“Due righe” di Cinthya Collu


Caro fratello, permetti due righe? Solo per dirti una cosa che da tempo mi sta sullo stomaco. Non te ne ho mai parlato prima ma oggi, chissà come, mi sono alzata col piede giusto – o sbagliato, giudicherai tu – e ho voglia di sfogarmi. Non pensare a niente di grave, è che alla mia età si cominciano a tirare bilanci, e quello che sto facendo ora non mi entusiasma affatto.  

Ricordi quel giorno che ti chiesi di farmi conoscere Guillermo? Era da quasi un mese che la richiesta era nell’aria. Io non avevo il coraggio di esprimerne neppure la pallida ipotesi, tu semplicemente la ignoravi. 

Quel giorno – anzi, quella notte, la ricordo bene – eravamo tutti e quattro fuori della baracca, scusa, della casa, a guardare le stelle. Che cielo limpido dopo tre giorni filati di pioggia tropicale! Ricordo che non ce l’avevamo soltanto sopra la testa, il cielo, ma anche dietro, sui fianchi, a trecentosessanta gradi, così vicino che bastava allungare una mano per cogliere una stella (scusa l’immagine banale ma lo scrittore di famiglia sei tu). Be’, eravamo tutti e quattro fuori della porta ad annusare l’odore della terra bagnata e delle banane mature quando ti dissi, Dopodomani parto, e tu di rimando, Lo so bene.

Non ci rimane molto tempo, aggiunsi io, anzi, aggiungo io, – se permetti passo al tempo presente, i passati remoti mi sono sempre stati sulle palle, sono così… definitivi! Be’, non tergiversiamo.

Tu fai la faccia da scemo e mi chiedi, Tempo per cosa?, e allora cominciano a girarmi davvero. In fin dei conti avevo attraversato mezzo emisfero per venirti a trovare, venticinque ore d’aereo e di strizza ogni volta che atterrava e decollava, venticinque ore di ansiolitici e di respirazione yoga, metti aria nella pancia gonfia pancia poi gonfia petto e poi gonfia gola, e poi di nuovo, pancia petto gola, chiedi a Claudio se non mi credi! Un viaggio del genere non mi sarebbe più capitato. E sicuramente neanche un’occasione simile, un’esperienza ambita da tanti occidentali.

In Italia si sbranavano per portarli in televisione, ci facevano sopra i talk-show, sarà tutto vero? dove sarà il trucco?e tu che ne conoscevi uno, che ci lavoravi assieme da due anni, su e giù per le montagne a curare le tribù locali, non me lo volevi presentare?

Te lo dissi, rossa in viso per lo sforzo di non incazzarmi, sapevo che eri un osso duro ma non volevo mollare. Da quasi un mese aspettavamo entrambi il momento dello scontro.

Ce l’avevi con i guaritori per qualche questione religiosa. Loro si rivolgevano agli spiriti guida prima di “operare” e tu dicevi che questo era male, era peccato grave, per qualsiasi richiesta bisognava rivolgersi solo e direttamente a Dio. Niente intermediari, insomma.

Da quando ti eri convertito all’evangelismo eri diventato un gran rompiballe, lasciatelo dire. Facevi discorsi strani, dicevi che i morti stanno nel cielo a vari livelli, chi più in alto chi più in basso, a seconda della gravità dei peccati. Dicevi che potevi dirmi con esattezza a quale piano – scusa, livello – sta nostra sorella, gran peccatrice in quanto partigiana sfrenata del libero amore, e di conseguenza morta di Aids. Non che mi desse fastidio sapere che Giusi, da qualche parte, mi stava sospesa sulla testa. Ma il resto sì ch’era una rottura.

Le birre, per esempio. Quando siamo arrivati da te –  dopo aver vomitato lungo le curve che l’autista affrontava più disinvolto di Schumacker – esausti, distrutti, piangenti, (prova tu a stare due notti senza chiudere occhio) e Claudio ti ha chiesto una birra, tu che gli hai risposto, eh, che gli hai risposto? Che la tentazione del Demonio in casa tua non ci doveva entrare! Così il povero Claudio si è fatto a piedi due chilometri nella giungla, sino a Baguio City, per andarsi a comprare una cassa di birre. E quando le ha portate a casa, tu che hai fatto, eh, che hai fatto? Le hai guardate torvo e poi te ne sei scolate due.

Gran rompipalle eri diventato, ammettilo. 

Bé, insomma, non mi volevi far conoscere Guillermo. Avevi litigato con lui per colpa degli spiriti e adesso non mi  volevi portare a casa sua. 

Sono rimasta col broncio tutta la sera. Stavo affacciata alla finestra e guardavo le foglie dei banani agitarsi nel buio quando Francesca mi è venuta vicino. Mi ha detto che ti aveva parlato, ti aveva convinto brutto cocciuto testa dura che sei!, e che il giorno dopo saremmo andati a trovare il guaritore. Per fortuna lei è più intelligente di te. Se penso che, senza mai lamentarsi, si è fatta mezzo mondo al tuo seguito, dal Guatemala alla Spagna alle Filippine mentre tu cercavi uno stregone che ti guarisse dalla psoriasi! E che tu in cambio, solo perché un giorno l’hai trovata a farsi uno spino, le hai tirato un ceffone tale che l’hai sollevata da terra, e lo spino l’è andato di traverso, povera Franci. Proprio tu che ti sei fumato chilometri d’erba e che disquisivi sui tipi di sballi differenti provocati da hashish, marijuana e olio marocchino! 

Quando Francesca se n’è andata a dormire sono rimasta a lungo affacciata alla finestra. Il cielo era stellato – questo l’ho già detto – e il buio immenso. Sentivo ululare dei cani in lontananza, e mi chiedevo quale di loro sarebbe finito arrosto per primo. Tu ne avevi uno, di cane, e ti eri fatto promettere da tutti gli uomini del villaggio che il giorno che tornavi in Europa non se lo sarebbero mangiato. Anima nobile, ti preoccupavi più di far felice un cane che tua sorella!

Guardavo davanti a me l’unica pozza d’acqua del villaggio – te la ricordi? era a forma di conchiglia – dove, la mattina, le donne ci venivano a lavare i panni. Ogni mattina alle cinque e quarantacinque arrivavano in gruppetti di tre o quattro e si mettevano a sbattere stracci colorati e a ridere come sceme. Ridevano forte, le stronze! Quando io e Claudio ci affacciavamo alla finestra, rimbambiti di sonno e incacchiati neri, loro smettevano. 

È che hanno una paura tremenda di noi, mi dicesti un giorno, lo sai come ci chiamano? I diavoli bianchi!

Erano così terrorizzate da noi diavoli bianchi che ogni giorno, alle cinque e quarantacinque in punto, tornavano lì a ridere e a sbattere indumenti. Confesso che non ci trovavo niente di pittoresco in tutto quello sbattimento mattutino. Erano solo delle maleducate, delle stupide, insomma, non facciamo sempre i buonisti che si esaltano davanti alle tradizioni locali. Quelle erano delle rompicoglioni e basta.

Poi un giorno mi è capitato di parlare con una di loro, l’unica che sapeva quattro parole d’inglese. Mi sono lamentata di tutto il lavare a mano di vestiti, asciugamani e lenzuola (ma come cacchio fanno senza lavatrice?) e lei mi ha risposto: “Qual è il problema? Guarda quant’acqua abbiamo qui!”

Mi ha indicato la pozza d’acqua e mi ha sorriso, felice.

Fratello, mi sono sentita una merda. Un’emerita merda europea. La mattina dopo quando mi hanno svegliata alle sei meno un quarto, mi sono girata dall’altra parte e ho ripreso a dormire.

Sto ancora tergiversando. Insomma, quella notte stavo affacciata alla finestra a guardare la pozza e mi veniva il magone. Non si può stare due mesi nelle Filippine in pieno periodo piogge, immersi ogni giorno nell’acqua sino alle caviglie inebriandosi dell’odore di foglie marce, e non rattristarsi all’idea di dover lasciare tutto ciò!

Capita anche a te, fratello, adesso che vivi a Genova, di sentire da lontano l’odore della pioggia che arriva e di ritrovarti con gli occhi lucidi? A me sì, anche se sto a Milano e l’odore di pioggia mi arriva sempre misto a quello dell’inceneritore di Figino.

Comunque. Il giorno dopo abbiamo preso finalmente il bus-jeep che ci avrebbe portato da Guillermo. Siamo saliti in venti su un gippone che portava al massimo dieci di noi, e l’autista è schizzato via affrontando le curve con il solito entusiasmo.

Ti ricordi certamente quei gipponi. Ogni volta che il conducente azionava le frecce partivano dei motivetti musicali – da Jingle bells alla Nona di Beethoven, tipo oggi le suonerie dei cellulari – e per tutto il viaggio quelle musiche ci hanno tenuto compagnia. Ma la cosa che più mi ha affascinato erano le scritte. Su una fiancata della jeep era riportato il nome del capolinea e sull’altra c’era scritto VICEVERSA.  

E’ magico ritornare in un posto che si chiama Viceversa, non trovi?

A proposito di magia. Ho rinunciato a convincere le persone che i guaritori fanno le operazioni con le sole mani nude, che non ci sono trucchi. Mi rispondono che sono stata ipnotizzata o che non ho visto i grumi di sangue nascosti nelle maniche. Che maniche d’Egitto! rispondo io. Guillermo aveva una maglietta sbracciata e pantaloni senza tasche. E poi non ci aspettava, gli siamo piombati in casa all’improvviso, non avrebbe avuto neanche il tempo di nascondere il materiale sanguinolento. Inoltre ho la registrazione della macchina fotografica e della videocamera che hanno ripreso l’avvenimento. Ipnotizzate anche loro? Ma non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Anche quando spiego che sia tu che tua moglie vi siete fatti operare una ventina di volte, che hai visto le dita sottili di Guillermo a dieci centimetri dal tuo naso, che hai lavorato con lui per due anni facendogli d’assistente su e giù per le montagne, curando poveri diavoli che vi pagavano con una ciotola di riso, neanche allora mi credono. Dicono che potresti essere stato ipnotizzato anche tu. 

Lo so che ti dà fastidio se racconto dei guaritori. Ma è proprio questo il motivo per cui ti scrivo. Ok, sono stata prolissa – logorroica, dirai tu – ora ci arrivo.

Giunti da Guillermo mi hai presentata e subito dopo sei uscito di casa, come a dirmi, Ti ho fatta contenta, ma adesso mi astengo e son cavoli tuoi. Nella stanza c’era un povero cristo – un ragazzo scrofoloso – che se ne stava seduto in disparte. Guillermo l’ha fatto sdraiare sul tavolo e ha detto a me e a Claudio di avvicinarci. Ci siamo fiondati come cani attorno a un osso, agitatissimi, avevamo la pancia del filippino a cinquanta centimetri di distanza, macchina e videocamera a molto meno. Guillermo ha passato le mani sul corpo del ragazzo. Poi ha cominciato a fare quella cosa incredibile verso cui tu ora ostenti tanta indifferenza. Per me invece è stato strabiliante, ancora adesso penso di aver sognato. Con una mano teneva premuta la pancia del tipo e con l’altra apriva velocemente una fessura. Fessura? Non è il termine esatto ma non era propriamente una ferita – un piccolo varco, ecco. Quando è stato sufficientemente grande ci ha ficcato dentro le dita e ha iniziato a estrarre una materia rosso scuro, sembrava del fegato andato a male. L’estraeva e la depositava in un vasetto di vetro. A un certo punto ricordo che mi ha fatto segno e ha tenuto aperta la ferita con tutte e due le mani. Ci ho quasi ficcato dentro il naso: mi è sembrato di vedere qualcosa ribollire là dentro, come in un calderone infernale. 

Non te l’ho mai detto, ma in quel momento mi sono commossa.

Lo so che questa cosa l’hai vista anche tu, e molte più volte di me, ma te la racconto perché voglio sottolineare che Guillermo aveva davveroil potere di un grande guaritore, e un bravo guaritore sente in quale puntodel corpo c’è il blocco d’energia, e interviene proprio lì, per liberarla. Così il malato si rimette a posto e se ne torna a casa contento. Mi segui fin qui? 

Bene. Quando Guillermo ha terminato ha fatto sdraiare Claudio e gli ha passato sopra le mani. Ovviamente tuo cognato era sano come un pesce. Toccava a me. 

Mi sono sdraiata col cuore che batteva forte. Guillermo sudava, mi sembrava stanco. Mi ha passato sopra le mani e poi si è fermato sulla pancia. Si è fermato proprio . Insomma, dove presuppongo ci sia l’utero.

C’è un problema nel grembo materno, ha detto. 

Io e Claudio ci siamo guardati. Come faceva a saperlo? Era da più di due anni che cercavamo un figlio, e il piccolo non voleva saperne di arrivare. Un problema che stava diventando pesante per entrambi.

Guarisci il mio grembo – ho detto allora a Guillermo – ti prego. 

Avevo il cuore che faceva i balzi per l’emozione. 

Non posso, ha risposto lui. 

Era pallido, tremava per lo sforzo sostenuto. 

Domani, torna domani, ha aggiunto, adesso sono esausto, ho usato troppa energia e non ce la faccio a curarti. 

Domani parto per l’Italia, ho replicato. 

Guillermo ha scosso la testa. Domani, adesso sono esausto, non posso. Torna domani. 

 Il giorno dopo, come ben sai, dovevo partire per l’Italia. 

Quel che non sai è che io e Claudio ci abbiamo messo dieci anni a fare un figlio. Ti raccontavo che non ne volevamo, ma non era vero: mi vergognavo di non riuscire a rimanere incinta, mi sentivo un utero di serie bdavanti a Franci che aveva sfornato già tre bambini. Quando è nato il mio avevo quarantadue anni. Adesso lui ne ha undici e io cinquantatre e mentre sono in pieno sbattimento, oppressa da compiti, zaini troppo pesanti, play-station game-boy judo tre volte la settimana e rompimenti di palle del pre-adolescente che contesta, mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se tu, invece di deciderti a portarmi da Guillermo proprio all’ultimo momento, mi avessi accontentata con adeguata sollecitudine. 

Probabilmente adesso avrei un figlio di ventuno anni, già adulto, autonomo e responsabile, che ha superato le crisi adolescenziali con problemi annessi e connessi, che va all’università e magari è anche bravo. Un figlio come i tuoi, insomma, che ti lasciano il tempo di fare lo scrittore a tempo pieno e, come optional, di scrivere su riviste turistiche dei viaggi che fai in posti alternativi da sogno.

E così, invece di correre dalla mattina alla sera potrei, alla mia veneranda età, farmi di più i cacchi miei e godere delle dolcezze della stagione di mezzo che sto attraversando.

Tanto ti dovevo comunicare. Soprattutto se penso che adesso non sei più evangelico e sei tornato ad apprezzare la canapa indiana e a disquisire sui suoi derivati. E che ogni volta che ci vediamo mi rompi l’anima dicendomi che non te l’aspettavi da me, faccio proprio una vita da regolare, io che avevo tante qualità e così spiccata intelligenza.

Che da me ti aspettavi un’altra riuscita, insomma. 


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