamonti e i suoi compiono i loro misfatti.
Il Rigamonti. Al villaggio non ne parla nessuno. A fare il suo nome ti guardano peggio che se bestemmiassi Dio. Guastaferro è l’unico che ne parla, ma in disparte e di malavoglia. Non è uomo da provare paura, eppure è paura quella che appanna i suoi occhi. Lui crede che c’entri qualcosa con la scomparsa del Biancalana. Io so solo che glielo chiederò di persona. E mentre lo penso, sento un senso di crescente inadeguatezza. Il Rigamonti è nato su queste montagne e si dice che non abbia mai dormito sotto un tetto diverso dal cielo. Si dice che lo abbiano allevato i lupi e che ora lo temano. Si dice che abbia il loro stesso istinto, che nelle sue vene scorra il loro stesso sangue, che si muova senza fare rumore come loro. E che, come loro, non provi alcun sentimento di umanità. Io credo che sia solo un uomo come tutti gli altri. E come un qualsiasi uomo andrà in galera se c’entra qualcosa con la scomparsa del Biancalana. Del resto sono stato mandato quassù per questo.
Credetti di averli individuati la prima notte di servizio. Erano in sei. Bivaccavano sotto la luna, sulla riva di un torrente. Li osservai a lungo e loro immobili, distesi come se dormissero. Solo i morti stanno fermi tanto a lungo. Mi feci avanti, revolver alla mano, per scoprire che erano solo fantocci fatti con salci, rami di bussolo e vecchi stracci. La luce della luna, complice del brigante, a distanza mi aveva ingannato. E il Rigamonti, che di certo mi osservava per avere un saggio del mio temperamento, forse era lì a ridere di me.
O forse provava rispetto.
Da quel momento percepisco un legame tra me e lui. Un equilibrio di istinto e regole non scritte. Come ricambiare lo sguardo di un lupo da lontano. Lui sa perché sono qui, ma non mi teme. Mi lascia in pace. A meno che non me le vada a cercare. Mi tiene d’occhio per starmi a debita distanza, perché non vuol essere costretto a prendermi sul serio. Le montagne lo proteggono con gli stessi elementi che per me potrebbero essere letali. La notte, gli animali, i dirupi improvvisi che si aprono sotto ai piedi. E l’astuzia, con cui mi schernisce facendomi apparire vivo ciò che vivo non è. Quella notte mi tenne a bada con degli sterpi e qualche straccio, mentre i suoi consumavano le loro atrocità a pochi passi dal pianoro. Due cervi, quella volta. Due maschi. La banda si era presa il tempo che serviva per pulire le carcasse. Sapevano che non mi sarei mosso, inchiodato dalla speranza di un movimento che non sarebbe avvenuto. A meno che la luna non avesse animato di stregoneria quei fantocci.

Una notte accadde ciò che non doveva accadere e l’equilibrio tra osservati e osservatori si spezzò. Quella notte, assetato, raggiunsi un torrente che scendeva a cascata tra le rocce. Il rumore assordante copriva i canti degli uccelli notturni e il suono dei miei passi. Mentre uscivo dalla boscaglia un cappello bagnato luccicò sotto la luna. Mi fermai dietro il tronco di un carpino e guardai. Qualcuno risaliva il costone a lato della cascata, fermandosi ogni tanto su cenge occasionali a riprendere fiato. Pensai che mi seguisse e mi avesse perso quando io, ingannato come al solito da un’ombra o da un animale, avevo preso a correre lungo il sentiero. Tutto lasciava credere che non mi avesse visto, ma non mi fidavo. Poteva essere che il Rigamonti stesse mettendomi alla prova anche in quel frangente. E io, quale che fosse la verità di quel momento, decisi di non deluderlo.
Mi mossi solo quando fui sul punto di perderlo di vista. Lo seguii attraverso la macchia, pensando che mi avrebbe condotto al covo del Rigamonti. Invece ci ritrovammo di nuovo alla cascata. Se buffo fu il supporre che si fosse smarrito, più grave fu la certezza di interpretare il ruolo del perdente in un gioco di cui conoscevo appena le regole. Girò ancora in tondo, attraversando ben tre volte la stessa dolina. Infine si fermò, sfinito, al calcio di un faggio secolare dalle grandi radici simili a tentacoli di piovra.
A quel punto mi decisi a fare ciò che non avrei dovuto fare mai: urlai dalla boscaglia, senza farmi vedere. Egli balzò in piedi e rimase immobile. Questi uomini sono armati, lo so bene. Hanno fucili precisi, di cui ogni tanto sento l’eco di uno sparo perdersi nelle gole. Lui non aveva il fucile, ma non potevo escludere che portasse un revolver come il mio. Per questo mi tenni al riparo tra gli alberi. Armato o no, preferì mettersi a correre. E io dietro, come potevo, non abituato alla corsa notturna sui terreni impervi. Controllavo la sua posizione e dove mettevo i piedi. Il suo cappello a tesa larga svaniva e riappariva a seconda che la luce della luna filtrasse o meno tra le piante. Credetti di perderlo, detti per scontato che fosse più veloce, più abituato di me a correre nel bosco di notte. E invece, come poco prima quando avevo ipotizzato che si fosse perso, mi stupii di nuovo quando i suoi passi si fecero pesanti, imprecisi per la fatica. I succiacapre gridavano allarmati al nostro passaggio e qualche animale si rifugiava nell’erba alta.
Sentivo l’ansimare dell’inseguito, quasi l’odore del suo sudore, del suo fiato, che si mescolava a quello della terra e delle foglie marce che calpestavamo con impeto. Lo raggiunsi alla base di un calanco, in un punto in cui la macchia si dirada. Lo afferrai per le spalle e giù, al suolo, tra sassi ed erba rigida. La lama di un pugnale rifletté per un attimo il disco della luna, prima di tintinnare tra le rocce. Lottò debolmente, forse scoraggiato dalla mia stazza, forse già provato per lo sforzo della corsa. Si arrese del tutto quando gli puntai addosso il revolver. Gli tolsi il cappello e vidi disciogliersi una cascata nera di capelli ricci. Egli era ella. Una donna. Giovane. Gli occhi erano di lupo, di notte, e mi fissavano con l’odio di una bestia che muore guardando il suo carnefice. Il sudore sulla pelle luccicava. Le labbra cercavano aria, dischiuse nell’impulso di respiri sempre meno avidi. Il petto si alzava e abbassava come per seguire un battito di vita primordiale. Le chiesi chi fosse, cosa facesse nella macchia nel cuore della notte. Le mostrai il tesserino, ma lei non lo guardò. Certo sapeva benissimo chi fossi. E anch’io sapevo chi era lei. Sentivo addosso i suoi occhi, l’odio mi arrivava a folate come quando lo scirocco d’estate sale lungo il canalone che conduce al pianoro. Era una di loro. Nel suo fremere sotto al mio peso, percepii l’animalesca presenza del Rigamonti. Allentai la presa quanto mi resi conto che avevo il potere di arrestarla, ma non il motivo. E, per verità di coscienza, nemmeno la voglia. Non aveva fatto niente e non esiste una legge che vieta di andare nei boschi la notte. Le proposi un patto: libertà in cambio di informazioni. Cercò di divincolarsi, ma la trattenni. Misi via l’arma. Ero sincero. Non mi interessava lei. Io volevo lui. Lei continuò a respirare forte, senza azzardi. Come un cavallo selvaggio che comincia ad accettare la sella sulla groppa. Allentai ancora la presa, alleggerii il peso del mio corpo su di lei. Era quasi libera da ogni vincolo. Forse non avrei dovuto fidarmi, ma l’essenza che usciva da lei era più animalesca che umana. E sembrava volermi chiedere aiuto, piuttosto che azzannarmi. Le parlai ancora e capii da come mi guardava che era come la luna: bella, pallida e silenziosa. La virtù della parola non le apparteneva.
– Se non puoi dirmi come ti chiami, lo scriverai – dissi.
Feci per alzarmi e lei mi trattenne giù, accovacciato. La luna le illuminava il viso e le labbra si erano fatte tumide, come un fiore notturno che si schiude in attesa della prima rugiada del mattino. Mi baciò, leggera. Cercai la sua lingua e non la trovai. Si ritrasse. Tuttavia non respinse le mie mani, che impazienti penetrarono al di là delle vesti. Facemmo l’amore ai piedi dell’altura brulla, con le foglie che sospiravano nel vento notturno. Selvaggio e naturale come selvaggio e naturale è l’accoppiamento dei lupi che vivono quassù. E il loro ululato, lontano chissà dove, scosse l’aria e perfino la luna. Ci addormentammo. Mi svegliai che albeggiava. Solo. Di lei era rimasta la sagoma impressa nell’erba. Le nubi avevano la forma di mille conchiglie e si addensavano sulla cresta montuosa. Significava pioggia.
Ripresi la strada verso casa. Se non avessi portato addosso l’odore di lei, un misto di acqua ed erba appena appassita, se non avessi percepito un’insolita, quasi dolorosa, sensazione di spossatezza tra le gambe e nella schiena, avrei creduto a un sogno.
Raggiunsi il pianoro che era giorno fatto. La casa vi sorge in mezzo come una pietra fuoriuscita dal terreno. Mi lasciai scivolare sul letto. Il vento fresco entrava dalla finestra aperta su un cielo grigio e senza sole. Fuori gli scampanii delle greggi e le grida dei pastori, l’abbaiare di un cane, gli strilli delle poiane. Infine, senza preavviso, la pioggia. Tra il sonno e la veglia la sentii cadere sulle tegole e raccogliersi in rivoli che si ingrossavano.
Mi svegliai che era pomeriggio. Aveva smesso di piovere. Uscii di casa e raggiunsi il ruscello in un punto dove l’acqua compie un piccolo salto e ci si può stare sotto in piedi. Mi lavai. Per pranzo mi feci bastare un pezzo di pane e qualche fetta di formaggio. Alle quattro andai al villaggio.
Il villaggio. I tetti delle case compaiono all’improvviso tra querce e carpini, in fondo al pendio. Sullo sfondo la vallata, quel giorno nebbiosa per via della pioggia. Per primo si vede il campanile della chiesa. Poi appaiono i tetti delle case. A mano a mano che si scende si notano i muri sbrecciati, le porte di legno massello e le finestre sbarrate. Ultime le persone. Poche, vestite di stracci e diffidenza. I forestieri qui non sono i benvenuti. Il Guastaferro me lo disse subito di fare attenzione. La gente di città pensa che quassù i pericoli maggiori siano i lupi, le vipere, il sasso che rotola smosso da un camoscio, o il fulmine che colpisce la pianta sotto la quale ti ripari dalla pioggia. Sbagliato. Anche qui, come in città, il pericolo più grande è l’uomo. E che uomini son questi. Paiono scolpiti nella stessa pietra che forma l’ossatura più profonda dell’appennino. Hanno facce incise dal freddo e dal sole, graffiate dagli sterpi e dall’inedia, incrostate da malattie che qui è impossibile curare. La malattia peggiore è quella dell’animo: la solitudine. Che porta a chiudersi anche in tanti, se sempre gli stessi. Ci si abitua a stare da soli, diventa quasi un benevolo tormento. Per questo i nuovi arrivati sono malaccetti. Soprattutto se portano una divisa come la mia.
Al villaggio entrai nell’osteria dell’Alma. Da dietro il banco, intenta ad asciugare i bicchieri, le bastò uno sguardo per farmi capire che la mia presenza non era gradita. La donnona non si addolcì nemmeno quando le chiesi del vino. Lo versò con rabbia e allo stesso modo prese la moneta che le dovevo.
Domandai di Guastaferro. Lei indicò un tavolo vicino al camino. Sotto un’enorme teschio di muflone che adornava la cappa, l’uomo che cercavo dormiva con la testa reclinata sulla spalliera della sedia. Lo svegliai. Era quasi ubriaco. Lo trascinai fuori, che dentro anche i tavoli e le pareti avevano orecchie per ascoltare e bocche per ridire. Prendemmo su verso il bosco. Non mi voltai, ma so che l’Alma ci guardava dalla soglia dell’osteria. Camminammo lungo un sentiero costeggiato da ginestre e piccole acacie. Sedemmo su un poggio, nell’erba ancora umida e lì gli descrissi la misteriosa donna muta che avevo incontrato. I suoi occhi si accesero con un guizzo d’interesse. – Allora, è ancora viva. E sta con loro. Nonostante tutto è ancora bellissima, immagino.
– Chi è? – chiesi.
– La figliola dell’Alma. Elena.
Gli confessai che non capivo e lui rise.
– Non puoi capire, non conosci niente di questo posto. Per capire devi sapere che un tempo, quando sono arrivato qui io, bracconieri e villici andavano d’accordo. Non si può dire che si amassero, questo no, però vivevano in pace. Quelli del Rigamonti scendevano in paese a barattare carne e pelli di lupo con latte, formaggio, sale, caffè e tutto quello che serviva loro. I paesani li lasciavano fare, perché in fondo questo scambio era un vantaggio per tutti. Meno cervi e cinghiali in giro a razziare orti e castagneti, meno lupi a sbranare capre e pecore, più carne e trofei da rivendere ai viaggiatori che passavano giù sulla Strada. L’equilibrio era un filo teso tra le fasi lunari e il rispetto. Un ecosistema quasi perfetto. Fino a pochi anni fa.
– Che cosa è successo qui?
– Quando sono arrivato io, Elena era solo una bambina di pochi anni – disse il Guastaferro. – Poi la bambina si fece donna, una donna bella e ribelle come qui non se ne erano mai viste. La bellezza, come sai, suscita invidia e desiderio. Fa rabbia, se non puoi appropriartene. Un giorno io e il Santamaria, che ormai è morto, eravamo in cerca di funghi su verso la sorgente più alta. Sai dove si trova, la conosci. Trovammo Elena tra le rocce vicino alla sorgente. Era semi nuda, coperta di sangue. La soccorremmo, la portammo alla locanda. Alma capì subito che sua figlia era stata violata. Quella povera ragazza. È stata a lungo sul punto di morire. Poi, quando ha cominciato a riprendersi, una notte d’estate è sparita.
– Sparita?
– Sì. Scomparsa nel nulla. L’abbiamo cercata ovunque, senza trovarla. Alla fine ci siamo rassegnati alla convinzione che fosse morta.
– E non ha mai raccontato niente dell’accaduto?
– Elena non sapeva leggere, né scrivere. Sono in pochi che sanno farlo, qui. Quel bastardo lo sapeva e perché non potesse parlare le aveva mozzato la lingua. Ma io so chi è stato, lo so perché quando io e Santamaria trovammo Elena in quelle condizioni, lo vidi. Sul crinale. Stava in piedi in mezzo ai faggi, nero come un pipistrello enorme. Fu un attimo. Chiamai Santamaria per farlo guardare, ma non c’era più niente da vedere. Sparito. – Guastaferro aprì entrambe le mani in aria, un gesto che mi ricordò lo sbocciare di due enormi fiori dai petali callosi. – Come il vento.
– Rigamonti?
Il Guastaferro annuì. – I villici lo hanno cercato, hanno rastrellato ogni roccia, ogni anfratto, ogni tana di queste maledette montagne, senza mai stanarlo. Tra briganti e villici si è creata una frattura. Adesso l’unica merce di scambio è l’odio reciproco. Sono morti in tanti, sia dall’una che dall’altra parte. Tanto è il sangue versato. Poi, con il seppellire ciascuno i propri morti, il dolore ha prevalso ed è finita sottoterra anche la voglia di vendetta. Ma non l’odio. Quello sopravvive anche dopo la morte. Resta nell’aria. – Biancalana disegnò un cerchio con l’indice. – Lo hai sentito anche tu.
Io mi sentii avvampare. – Tu rappresentavi la legge, qui. Perché non hai denunciato il fatto alle autorità? Era tuo dovere fare qualcosa.
– Qui vivono in un equilibrio delicato – disse il Guastaferro. – Non ci sono né giudici né tribunali. La giustizia per loro è un concetto relativo, ormai dovresti averlo capito. Un concetto che non va al di là delle cime di questi monti. Come i segreti. Io non ho mai raccontato a nessuno questa storia. E ti confesso  che non vorrei conoscerla nemmeno io. È una storia triste, dolorosa, fatta di luna e d’onore.
– E perché adesso lo dici a me?
– Perché il sangue prima o poi reclama se stesso. E perché la tua mano non trema come trema la mia.

E ora, chino a esaminare questi resti, penso a Elena. Penso che questa è l’ultima notte di luna piena, che dalla prossima si consumerà fino a sembrare il filo sottile di un artiglio e poi più niente. E così mi sento io, consumato dal desiderio. Di lei. Di averla di nuovo. Di uccidere o morire per lei. Stanotte non ci sono alternative. Mi arrampico lungo il crinale. La luna sparisce tra le foglie dei faggi, si nasconde dietro i tronchi e appare di nuovo, più grossa, più luminosa. Come se stessi salendo invisibili gradini nel cielo. Mi prende in giro anche lei. Come il Rigamonti. L’odore della terra bagnata mi riempie le narici. Le foglie sfiorano la divisa, i rovi e gli sterpi mi graffiano la faccia e restano impigliati nei capelli. Lascio che a guidarmi sia l’istinto. Non so cosa mi faccia credere che proprio io e proprio questa notte troverò il Rigamonti. Sento solo che è la notte giusta per non tornare indietro.
Raggiungo il crinale, dove i faggi si fanno più radi fino a scomparire del tutto. Qui crescono solo arbusti di ginepro e mirtillo. Il biancore lattiginoso con cui la luna getta il suo sguardo sulla vallata è solcato dalle gole dei torrenti, che paiono arterie di sangue nero. Mi scuote l’ululare di un lupo. Vicino. E subito dopo si alza un vento leggero, ma gelido. Non ho mai avuto paura in queste lunghe notti di ricerca. Timore e rispetto sì, ma non paura. Eppure adesso ce l’ho.
La vedo sul crinale, poche decine di metri sopra di me. In piedi sulla collina spoglia. La luna la illumina. Nessun cappello, nessun abito mascolino a mascherarne le fattezze di donna. Il vento le agita i capelli corvini e il suo vestito leggero, quasi trasparente. Vorrei parlarle, ma sono bloccato. Allora è lei a scendere verso di me. Ha qualcosa tra le mani. Solo quando è vicina capisco che è un coltello. L’istinto mi fa avvicinare la mano al revolver. Elena ora regge il pugnale per la lama, me lo porge. Lo prendo. C’è il suo calore sopra, che si fonde con il mio. Non capisco il senso di quel gesto, ma esito a chiedere spiegazioni. Percepisco la fragilità dell’attimo. Elena si volta in direzione del villaggio. Chiude gli occhi e corruga la fronte. È dolore. Punta il dito, che trema. Lo punta in direzione del villaggio. Nell’aria ombrosa, ancora gonfia degli odori rinvigoriti dalla pioggia, percepisco un aroma aspro, metallico: sangue. E allora so. La luna parla per lei. È una luna rossa, adesso, rossa come il colore della carne, della rabbia e della vendetta. Rossa come la violenza, come la fiducia tradita. Apro gli occhi. La guardo e mi sorride per la prima volta. Sa che ora conosco la verità. Sa che ora vedo. È di notte, nel buio, che a volte si riesce a distinguere la verità dalla menzogna.

L’alba è ancora un miraggio quando sono in vista del pianoro. Non sono mai sceso al paese dopo il tramonto. Mi sono sempre sentito più al sicuro in un bosco di notte, che in un paese come questo di giorno. Non mi ha visto nessuno. E sì che questa è gente che dorme con un occhio aperto. Si dice che perfino i morti qui ne chiudano solo uno. Nei vicoli stretti nemmeno la luna ha il coraggio di ficcare il naso, ma la casa di Guastaferro l’ho trovata anche senza bisogno di luce. È facile perché è l’ultima del paese. L’ingresso è aperto. Come un invito. Lui è dentro, al buio, accasciato ubriaco sul tavolo. Lo chiamo, alza la testa e strizza gli occhi senza capire chi io sia.
– Come è morto il vecchio Santamaria? – gli chiedo mostrandogli l’arma che stringo nel pugno.
Guastaferro allora sorride. Adesso ha capito chi sono, mi ha riconosciuto. Con l’indice che trema indica la lama. – Un coltello come questo, forse proprio questo, gli tagliò la lingua nel cuore della notte.
– Chi?
– Un uomo come te.
– Il Biancalana – azzardo.
Guastaferro annuisce.
– Per questo lo avete ucciso?
– Noi non abbiamo ucciso nessuno – dice il Guastaferro. Ora sembra solo un povero, vecchio ubriacone in cerca di qualcuno che gli offra l’ultimo bicchiere. – Quel ragazzo è sparito subito dopo. Abbiamo trovato la sua divisa sulla soglia di casa sua, quella dove adesso vivi tu. Io penso che lui si sia unito a loro, divorato come sei divorato tu d’amore per la bella Elena.
– Tu non sai niente di me, vecchio – dico.
– Lei ti ha mandato a uccidermi e tu adesso sei qui a eseguire il suo ordine. Ne so abbastanza. – Guastaferro ora non mi guarda. Il suo sguardo è rivolto alla finestra, alla ricerca di una luna che non vedrà più. – Adesso fai quello che devi fare. Il mio sangue finirà di lavare via la vergogna per il crimine orrendo di cui ci siamo macchiati.

Ansimo forte, intanto che risalgo il pendio. I passi sono pesanti e schiacciano sterpi, piccoli ciottoli e forse anche qualche insetto. Ancora non ci credo che l’ho fatto davvero. Non mi ero mai macchiato di una colpa così grande. Una colpa che insozza in modo indelebile la divisa che indosso. Sulla porta di casa mia c’è Elena. In piedi. Il suo vestito danza sotto la luna. Guarda il pugnale, sporco del sangue di Guastaferro. Lo stringo ancora tra le dita. Sono chiuse, serrate attorno all’impugnatura. Lo lascio cadere nell’erba. Alla luce della luna il sangue sembra arricciolarsi verso il bordo della lama. Sbatto gli occhi: è solo un’illusione. Ho ancora qualcosa per lei. Tiro fuori dalla tasca il fazzoletto. È intriso di sangue. Lo apro. Dentro c’è una massa spugnosa simile a un grosso lampone troppo maturo. Dalla bocca di quell’uomo non usciranno più bugie. Elena sorride. Mi bacia anche se ho la bocca impastata e so di sudore. Mi guarda negli occhi e mi accarezza. Ha le mani calde, ma io sento freddo fin dentro le ossa.
Il cielo si rischiara appena, oltre le montagne, e fa appena un po’ di luce su una serie di figure cenciose che escono dal bosco. Hanno grandi cappelli neri e portano la barba come si porterebbe una medaglia. Si dispongono in cerchio attorno a noi e sembrano testimoni nuziali di un matrimonio segreto. Cerco inutilmente di capire chi di loro sia il Biancalana, ma capisco che adesso non è importante. Si fa avanti un uomo sottile e ritorto come certi arbusti di stipa che crescono tra le rocce. Di quelli che sembrano facili da spezzare e invece dentro hanno mille piccole fibre legnose che resistono a qualsiasi tentativo di abbattimento. Ha il volto sfregiato, solcato da segni che non so decifrare. I lineamenti sono quelli di un lupo vecchio e stanco, forse ferito, ma mai domo. Come lo sguardo, che tiene fisso su di me. Non ho più dubbi. È lui. Il Rigamonti. Elena gli va vicino, lui allarga un braccio e l’accoglie. Un gesto di amore puro. Quello di un padre per la figlia. Nei loro occhi c’è lo stesso orgoglio.
Sono sul punto di dire qualcosa, ma Elena mi fa cenno di tacere. Mi porge delle vesti ripiegate. E un cappello come quello che indossava la prima volta che l’ho incontrata. Vuole che mi cambi. Obbedisco. Prende la mia mano, mi trascina. Annuisco, stordito. Mi volto un’ultima volta indietro. La divisa giace sulla soglia di quella che è stata la mia dimora. Ripiegata su se stessa come la muta di una vipera.
La luna sta scomparendo dietro la vetta più alta. Senza salutare. Le puttane non salutano. E comunque non importa: questa non è l’ultima volta che ci vediamo.
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