“I fuochi alle spalle” di Sonia Sacrato


Pooch minuti al nuovo anno. Qui su fa un freddo cane, e per quanto mi stringa nel cappotto non riesco a smettere di tremare. Lo so, non è soltanto il freddo. Affondo il viso nella sciarpa e respiro a fondo.
Pensavo mi sarei sentita meglio, sai? Invece no. Mi manchi comunque, mi manchi da morire.
La loggia della Mole aperta straordinariamente per il Capodanno. Potrebbe sembrare una uscita di scena plateale. Ma non è così. So cosa devo fare, e so come andrà a finire. Avevo solo bisogno di una manciata di minuti per me sola.
Per noi soli, mi senti? Ti prego… dimmi che puoi sentirmi. Questo è il punto più vicino al cielo che ho potuto raggiungere. Cosa darei per parlarti ancora…
Osservo la mia città, ignara di quanto sia accaduto, andare incontro al nuovo anno tra i fuochi d’artificio e la speranza che domani ci si possa svegliare con una realtà, oltre i vetri, che sia appena un po’ diversa. Non lo si spera forse sempre? Festeggiare il nuovo anno è esorcizzare la paura che sia l’ultimo, la paura atavica della morte. Si allontana la morte facendo rumore, come i bambini fanno rumore per cacciare i mostri sotto il letto… Basterebbe poco per trasformare la paura in speranza e pensare che il nuovo anno sia vita nuova…
Piazza Vittorio è un fermento di luci e di gente in movimento. Si intravede un palco da qualche parte nel caos e qualcuno che canta. Sembrano felici. O forse, per una notte, hanno solo dimenticato di non esserlo.
Non riesco a tenere sotto controllo i brividi, sono così forti che anche i miei denti battono gli uni contro gli altri. Qualcuno mi passa accanto e mi guarda curioso. Poche coppie che si stringono e si baciano negli angoli più bui.
Stringo tra le dita lo smartphone, l’elenco dei contatti già aperto sul numero che ho salvato poco tempo fa, pensando a questa sera. Devo decidermi a chiamare.
Me l’avevi detto tu, ti ricordi? Che lui ti aveva salvato, che se l’avessi incontrato in un momento diverso magari avresti potuto fartelo amico. Che era una persona non avresti dimenticato mai.
Ancora qualche minuto. Mi concedo ancora qualche minuto e poi chiamo, ho bisogno di riempirmi gli occhi di orizzonte, ho bisogno di guardare oltre ancora per un po’. Il Monte dei Cappuccini con le sue luci d’artista blu. Superga, silenziosa e aristocratica sullo sfondo, più a sinistra.
La tua sciarpa. Me l’ha data Francesca il giorno del tuo funerale. Ci metto dentro la faccia, cerco il tuo profumo, quel calore che mi dava la tua mano quando mi stringevi la spalla. Non mi lasciare, ti prego, ho ancora bisogno di te ora, più che mai.
Un respiro. Riapro gli occhi e con una carezza del pollice sul display faccio partire la chiamata. Una voce al centralino, una musica d’attesa e poi l’uomo che cerco. Dovevo immaginare che fosse in ufficio anche in questa notte… O forse gli hanno passato la chiamata sul cellulare… Non importa. Sapevo che avrebbe risposto, come se noi avessimo avuto un appuntamento fissato proprio per questa notte.
“Sì? Chi parla?”
“Per favore, mi venga a prendere”.
“Non capisco… ma… chi parla?”
“L’ho ucciso. Per favore. Venga a prendermi”.

Elia ed io siamo nati a Torino. I nostri genitori, originari di un piccolo paesino veneto, si sono trasferiti qui qualche mese dopo il matrimonio. Mio padre aveva trovato lavoro alla Feroce. Il lavoro. Quello sicuro. In quegli anni si guardava alla Fiat, ancora con un certo timore reverenziale. Degli anni di piombo e delle rivolte operaie si sentiva l’odore e il rumore, ma pareva ancora lontano… Sarebbero arrivati troppo in fretta. Ma noi bambini non avremmo capito.
Elia arrivò dopo un paio d’anni, io otto dopo di lui. Sono tanti, troppi quando si è piccoli. Agli occhi di un fratello maggiore sei un essere del tutto inutile: non puoi giocare al pallone, del resto nemmeno cammini; non puoi giocare con le macchinine, perché finisce sempre che te le infili in bocca e le macchinine sbavate fanno schifo, si sa. In alternativa metti a prova la loro aerodinamica lanciandole dal seggiolone, iniziativa sempre poco apprezzata.
Quando inizi a crescere, da essere inutile passi a palla al piede. Sei quella che, solo per il semplice fatto di esistere, non gli permette di uscire con gli amici perché deve farti da baby sitter quando mamma lavora. Sei quella che non gli lascia immaginare i numeri di Platini e relativo gol, perché decidi di dare fuoco alla cucina proprio mentre la Juve si gioca il derby con il Toro e la voce alla radio è un mondo in cui non ci sarebbe posto per i piccoli incendi domestici…
Però riuscivo a strapparti anche dei sorrisi vero? Quando mamma mi diceva di pregare prima di dormire e invece dell’Angelo Custode recitavo la formazione della Juventus dell’82: Zoff, Gentile, Cabrini, Brio, Scirea…
L’adolescenza è terribile. Quando l’adolescente è lui, tu sei solo una bambina e lui il ragazzo che si affaccia al mondo degli adulti.
Che ne sai tu della vita? Della ribellione?
Quando l’adolescente sei tu, lui ormai è l’uomo adulto. Quello che studia seriamente. Che della vita ne sa e la ribellione l’ha dimenticata. E tu sei solo la sorellina casinista. Quella che non ne azzecca una. Tu sei quella che nasconde le sigarette nel cassetto della biancheria, ed esce con i jeans strappati, lui è quello che frequenta l’università e nello stesso tempo lavora per portare a casa i soldi. Ha dei progetti, lui.
Ti ricordi quando è morto papà? Sei diventato l’unico punto di riferimento mio e di mamma. Che sarebbe stato di noi senza di te? Sembrava che avessi sempre una risposta in tasca. Per qualsiasi cosa. Io non ne sono mai stata capace. Del resto, per tutti, io ero solo la “sorellina di Elia”. Dio, ti ho anche odiato qualche volta. Eri così perfetto e irraggiungibile… potessi tornare indietro… potessi spiegarti…
Quindici anni fa me ne sono andata di qui. Mi è sembrata l’unica cosa da fare, per capire chi fossi, per prendermi uno spazio che fosse mio. Per dimostrare, soprattutto a me stessa di non essere solo la sorellina più piccola, quella spiantata. E ci sono riuscita.
La mia casa, il mio negozio. Piccolo sì, ma con il mio nome sull’insegna.
Eri orgoglioso di me. Il giorno che mi hai aiutata con il trasloco ridevamo come pazzi. Eri finalmente amico, finalmente vicini. Quando hai visto l’insegna mi hai guardata e detto “Brava”. Dio come vale per me quel “brava” detto così.
Tornare qui mi ha fatta sentire un po’ come la Clelia di Pavese. Camminavo per le strade che mi hanno vista crescere, aspettandomi che qualcuno mi riconoscesse. Non è successo. La frenesia delle feste è solo un rincorrere l’ultimo regalo, la spesa da fare prima che ricominci a nevicare.
Provo a guardare i portici. Immaginare il fiume che scorre cercando qualcosa di familiare. Rivedo le mie serate con gli amici, le corse in due sul motorino, senza casco a scappare dalla Madama… Quando hanno trovato Elisa, la mia migliore amica, morta vicino al ponte Principessa Clotilde, a Borgo Dora. Un ago ancora nel braccio e i suoi 17 anni bruciati in una dose tagliata male. Sono passata di lì ieri, quel ponte non c’è più e nemmeno i mazzi di fiori che ogni settimana portava lì sua madre.
Lo sapevo sai, che la storia di Elisa aveva spaventato tutti. Non dicevi nulla, ma ogni tanto mi venivi a cercare, o capitavi “per caso” al solito bar dove i ragazzi giocavano a biliardo e noi ragazze si stava tra noi. Non mi dava fastidio, mi volevi bene, lo sapevo. Io con quella roba non ho mai avuto nulla a che fare, ma a te bastava trovarmi… Ti ricordi quella canzone? Erano gli “Animali rari” e cantavano “Siamo quelli sai, che non è bene che i bambini vedano nei bar… quelli con le braccia sempre piene di guai…”
I fuochi d’artificio illuminano la città a giorno. Gli scoppi sembrano così vicini e forti che li percepisco come se mi passassero attraverso. Le vibrazioni si mescolano al dolore della perdita, alla rabbia che non mi lascia. Pensavo che dopo stasera avrei trovato un minimo di pace, invece è ancora più vivida e lacerante.
Te ne sei andato, porca puttana te ne sei andato così, senza una parola…
Elia si è arreso. E io non ho potuto fare nulla, non ho fatto in tempo, non ho potuto.
Quando mi ha chiamata l’ultima volta non ha fatto trasparire nulla, e cazzo, l’avevo sentito che qualcosa non andava. Ho provato a farlo parlare. Dio lo sa quanto ho provato. Ho insistito. Ma mi ha rassicurata, mi ha detto che aveva i soliti problemi, che i creditori e il curatore fallimentare… e ancora il direttore della banca, quello stronzo che gli aveva suggerito di rivolgersi alle agenzie finanziarie, mentre già passava il suo incartamento alle agenzie di recupero crediti… figlio di puttana… Aveva provato a parlarci ancora, e aveva dovuto andarsene per non mettergli le mani addosso. Ma non dovevo preoccuparmi di nulla, stare serena.
Ma perché? Perché non mi hai detto nulla, avrei potuto… avremmo trovato una soluzione… insieme.
Scoppio in singhiozzi. La coppietta poco distante da me si allontana.
Respiro a fondo, devo riprendere il controllo.
Mi basta ripensare a quello stronzo, e divento più fredda dell’aria che mi gira intorno.
L’ho visto, per un attimo, attraverso la vetrina della filiale. Qualche giorno dopo il funerale. C’erano delle carte da firmare, le solite pratiche burocratiche. Ho accompagnato Francesca, mia cognata, ma non sono entrata. Ero rimasta fuori, a guardare il traffico.
L’anno prima, quel marciapiede era stato teatro di uno scontro tra Elia e un tossico che scappava dopo aver tentato la rapina proprio in quella banca. In quell’occasione il direttore era finito in ospedale con un trauma cranico.
Più forte avrebbe dovuto sbattergliela la testa contro quella scrivania, a quello stronzo. Più forte.
Elia mi aveva confessato che quel giorno era lì anche lui, voleva fare una pazzia. Aveva preso la pistola, quella trovata in cantiere, e stava andando lì, ché era stanco di tutto schifo che era costretto a mandar giù. Perché doveva fare qualcosa per denunciare quello che stava capitando, aveva detto che gli sembrava l’unico modo possibile. E pazienza se sarebbe andato in carcere. Qualcosa doveva fare. Non era mai stato violento, anzi. Ma la disperazione libera pensieri che non riconosci nemmeno più come tuoi. Ti stravolge la vita, o per lo meno quello che ne resta.
Invece era uscito quel tipo di corsa, gli era piombato addosso. Prima di rendersene conto c’era stata una colluttazione, Elia aveva perso la pistola, alla fine erano arrivati i carabinieri e per non sbagliare avevano portato via entrambi.
Era lì che l’aveva incontrato, il Capitano, come lo chiamava lui. Che nemmeno lavorava lì, stava alla Dia, e nemmeno l’avrebbe incontrato se non fosse che quell’incapace di tossico aveva provato a fracassagli la testa, allo stronzo, e lo stronzo era già indagato dall’Antimafia. E il Capitano aveva scelto da che parte stare.
Quella sera al telefono, quando mi raccontasti tutto, non sapevi se ridere o piangere. “Cos’è che dici sempre tu? Quando l’universo ti parla” avevi detto. Ti sentivi di nuovo forte, di nuovo agguerrito. Il fato ti aveva impedito di fare una gran cazzata e quell’uomo ti aveva concesso una seconda possibilità.
Nei mesi successivi era sceso di nuovo in guerra. Credevo l’avrebbe superata. Ero sicura ne sarebbe uscito, che avesse ancora tutte le sue risposte in tasca, come quando eravamo piccoli e lui della vita ne sapeva più di me. Ma anche quel poco aiuto economico che potevo dargli non bastava. Francesca aveva venduto tutto quello che poteva, anche la fede nuziale.
Elia se ne andò di casa lasciando il portafoglio, le chiavi di casa e il cellulare sopra il tavolo. L’hanno trovato quattro giorni dopo, in un’ansa del fiume. Le braccia legate malamente dietro la schiena, per essere sicuro di combattere l’istinto di sopravvivenza.
Quel giorno guardavo lo stronzo stringere la mano a mia cognata, viscido e finto dispiaciuto. Ho spento la sigaretta sotto il tacco dello stivaletto, e ho preso una decisione. Torino si colorava d’autunno, e l’aria era frizzante. Non doveva solo cagarsi addosso, quello stronzo. Oh no, doveva pagare, e non gli avrei fatto nessuno sconto.
Non sento le sirene avvicinarsi. Ci sono ancora scoppi di fuochi, alcuni lontani. Vedo dei lampeggianti fermarsi qui sotto, o meglio, vedo i riflessi contro i vetri dell’università.
La stessa dove ho passato tante ore a coltivare sogni di ogni tipo. Qualsiasi cosa purché fosse lontana dalla mia realtà. Vorrei estraniarmi anche ora, ma i sogni li ho persi da un po’.
Faccio un altro giro della loggia, mi guardo le mani. Ancora non hanno smesso di tremare. Provo ad accendere una sigaretta, ma mi sembra un gesto così inutile e forzato. Non ho nemmeno voglia di fumare.
Ho chiuso il mio negozio, sono tornata a Torino con il pretesto di passare un po’ di tempo e le feste con mio nipote.
Sono riuscita anche a trovare dove lavora il Capitano, e il numero del suo ufficio. Non sapevo nemmeno se me l’avrebbero mai passato al telefono, non era certo un impiegato qualunque. Ma ero decisa a parlare solo con lui.
Ti aveva salvato. Lui era riuscito dove io non ero stata capace di esserci. Non so perché, non è razionale sai, ma sentivo che forse lui sarebbe stato l’unico a capire. Non mi interessa quello che succederà dopo. Mi basta che lui capisca.
Avvicinare lo stronzo invece, era stata la parte più semplice. Uno di quegli uomini che si piccano di essere abili dirigenti, e uomini di grande fascino. Lo vedi dalla postura, dall’atteggiamento che hanno con i collaboratori. Guardano tutti dall’alto in basso.
Mentre ero nel suo ufficio, avevo fatto in modo che mi guardasse volutamente in basso.
Mi ero inventata un nome, un’attività e la necessità di un conto nella sua banca, e un trattamento particolare.
La gonna corta e il pizzo della calza che si intravedeva gli avevano suggerito diversi trattamenti esclusivi, che mi avrebbe volentieri rivolto. Non me ne fece nemmeno un gran mistero, il porco.
Un paio di aperitivi, un invito a pranzo. L’idea che potesse toccarmi era la più difficile da affrontare. Ma ormai ero in gioco, e dovevo chiudere la partita.
Due giorni fa l’invito a cena. Serata perfetta. Quella in cui lo stronzo avrebbe dato il meglio di sé, prototipo di maschio alfa. O presunto tale.
Il nuovo anno in arrivo era solo un pretesto, con la musica giusta, le candele accese.
Mi sembra di risentire il suo dopobarba. Volgare, come la sua voglia di mettermi le mani addosso non appena ho sfilato il cappotto.
La mia intensa voglia di un bicchiere di vino. Necessario, per farmi sciogliere lo stomaco, combattere le vampate di nausea.
Mi versa cabernet veneto, “in mio onore” dice, dal sapore deciso e corposo. Non si sposava affatto con gli antipasti di gamberetti che aveva ordinato presso chissà quale catering. Nemmeno un vino decente sapeva scegliere, quello stronzo, ci credi?
Mi cinge con le braccia intorno alla vita. Ha fretta e ha fame.
Alzo la gamba destra, la faccio strisciare contro i suoi fianchi, sento la sua voglia premermi contro e lo stomaco mi si torce di più per lo schifo. Ma il gesto a lui piace, lo prende come una risposta alla sua eccitazione, in realtà è il modo più semplice per sfilare il pugnale che tengo ancorato all’elastico dell’autoreggente.
Si blocca.
Ti ho pensato così forte, avevo gli occhi chiusi, e l’immagine di noi due sotto l’insegna del mio negozio. La tua voce a dirmi “brava”, e ho sferrato il primo colpo.
Credo non abbia capito subito cosa stesse succedendo. Credo che il concetto gli sia stato appena un po’ più chiaro quando è arrivata la seconda pugnalata. Faccio due passi indietro, il pugnale viene con me. Lui prova a muoversi, a venirmi addosso. Si tiene il fianco con una mano, e con l’altra cerca di afferrarmi la gola. “Puttana” mi urla, lo stronzo.
Con la mano libera afferro la bottiglia di vino, credo che il colpo arrivatogli in faccia gli abbia rotto per lo meno lo zigomo. Essere ambidestra aiuta.
Cade a terra. Mugugna, si lamenta, e m’insulta. Da quella prospettiva può pure vedermi sotto la gonna troppo corta, ma non credo che la cosa gli interessi più, in questo momento.
Ho pensato tante volte a che cosa gli avrei detto. Nei film succede sempre così no? Alla fine si fanno grandi discorsi. Si danno le spiegazioni del caso e lo stronzo, di solito, muore con un quadro preciso del perché stia tirando le cuoia.
Ma io non avevo voglia di parlare. Cosa avrei dovuto spiegargli? E poi perché. Ho avuto quasi paura per me stessa, non provavo nulla, non sentivo nulla. Guardavo i suoi occhi spegnersi, mentre il sangue a terra si mescolava al vino. Non sentivo niente. Mi credi? Pensavo solo a te, all’aria che ti mancava fino a farti male, alle mani che probabilmente hanno provato a liberarsi, ma quanto cazzo li avevi stretti quei nodi? Avrai pensato a tuo figlio, gli avrai chiesto perdono. Quanto eri disperato per lasciarti andare così?
Mi chiede di nuovo “perché?” ed è solo sussurro che mi desta dal torpore.
Mi sono chinata su di lui e gli ho detto solo due parole.
Gli ho detto il tuo nome Elia. E poi gli conficcato il pugnale in pieno petto. Così, come si fa con i vampiri
“Si volti, piano. Molto piano. E tenga le mani a vista”.
Alzo le mani lentamente, e altrettanto lentamente mi giro.
Davanti a me un uomo poco oltre la quarantina, con il giubbotto di pelle e la barba da fare. Non troppo diverso dalla descrizione che mi fece Elia. Ha profonde occhiaie, il colore degli occhi non riesco a capirlo invece… Ha una Beretta in mano, puntata verso di me.
Intorno a lui, nel riflesso delle luci, e dei pochi fuochi d’artificio sullo sfondo, il fiato che si fa fumo. Quelle poche persone sulla loggia si sono allontanate velocemente.
“Il Capitano Riccardi immagino. Non sono armata. Il pugnale l’ho lasciato piantato nel petto di quello stronzo”.
Il Capitano raddrizza le spalle e abbassa, ma non di molto, l’arma. Piega la testa un po’ di lato come a pesare le mie parole e il mio sguardo, decidere se sto affermando la verità o deve aspettarsi una qualche trappola, un qualche movimento repentino.
“Ma lei chi è?”.
“Mi chiamo Silvia. Silvia De Marchi”.
Mi fissa qualche secondo. La sensazione è che nella sua testa scorrano velocemente foto segnaletiche, documenti e ritagli di giornale, cercando una corrispondenza.
Poi respira a fondo.
La pistola torna nella fondina
Esplodono i fuochi d’artificio. E’ mezzanotte.


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