“Il figlio” di Cynthia Collu


 

Elisa uscì in fretta dallo studio medico. Si sentiva stanca, come se se suo marito l’avesse costretta a camminare per chilometri. Ogni volta che andavano in montagna le chiedeva di accompagnarlo in scarpinate che duravano ore. Ovviamente, se lei si fosse rifiutata, non le avrebbe rivolto la parola per giorni. Questo era uno dei tanti motivi per cui era sempre risentita con lui. Certo, non il più importante. Di recriminazioni Elisa avrebbe potuto fare una lista lunga come i sentieri che lui la costringeva a percorrere.

E adesso ne aveva un altro da aggiungere, il più grave di tutti.

Passò in fretta dalla penombra del sottoscala alla luce vivida del pomeriggio. Fu come ricevere uno schiaffo. Barcollò, e di nuovo le vennero i sintomi di vomito. L’avevano accompagnata per tutto il tempo della visita e adesso capiva che doveva essere stato a causa dei muri riverniciati di fresco.

Certo che la dottoressa era un bel tipo, avrebbe perlomeno dovuto avvisarla, oppure scusarsi per il disagio, prevedere che l’odore di vernice poteva dare seri fastidi alle sue pazienti! Ma già, figuriamoci se una libera professionista rinunciava alla possibilità di guadagnare tutti quei soldi. Duecento euro per una visita! E non le aveva neanche toccato il seno, con tutti i casi di cancro in aumento il seno avrebbe dovuto visitarglielo, così, almeno da quel punto di vista, lei si sarebbe rassicurata. Invece niente, un dito dentro e duecento euro fuori. E la bella notiziola, in compenso.

Elisa si fermò. Faceva molto caldo. Attorno a lei la gente si muoveva in modo che le parve disordinato.

“Gravida”, disse, “sono gravida.”

“Gravida”, ripeté a voce alta.

Quel termine la disgustava. Le ricordava la monta degli animali. Quando andava in montagna col marito si recava spesso in una fattoria vicino a casa, per comprare latte e uova fresche. Il padrone era sempre scontroso e taciturno. Apriva bocca solo per darle notizie sulle sue bestie. “La Carolina è stata ingravidata”, le comunicava. O anche “La Teresina è stata ingravidata, la Bianchina pure.” Faceva il conto delle mucche che erano state montate dal massiccio toro nero di sua proprietà, e dei possibili vitellini che sarebbero nati. Poi la guardava in modo curioso, come aspettandosi un suo commento. Lei immaginava la bestia nell’atto d’ingravidare la mucca di turno, le zampe e il collo possenti sulla schiena della povera femmina, e immancabilmente commentava: “Bene, chissà quanta carne avrà da macellare!”

Si strinse al corrimano della scalinata del metrò e cominciò a scendere. Una donna avanzava in senso contrario al suo. Aveva un bambino in braccio. Il bambino urlava sbattendo avanti e indietro la testa contro il petto della madre e intanto la tempestava di piccoli pugni. Elisa notò il lampo incattivito dei suoi grandi occhi azzurri.

Quando lei e la donna si trovarono affiancate si guardarono. L’altra, dopo un attimo di perplessità, abbassò lo sguardo e strinse a sé la testa del bambino, come per proteggerlo. Questo si calmò di colpo, cercò il pollice e si mise a succhiare con forza. Elisa contrasse le labbra in una smorfia e riprese a scendere le scale.

Nel mezzanino del metro si fermò a comprare il biglietto. La gente correva in ogni direzione, avevano tutti una fretta del diavolo.

Lei non aveva fretta. Avrebbe voluto che il tempo facesse una brusca frenata e poi tornasse indietro, a un mese prima. Sarebbe stato così semplice, avrebbe detto a Neri che senza spirale non aveva voglia di correre rischi, e adesso sarebbe stata l’Elisa di sempre. Invece non aveva avuto il coraggio di contrariarlo, ed ora si ritrovava con un parassita nella pancia.

Si toccò il ventre. Se fossi in te non ci conterei, pensò.

Una donna si voltò a guardarla, e lei capì di aver parlato a voce alta.

“Bisogno di qualcosa?”, le gridò, e l’altra si ritrasse spaventata.

Scese alle piattaforme muovendosi con cautela, attenta a che nessuno la urtasse. Il treno arrivò quasi subito. Elisa vide un vagone semivuoto e vi entrò. La maggior parte dei viaggiatori tornava dal lavoro e teneva gli occhi ben piantati sul giornale, oppure lasciava scivolare lo sguardo sui compagni di viaggio senza soffermarsi su nessuno in particolare.

Alla fermata di Cairoli un giovane zingaro provvisto di violino attaccò a suonare funiculì funiculà. Lo strumento emise dei miagolii strazianti, poi bruscamente smise. Nel silenzio che ne seguì si levò una voce.“Guardatemi”, diceva “guardatemi!”

Il tono era basso, gutturale. Elisa guardò, ma non vide niente. Anche gli altri  passeggeri stavano osservandosi in giro. Poi lo scorse.

Arrancava per terra, come un ragno. Era privo di gambe, e per avanzare faceva leva sulle mani. La testa era grossa, pesante. Gli occhi avevano una luce di cattiveria divertita. Al suo passaggio la gente scostava i piedi, premendo contro i passeggeri seduti. Lui si fermava ogni due o tre leve sulle mani. Riprendeva fiato. Ruotava la grossa testa e alzava gli occhi. “Guardatemi”, esclamava.

Arrivò davanti ad Elisa e la fissò dritto in faccia. “Guardatemi!”, ripeté. Lei distolse gli occhi. Lo storpio rimase fermo, la testa sollevata e la bocca aperta in una smorfia di denti gialli. Elisa frugò velocemente nella borsetta e ne trasse un euro. L’uomo non fece nessun gesto per prenderlo, e lei fu costretta ad abbassarsi. Le loro mani, per un attimo, si sfiorarono.

In quel mentre un’altra voce disse con malagrazia “devo scendere.” Una figura minuta s’intromise tra lei e l’uomo a terra. Le porte del vagone si aprirono di scatto e lo zingaro scese alla fermata insieme alla massa dei passeggeri. Elisa lo scorse correre verso la carrozza più avanti. Poi le porte si richiusero, e la fermata del Duomo scomparve.

Mentre osservava la piattaforma scivolare via al di là dei finestrini, avvertì una forte fitta al ventre. Chiuse gli occhi e premette con forza le mani sulla pancia.

Anche così si sentiva addosso lo sguardo del mezzo uomo: un enorme, grosso feto, tutto testa e tronco, che la fissava.

 

Il sogno della casa lo faceva da anni. Sempre lo stesso. Lei era a casa sua, usciva da una stanza e improvvisamente si trovava davanti a un locale sconosciuto. Spesso quel locale conduceva a un altro, e a un altro ancora, attraverso un lungo corridoio. Elisa avanzava nelle stanze eccitata di scoprire quanto fosse enorme la sua casa, si stupiva di non essersene mai accorta, si fermava, pensava alla disposizione che avrebbe dato ai nuovi mobili. D’un tratto si accorgeva dello squarcio nel muro. Si affacciava e vedeva che comunicava con la stanza di un altro inquilino. A volte non era una stanza ma uno spazio in comune, l’atrio, il pianerottolo, qualcosa che avrebbe comunque permesso all’altro d’intrufolarsi proprio come aveva fatto lei. In certi sogni scopriva che il soffitto era crollato e i muri pericolanti. Oppure che le stanze erano talmente ammassate di mobili da risultare inutilizzabili – sapeva che non si sarebbe mai liberata del mobilio, anche se non ne capiva il motivo. Di solito, però, il problema stava nelle aperture dei muri. Si aprivano immancabilmente su spazi comuni e non potevano essere chiuse. D’improvviso dallo squarcio nel muro si materializzavano ombre di persone che volevano entrare. Per impedirglielo Elisa copriva il buco col proprio corpo, sperando che se ne andassero. A quel punto si svegliava. Si guardava confusa attorno, poi si accorgeva di Neri che dormiva placidamente, il naso appena fuori delle lenzuola.

Rimaneva per un po’ sdraiata a osservarlo. Poi cominciava a tirargli adagio dei calci. Continuava finché non lo vedeva aprire gli occhi. Allora si girava sull’altro lato e subito si riaddormentava.

 

Neri era stato il suo insegnante di lettere. Quando l’aveva conosciuto lei aveva sedici anni e lui ventinove. Era entrato in classe con passo preciso e solenne e lei aveva deciso che non ci sarebbe stato nessun altro uomo nella sua vita.

Neri allora portava i baffi (con gli anni si sarebbe fatto crescere la barba sino al petto), e un paio di occhiali rotondi che gli immalinconivano gli occhi azzurri. Li aveva posati con una carezza sull’intera classe. Elisa non sapeva ancora che la miopia ammorbidisce lo sguardo e può renderlo sognante, e pensò che lui era semplicemente me-ra-vi-glio-so.

Neri prese in mano il registro di classe e cominciò a scandire i cognomi degli alunni. Ogni volta che un ragazzo rispondeva all’appello, lo guardava come se fosse l’unico presente in aula. Quando disse Elisa Moro alzò gli occhi per incontrare i suoi, e lei si accorse della sua solitudine. Vide le guance implumi ed emaciate, rese ancora più pallide dai baffi chiari, e la tristezza che gli inumidiva lo sguardo. Vide la sua testa piccola e morbida, e le sembrò quella di un pulcino bagnato.

Ti salverò io, gli promise silenziosamente.

Da quel giorno il suo unico pensiero fu di farsi notare. Riusciva sempre ad entrare per prima in classe e ad uscirne per ultima. Al cambio dell’ora si trovava puntualmente in corridoio e –per caso, ironizzavano le sue compagne – lo incontrava.

A volte le sembrava di essere un ragno – anzi una ragna, una brutta ragna dal corpo e dalle zampe tozze – che stesse tessendogli una tela. Gli piazzava dritto in faccia i suoi occhi azzurri, e sperava che lui vi leggesse tutto e anche di più, la possibilità della vita piena che lei gli offriva, se solo Neri avesse voluto.

Sperava che non la vedesse così come si conosceva lei: piccola, bruttina, grassoccia. Che non trovasse i suoi occhi acquosi e il naso troppo adunco. Quell’accidenti di naso era il suo tormento; lo intravedeva sempre puntare in giù, querulo e petulante come la voce.

Poi avvenne il miracolo. Neri iniziò a fissarla quando lei non lo guardava. Non appena veniva scoperto – Elisa possedeva una sorta di radar per queste cose – diventava pallido – almeno così le pareva – e distoglieva velocemente gli occhi.

Gli piaccio?, pensava Elisa sentendosi soffocare dall’emozione. Subito cancellava il pensiero. Poi di nuovo: e se non mi sbagliassi ?

L’anno della sua terza liceo scorse veloce. Mancavano solo quindici giorni alla fine della scuola, Neri continuava imperterrito a spiegare e a osservarla di sottecchi, e lei non aveva ancora trovato una risposta che la portasse in paradiso o all’inferno.

 

Neri inforcò gli occhiali rotondi e la fissò – stava correggendo dei compiti nell’angolino che si era organizzato in sala. Portava lo stesso modello da quando si erano conosciuti, venti anni prima, ma da parecchio tempo i suoi occhi non le apparivano malinconici.

Strinse la barba tra le dita e cominciò a lisciarsela.

“Come mai così tardi?” le chiese.

Elisa osservò le dita sottili impigliate nella barba e distolse lo sguardo.

“Come mai?”, insistette Neri.

“C’era traffico.”

“Dove?”

“Tutta Via Bramante era bloccata per un incidente”.

Dopo aver parlato spostò lo sguardo su di lui.

“Via Bramante?”, ripeté Neri.

“Un incidente sulla linea del 14”.

Neri lasciò perdere la barba e si chinò di nuovo sui compiti. Elisa pensò di scivolare in fretta fuori della stanza.

“Come mai da quelle parti?”

Sono andata dalla ginecologa. Ho scoperto di essere incinta. Abortirò.

“Desideravo fare una visita a mia madre in cimitero”, disse senza girarsi.

Neri tacque.

“Ho visitato anche la tomba di tuo padre.”, riprese adagio Elisa. Poi proseguì: “ Era piena di erbacce. L’ho ripulita.”

Si stupì del disappunto ch’era riuscita a mettere nella voce. Si chiese se Neri sarebbe stato capace di andare al Monumentale per controllare. Da via Mecenate era un bel tragitto. Adesso lei avrebbe dovuto recarsi in cimitero al più presto, e sistemare entrambe le tombe. Per fortuna la madre di Neri era stata cremata, e non aveva bisogno di niente.

Neri rifletteva. Di sicuro pensava a quello che c’era da quelle parti. Oltre al Monumentale, ovviamente. Di certo pensava all’appartamento di Steve. Non poteva sapere della ginecologa. Tirò un segnaccio rosso su un compito e disse: “Grazie, è stato gentile da parte tua”.

Lei gli regalò un sorriso disarmante e si allontanò con passo svelto dalla stanza. Se avesse potuto si sarebbe messa a danzare. Si sentiva euforica.

 

L’anno della terza liceo, prima che la scuola finisse, gli aveva scritto una lettera. L’aveva piegata con cura e aveva aspettato l’intervallo per mettergliela nella sua valigetta ventiquattro ore. Nella lettera gli confessava di essersene innamorata, e gli chiedeva che cosa provasse lui. Aveva sottolineato in rosso il numero del telefono di casa e quello delle vacanze. Per tutta l’estate aveva aspettato una chiamata, ma Neri non si era fatto vivo. Il telefono squillava in continuazione, e i suoi fratelli e sorelle si precipitavano a rispondere tra spinte e insulti. “Dov’è Elisa?” strillava quello che aveva preso la telefonata, quando era per lei. Ma si trattava sempre di un’amica o di una cugina o di qualche rompipalle che la cercava. I fratelli sapevano della sua cotta per Neri e si divertivano a prenderla in giro.

“E’ quel tuo professorino!”, le gridavano agitando la cornetta. Lei correva col cuore in tumulto e ogni volta ci rimaneva male.

“Beati i figli unici!”, strillava inviperita ai fratelli. Si riferiva a Neri, che un giorno le aveva confidato di essere figlio unico.

Elisa non sopportava più di vivere in casa sua. Le sembrava di stare in un manicomio. I suoi genitori avevano messo al mondo quattordici figli; di certo non si erano posti il problema della privacy dei ragazzi, dato che a lei non era mai successo di ritrovarsi a pisciare da sola. A volte Mario, il fratello più grande, entrava in bagno senza far rumore e poi si divertiva a toccarla. Ai suoi strilli rispondeva immancabilmente con un ceffone: “Sparisci, stupida!” le diceva mostrandole i denti perfetti. Elisa scappava fuori, offesa e vergognosa. Prendeva il suo diario e scriveva a caratteri cubitali: “Neri, sei l’unico uomo degno di stima su questa terra”.

Anche un bel vigliacco, però. Perché non le telefonava?

Quando tornò a scuola ebbe la brutta notizia: Neri non insegnava più nella sua sezione. Per qualche giorno pensò che non valesse la pena vivere, valutò varie forme di suicidio chiedendosi quale potesse risultare la più esemplare, poi decise che lei era troppo giovane – e neanche poi così cesso – per morire, e che non avrebbe rinunciato a lui. Una mattina puntò la sveglia con mezzora d’anticipo, e alle otto meno dieci era di sentinella davanti all’aula docenti. Rimase lì finché non vide arrivare Neri. Da quel giorno divenne una consuetudine vederla stazionare in corridoio. Neri la guardava ogni volta in modo curioso, lei ricambiava lo sguardo e si allontanava di corsa.

Vigliacco, perché non mi dici cosa provi per me!, gli gridava con ogni movimento del corpo pesante.

Tutto quel correre e riposare poco le procurò una brutta bronchite. Era a letto da una settimana quando ricevette la telefonata.

Questa volta all’altro capo del filo c’era davvero Neri.

“Ti devo parlare”, le disse serio.

Elisa si sentì sollevare dieci centimetri da terra e scoprì di essere guarita. Il giorno dopo erano in macchina assieme; Elisa taceva, rannicchiata sul suo sedile, Neri guidava in silenzio fissando la strada. La giornata era gelida e l’asfalto era diventato una lastra di ghiaccio, bastava poco perché le ruote slittassero. Alla fine si decise e parcheggiò in Corso Como.

Camminarono a lungo. Da Corso Garibaldi arrivarono a Brera, passarono davanti alla Scala, proseguirono in Duomo poi in Via Torino e in Corso Genova. Neri riuscì a parlarle di tutto tranne che del motivo della telefonata. Arrivarono sino a Porta Ticinese e lui le aveva spiegato la differenza dell’esistenzialismo tra Sartre e Camus, parlato della musica impressionista e degli effetti della dominazione austriaca sulla cultura lombarda, dell’erotismo nel romanzo francese del ‘700 (e qui Elisa aveva cominciato a sperare) e della ricerca spaziale di Fontana. Elisa annuiva ad ogni cosa, ammirata e insofferente.

D’un tratto Neri si fermò. Davanti a loro c’era un cassonetto, e lei si chiese che cosa volesse buttarci dentro. Invece lui l’attirò a sé e la baciò con foga. Subito Elisa sentì le labbra dolerle, come se una lama di fuoco gliele stesse arroventando. Ma resistette e rimase ferma.. Solo quando la lasciò andare si accorse che i baffi di lui erano ricoperti di minuscoli, candidi ghiaccioli. Alcuni le erano rimasti appiccicati sulle labbra, ed ora lentamente le scivolavano sul collo per raggiungere l’interno della scollatura.

Rabbrividì, e lui, compiaciuto, la baciò ancora.

 

L’anno successivo si diplomò con ottimi voti. Esattamente una settimana dopo, mentre stava festeggiando la maturità con i compagni di classe, la madre di Neri morì.

La sera Elisa tornò a casa molto tardi.

Occhi umidi, pallidissimo in volto, Neri la sta aspettando davanti al portone di casa.

“Mia madre è morta. Il cuore le ha ceduto”, esordisce.

La fissa con lo stesso sguardo da pulcino bagnato che l’ha tanto commossa due anni prima; lei gli corre tra le braccia e lo stringe forte. E’ alquanto sbronza per tutti gli intrugli che ha bevuto, e per darsi un contegno nasconde il viso nella sua giacca. Neri le mette un dito sulla nuca, sopra la prima vertebra cervicale, proprio nel punto che a lei piace da pazzi.  “Vuoi sposarmi?”, le chiede d’improvviso.

“Come?”, riesce a borbottare Elisa, nel tentativo di sciogliere la lingua che le si è inchiodata tra i denti.

“Ti ho chiesto se vuoi sposarmi.”

“Adesso?”

“Aspetteremo che passi il lutto. Sei mesi saranno sufficienti. Che ne pensi?”

Lei sposta il peso da una gamba all’altra, alla ricerca disperata di un equilibrio.

“Forse ho sbagliato il momento”, dice Neri spingendole indietro il viso per guardarla negli occhi, “O forse non vuoi sposarmi… ”

Elisa ricaccia la fronte contro la sua giacca e tace.

Vorrebbe dirgli che ha in mente ben altro, l’università, una borsa di studio, un viaggio a Londra, magari uno scambio di casa con un altro studente… che ha voglia di sentirsi finalmente libera, di cercarsi un lavoretto e andare a vivere da sola. Riempirsi la casa di amici. Bere. Fare tardi la sera.

“Non ce lo possiamo permettere”, mugugna. “Non voglio essere mantenuta da te. Più avanti, dopo l’università, allora… “

Per la prima volta gli occhi di Neri s’induriscono. Agita le dita e con un colpo secco sforbicia via le parole di Elisa.

“Sì che possiamo. Andremo a vivere da mio padre e non pagheremo niente per l’affitto. Ci ho già pensato. Lui ne sarà felice. Avere il figlio e la nuora vicini non potrà che aiutarlo. E per quanto riguarda la tua università… “ – le preme con più decisione  il punto sulla nuca –  “sarà compito mio aiutarti a studiare. Non dovrai preoccuparti di niente. Ti prometto che il mio impegno più grande sarà quello di renderti felice.”

Sorride. “E’ un’opportunità che abbiamo per vivere subito assieme, non scartiamola a priori.”

Elisa cerca disperatamente di aggrapparsi all’immagine di se stessa stravaccata su una poltrona, una gamba mollemente appoggiata sul bracciolo e l’altra che tiene qualcosa in mano, qualsiasi cosa, un whisky forse, no, meglio una sigaretta, una Benson, quelle col pacchetto dorato, oppure una canna, lei non fuma ma non sarà un problema iniziare, o forse è meglio tenere in mano un libro, uno di quelli che ti fanno sentire intelligente solo a possederli, l’importante è non avere fratelli o sorelle in mezzo alle palle, nessuno che le contenda lo spazio vitale, nessuno contro cui urtare, incespicare, a cui dover rivolgere la parola o mandare a fanculo. Nessuno, solo lei, la poltrona e chissenefrega che cosain mano

Ma le parole, “è un’opportunità”,le continuano a ronzare in testa. Sposandosi potrà continuare gli studi senza preoccuparsi di niente. Ad affrontare il problema “soldi” ci sarà Neri. Sempre e solo Neri per tanti anni ancora. Potrà rimanere una bambina. Ha solo diciotto anni, ha diritto di essere ancora una bambina. Una bambina-moglie. Il tocco di Neri sulla nuca diventa più profondo ed Elisa si sente illanguidire, alcol o amore che sia è una sensazione fantastica. Sorride. Si vede organizzare in casa feste e ricevimenti, accogliere con grazia i colleghi del marito, volare leggera ora dall’uno ora dall’altro esaudendo richieste. Sorridere compita ai complimenti degli ospiti. Guardare Neri per domandarne l’approvazione.

“E’ un’opportunità”, borbotta, e nasconde ancora di più il viso nella sua giacca, ci sfrega la fronte, cerca di far uscire quelle semplici parole “sì, ti voglio sposare”.

 

 

Durante i nove anni di convivenza col suocero non riuscì mai a dargli del tu. Veramente non si decideva neanche a dargli del lei. Sceglieva accuratamente frasi contorte, giri di parole e termini che non esprimessero un pronome preciso. Questo le complicava terribilmente la vita.

L’appartamento di via Mecenate era composto di soli due locali, ed era inevitabile che lei e il suocero s’incontrassero. L’uomo si aggirava per casa  – stanza matrimoniale e sala, oltre ovviamente al bagno e a una piccola cucina – riordinando in continuazione gli oggetti che erano stati della moglie. Non le rivolgeva mai la parola. A volte Elisa si sentiva osservata, alzava gli occhi e incontrava il suo sguardo. Era solo un attimo, poi i loro passi li portavano in direzioni diverse. Elisa si chiedeva se lui le fosse ostile; probabilmente no, ma riusciva comunque a metterla a disagio.

Ovviamente d’invitare qualche amico suo o di Neri non se ne parlava. Ogni sera il suocero si piantava in sala a vedere la televisione, e sarebbe stato maleducato chiedergli di trasferirsi con pigiama e tv nella sua stanza da letto.

Lei e Neri aspettavano in silenzio che il vecchio se ne andasse a dormire, poi aprivano il divano e finalmente potevano abbracciarsi e dirsi che andava tutto bene. Qualche volta uscivano per un concerto, o per un film. Roba noiosissima che Elisa seguiva compunta, cercando di apprezzare le sfumature che Neri le sottolineava man mano. Invidiava le sue ex compagne di scuola che andavano in discoteca, e le parlavano di Eminem o dell’ultimo cantante rap o di qualcun altro che apparteneva ad un genere musicale impronunciabile. Le chiedevano di venirci anche lei, a ballare. O forse il maritino non era d’accordo?

Elisa sorrideva, agitava le dita come Neri, per sforbiciare via le loro vite insulse.

“Io ascolto Stockhausen.”

“Chi è, un rapper tedesco?”, chiedevano le altre.

“Un rapper? UN RAPPER? Dio, ragazze, no. Informatevi!”

Tornava a casa e riferiva compunta la cosa a Neri, poi ne ridevano insieme. Col passare del tempo però queste piccole complicità non le bastarono più. Faceva sforzi terribili per concentrarsi nello studio: il vecchio sembrava scegliere sempre il momento sbagliato per uscire dalla camera e piazzarsi in sala, girarle intorno e guardarla senza parlare. Per la disperazione Elisa si cercò un lavoro.

Roba che m’impegni solo mezza giornata, giusto per distrarmi, disse a Neri. Lui approvò.

Quando finalmente il vecchio morì lei non frequentava più l’università, lavorava a tempo pieno da nove anni, non aveva amici coetanei e aspettava ancora di cominciare a vivere.

La vita rutilante e piena di soddisfazioni che Neri le aveva promesso.

 

Steve glielo presentò Neri. Era il nuovo docente d’inglese, e Neri aveva voluto invitarlo a cena insieme agli altri colleghi – una delle rare cene che organizzavano dopo la morte del vecchio.

Elisa ebbe l’impressione di trovarsi davanti ad una buffa carota, lunga e appuntita, la piccola testa piena di riccioli rossi che si sollevavano a ciuffi sul cranio e la pelle bianchissima, più candida del latte. Gli occhi erano piccoli e acquosi come i suoi, e sembravano non sapere mai dove posarsi. Nonostante questo Elisa gli strinse calorosamente la mano e gli sorrise. La settimana dopo andavano già a letto insieme.

Era la prima volta che Elisa tradiva Neri.

Purtroppo scoprì che Steve era un amante ancora più noioso del marito. A letto l’aveva messa a cavalcioni sopra di sé e la bloccava in continuazione proprio quando lei avrebbe voluto aumentare il ritmo. “Fermati!”, le diceva, “ti muovi troppo. Così non ce la faccio!”

Elisa si fermava, ansante. Riprendevano per pochi secondi, e di nuovo Steve le bloccava i fianchi.

“Non così, non così!”, le diceva, paonazzo.

“Che devo fare?”

“Non andare su e giù in quel modo, mi fai venire. Ok? Ho solo bisogno di riprendere fiato. Ok?”

Ricominciavano, lui le brancicava i seni pesanti ed Elisa si muoveva al rallentatore. Ma anche quello era troppo per Steve.

Alla fine Elisa neanche capì quando fosse successo. Steve aveva lasciato andare la testa sul cuscino, i riccioli rossi impastati di sudore, e non si lamentava più; evidentemente tutta la faccenda era finita, e lei non si era neanche accorta che lui avesse avuto un orgasmo.

“Tu sei venuta?” le chiese Steve.

Elisa sollevò le natiche dal quel corpo secco e bianchissimo e si sdraiò accanto a lui.

“Sì”, mentì.

“Ok.” Steve allungò una mano per accarezzarla, illanguidito, ed Elisa dovette trattenersi dal ficcargli le unghie nella carne.

 

 

Rientrò a casa e trovò Neri che stava leggendo.

Appoggiò con foga la borsa sul tavolo facendo sobbalzare il marito, poi la svuotò e si mise a frugare rumorosamente tra gli oggetti che gli aveva sparpagliato davanti.

“Che ti succede?”, chiese Neri. Dietro le lenti da miope i suoi occhi azzurri sembravano enormi.

“Vuoi sapere dove sono stata?”

“Dove sei stata?”

“Mi sono vista con Steve.”

“Davvero?”

“Davvero.”

Elisa prese il primo oggetto che le capitò tra le dita e lo strinse con forza.

“ Vuoi sapere che cosa abbiamo fatto insieme?”

“ No. Sono affari tuoi.”

“Sono affari miei?”

“A me pare di sì.”

“E se fossi andata a letto con lui?”

Neri chiuse il giornale e lo ripiegò in quattro. Lo mise da parte, incrociò le mani e ci poggiò sopra il mento fissandola dritto negli occhi.

“Sei andata a letto con lui?”

“No.”

“Bene. Allora mi sembra che il discorso sia chiuso.”

“Bene”, replicò Elisa. “Allora è chiuso.”

 

 

 

La prima volta che rimase incinta fu facile nasconderlo al marito. Si recò in un centro assistenza coppie, dove le assicurarono che avrebbero sbrigato tutta la faccenda in mezza giornata. Niente ospedale con ricovero notturno. Niente rischio, anche se remoto, d’incontrare qualcuno che la conoscesse e potesse riferire a Neri. Il figlio, con ogni probabilità, era di Steve.

Le cacciarono un bigliettino in mano, ben piegato in quattro, e le raccomandarono di non mostrarlo a nessuno. Sopra c’era l’indirizzo del medico che l’avrebbe fatta abortire.

Quindici giorni dopo si recò all’appuntamento. Nella stanza d’ingresso trovò quattro ragazzine che aspettavano ognuna il proprio turno. Una di loro piangeva. Accanto a lei un ragazzo dallo sguardo spaventato si grattava meccanicamente l’orecchio. Come vide Elisa – l’unico adulto lì dentro – la guardò speranzoso, ma lei lo ignorò e si sedette in disparte.

Frugò nella borsetta e ne trasse una rivista. Si concentrò sulla lettura.

I minuti scorrevano soffocanti. La ragazza continuava a singhiozzare, e d’un tratto cacciò un grido. Elisa si alzò di scatto e andò con passo deciso da lei.

“Vuoi un calmante?”, le chiese in tono altrettanto acuto. Frugò con furia nella borsa e ne trasse fuori una boccetta di Valium. La tese alla ragazza. “Quindici gocce saranno sufficienti”, disse scuotendole il flaconcino sotto il naso.

La ragazza aveva smesso di colpo di lamentarsi, e la fissava con gli occhi sgranati.

“Allora?”, insistette Elisa. “Prendile, vedrai che dopo ti sentirai meglio.”

L’altra continuava a tacere e a guardarla frastornata. Elisa sbuffò e tese la boccetta al ragazzo. Questi la prese meccanicamente. “Grazie”, disse. Poi ricominciò a grattarsi l’orecchio.

Elisa guardò la ragazzina e si sforzò di sorriderle. “Vedrai, tra un po’ finirà tutto e tu sarai come nuova.”

La giovane trasalì, e gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime. Prima che riprendesse a frignare, Elisa si allontanò in fretta. Si sedette e tirò fuori un’altra volta la rivista. Non si voltò più verso i ragazzi, ma la piccola doveva aver preso le gocce, perché aveva smesso di piangere.

D’improvviso la porta di una stanza si aprì e un uomo alto dalla carnagione malata guardò verso di loro.

“A chi tocca?”, il tono era infastidito ed Elisa strinse con forza la borsetta. Una delle ragazze si alzò. Dopo un quarto d’ora si alzò la seconda. Passarono più di venti minuti prima che uscisse dalla stanza. La terza entrò esitando, ma per fortuna si sbrigò velocemente. Poi toccò alla frignona. Quando uscì si guardò in giro come una bestia in trappola. Il suo ragazzo corse a sostenerla, poi con lei aggrappata al braccio si avvicinò ad Elisa e le ridiede la boccetta di Valium.

“Grazie”, le disse ancora, ma non la guardò in faccia. Elisa notò che il suo sguardo si era indurito.

Mise via il flaconcino e si alzò. Appena entrata vide il lettino con il lenzuolo sporco di sangue e contrasse le labbra in una smorfia. Il medico ebbe un gesto di stizza. “Non ho tempo da perdere”, le disse di malumore. “Levati le mutande e sdraiati sul lettino. Ce li hai i soldi?”. Sembrò riflettere perché improvvisamente cambiò tono: “Mica vorrai ripensarci?”

Lei gli diede la busta. Il dottore ne controllò il contenuto, poi se la ficcò velocemente in tasca. Indossava un camice color smeraldo, che gli velava la pelle di tonalità grigiastre. Elisa non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. “Sbrigati!”, le disse l’uomo. Cambiò in fretta il lenzuolo e batté la mano sul lettino. Lei si tolse le mutande e ci si distese sopra. L’altro le ordinò di piegare le gambe e di divaricarle. Elisa ubbidì e chiuse gli occhi. Subito dopo sentì qualcosa risalirle in vagina.

“Cos’è?”, chiese spaventata.

“Stai tranquilla, non ti agitare o ci mettiamo più tempo”, rispose brusco il dottore. Poi aggiunse: “E’ una cannula. Adesso aspiriamo via l’embrione. Fra un po’ sarà tutto finito.”

Elisa pensò di chiedergli, Perché non mi fa l’anestesia?, ma non ne ebbe il tempo. Un dolore acuto, improvviso e terribile, le tolse il respiro. Le sembrò che qualcuno le stesse lacerando le viscere con un coltello. Gliele stava strappando via con forza. Urlò con tutto il fiato che aveva.

“Stai ferma!”, le gridò il dottore. Lei cercò di sottrarsi alla sofferenza della cannula ma lui le bloccò le gambe.

“Ferma, Cristo! Sei l’unica che stia facendo tante storie!”

Nonostante il male, Elisa provò un confuso senso di vergogna. D’un tratto sentì il sangue uscirle. Era un flusso abbondante, più di quello mestruale. Lei pensò che stava per morire e che Neri avrebbe saputo comunque del bambino. A questo punto il dottore le disse ch’era tutto finito.

Elisa si drizzò a fatica. Guardò intontita il lenzuolino sporco di sangue.

“E’ andato tutto bene, stai tranquilla”; le disse il medico in modo sgarbato. ”Rivestiti e aspettami di là con le altre.”

“Ne perdo tanto”, obbiettò lei.

“E’ normale, non ti preoccupare. Fra un po’ passa. Adesso vattene.”

“Mi dia almeno un assorbente!”, strillò allora Elisa. Se quel macellaio continuava a trattarla male, lo avrebbe denunciato. A costo di passare a sua volta dei guai.

Il medico s’irrigidì e la guardò con astio. Poi le disse: “Aspetta”. Aprì tre o quattro cassetti e finalmente trovò un pacco di assorbenti.

“Sei fortunata. Di solito ne siamo sprovvisti.” Glieli porse con una gentilezza eccessiva. “Questa non è una farmacia. Dovevi pensarci da sola a portartene uno.”

Elisa prese un pannolino e l’uomo ostentò un sorriso. Quel bastardo doveva aver capito che lei sapeva. Al centro assistenza coppie s’era fermata a parlare con un’impiegata e questa le aveva confidato che quel medico praticava l’aborto solo a pagamento, mentre in ospedale sfoggiava la coscienza immacolata dell’obbiettore.

Si sistemò alla meglio ed uscì dalla stanza senza salutare. Le altre stavano aspettando  in corridoio. Il dottore le raggiunse quasi subito. Si mise le mani in tasca e le guardò. “Fra dieci giorni tornate al centro coppie”, disse, “lì la ginecologa vi farà un controllo.”   Levò le mani di tasca e indicò la porta. “Adesso uscite e dimenticate la mia faccia, come io ho già dimenticato la vostra.”

Voltò le spalle e rientrò nella stanza. Elisa ebbe la sensazione che stesse armeggiando con la chiave nella serratura.

Uscì e si accorse del cielo. Era azzurro e trasparente, una giornata bellissima per essere inverno. Si sedette con cautela su una panchina. Le ossa le dolevano come se qualcuno gliele avesse frantumate ad una ad una, ma il dolore al ventre era quello che più la faceva star male.

Ci mise sopra una mano, comprimendolo, poi scese verso l’attaccatura del pube. Chissà in che punto dell’utero si trovava prima l’embrione.

Girò il polso verso l’alto, distendendo la mano. Ecco, l’utero doveva misurare più o meno così. E l’embrione… , l’embrione era forse lungo come il suo mignolo.

Si osservò il dito. Era gonfio e rosso per il freddo. Nascose la mano sotto il cappotto e con l’altra riprese a massaggiarsi il ventre, guardandosi attorno.

In strada c’era uno strano silenzio, dovuto all’ora pomeridiana. Un vecchio sulla panchina di fronte gettava pezzi di pane ai passeri. Il cielo continuava a incombere col suo azzurro terso.

Elisa osservò gli uccellini. Avanzavano cauti in direzione dell’uomo. Uno, più audace, si spinse a prenderne il pane dalle mani, poi volò via tenendo il boccone nel becco semiaperto. A Elisa parve di vederne l’occhio sbarrato osservarla durante la fuga.

Troppo piccolo per essere un passero. Forse uno scricciolo.

Lungo appena un mignolo.

 

Nel sogno Elisa bussava alla porta dello studio di Neri per dirgli ch’era incinta, e che questa volta il figlio era suo.

La casa era una baracca fatiscente, la muffa sui muri si era allargata dagli angoli sino al soffitto, formando uno strato omogeneo di colore verdastro. Le assi della porta erano marcite e sconnesse.

La porta si aprì di colpo e ne uscì il Diavolo. L’afferrò alla gola e la tenne stretta. “Non ti permetterò mai di liberarti di me”, le bisbigliò, e lei riconobbe la voce di Neri.

Si svegliò gemendo. Distinse il letto, la stanza, e il russare leggero del marito. Neri dormiva come di consueto a bocca aperta, nella penombra riusciva a intravedere il bagliore metallico delle sue numerose otturazioni.

La barba si sollevava ed abbassava ad ogni respiro.

Elisa si alzò con cautela e andò in cucina. Aprì un cassetto e prese le forbici che usava per trinciare la carne, e con quelle in mano tornò in camera. Si chinò sul marito e gliele avvicinò alla gola, poi con la mano libera gli sollevò delicatamente la barba. Il pomo di lui era visibile nell’oscurità, repellente come un’escrescenza tumorale.

Ha bisogno di un’aggiustatina, pensò Elisa.

Quasi in risposta al suo pensiero lui aprì gli occhi e la guardò intontito.

“Dormi tesoro”, gli sussurrò lei, “va tutto bene. Dormi.”

Neri mugugnò qualcosa e si riaddormentò.

Ora! disse Elisa, e con un colpo netto gli tranciò via la cartilagine.

Il sangue sprizzò subito, leggero e caldo, e Neri lanciò un urlo terribile.

Elisa si svegliò, terrorizzata. Guardò Neri: aveva gli occhi chiusi e dormiva profondamente. D’istinto gli sollevò la barba: la gola era intatta, la cartilagine al suo posto, prominente e legnosa.

Si sdraiò pensando che non si sarebbe più riaddormentata, e invece sprofondò di nuovo nel sonno.

L’incubo ricominciò, sempre dallo stesso punto, inesorabile.

Si riaddormentò e si svegliò parecchie volte, entrando ed uscendo continuamente dallo stesso sogno; smaniava per liberarsene, ma Neri non voleva lasciarla andare.

 

Mi stringeva alla gola, mi tratteneva la testa contro la sua, bisbigliava, vedevo le sue dita magre premere contro la mia carotide.

Mi sono svegliata in un bagno di sudore e ho guardato Neri.

Dorme, tranquillo.

Cerco di controllare il respiro, prima in pancia, poi nel petto poi nella gola, poi butto fuori l’aria adagio, pancia petto gola, poi di nuovo, tre, quattro volte, finché il battito del mio cuore si normalizza. Lo guardo di nuovo.

Non ho speranza. Finché ci sarà lui non avrò nessuna speranza. Sono niente nelle sue mani. La sua moglie pupattola. Non mi permette mai di contrariarlo. Non parla, non grida. Lascia solo cadere dall’alto il suo disappunto, mi ci avvolge come in un sudario, mi osserva mentre mi dibatto in trappola.

Dove sono le forbici? Quelle che tagliano anche le ossa… In cucina, sono in cucina. Eccole! Qui, nel cassetto. Guarda come tagliano bene. Zac!

Piano piano, dolce Elisa. Chi diceva una frase simile? Forse era in un film. Oh sì, era in un film, e la protagonista era matta. Matta da legare. Cotta al punto giusto, come la sottoscritta.

Ecco, sono vicina a te, amore mio. Dormi caro, dormi. Russi piano, con discrezione. Sei un tipo educato, mi lasciavi scopare con Steve e facevi finta di niente.

Guardati, hai la bocca aperta… Non sai che solo i bambini inteneriscono quando dormono così? Tu invece fai schifo. Sei diventato un vecchio penoso, un omino rinsecchito, pieno di forfora che semini dappertutto. Anche da quella tua maledetta barba.

Non la sopporto più.

Piano, piano, dolce Elisa. Sollevala adagio. Che schifo il suo pomo d’Adamo! Ha bisogno di un’aggiustatina.

Ecco. Un colpo netto.

Così!

 

Neri emise un gemito e si svegliò. Vide Elisa con le forbici in mano, poi vide la matassa di peli. D’istinto si toccò la barba. Al suo posto trovò la stoffa leggera del pigiama. Guardò Elisa, incredulo.

“Non la sopportavo più”, gli disse lei e gli allungò dolcemente la barba, come per offrirgliela. Lui guardò intontito il groviglio di peli poi si ritrasse lentamente contro lo schienale del letto.

“Tu stai dando i numeri. Metti giù quelle forbici!”

“No.”

“Mettile giù, fai la brava.”

“No. Non voglio.”

“Sei stanca. Hai bisogno di dormire. Metti via quelle forbici e vieni a letto.”

“Non voglio venire a letto e non voglio darti le forbici.”

“Ti stai comportando come una bambina.”

“Sono una bambina. E’ sempre stato così. Hai sempre deciso tu per me. Tu, dolce paparino.”

Neri rifletté, poi con un agile saltello scese dal letto e le si mise davanti.

“Hai visto il tuo paparino com’è ancora in gamba? Dai tesoro, finiamola. Dammi quelle forbici.”

“Te lo puoi scordare.”

“Sono così importanti per te?”

“Non cercare d’infinocchiarmi con le tue strategie da psicologo del cazzo. Non sono stupida!”

“Ok. Non sei stupida. Tienile pure, se vuoi.”

Rimasero entrambi in silenzio a guardare le forbici.

“Che ti ho fatto di tanto terribile?” le chiese d’un tratto Neri.

“Niente. Sei come un cancro. Mi hai invasa, lentamente, ed ora non posso più estirparti.”

Neri impallidì. Fece un passo in avanti e lei gli puntò contro le forbici.

“Non mi toccare. Non te lo permetterò. Sono gravida”.

“Come?”

“Sono gravida. Aspetto un bambino.”

Lui continuò a non capire.

“Un bambino?”

“Un bambino, un bebè, un pupattolo, un figlio.”

Neri si guardò attorno alla ricerca degli occhiali. Li trovò sul comodino.

“Un figlio… “, ripeté.

“Esatto. Un figlio.”

“E’ mio?”

Le labbra gli tremarono ed Elisa distolse gli occhi, guardando un punto del muro  vicino all’armadio, dove c’era una piccola crepa.

“Sì”, rispose.

“Da quando sei incinta?”

“Due mesi.”

Neri sorrise. “E’ meraviglioso.”

“Che cosa?”

“Il bambino. E’meraviglioso che nella tua pancia ci sia un bambino.” Sorrise ancora.

“Stai scherzando?”

“No. Sono felice.”

“Mi spiace, ma non ho nessuna intenzione di tenerlo.”

Aspettò un attimo prima di proseguire: “Non ti ho mai raccontato di volere un bambino.”

Neri tacque. Si accarezzò distrattamente quello che rimaneva della barba.

“Potresti anche cambiare idea… mi piacerebbe provare ad essere papà…  ”

“Con me te lo puoi scordare”, rispose lei. Nel tono ci mise tutta la ferocia di cui era capace.

Neri trasalì. “Mi odi così tanto?… “.

“Sì”, disse ancora lei.

Le ciglia rade di Neri tremarono ed Elisa capì che stava per piangere.

“Vuoi che ci lasciamo?”

“Non m’interessa. Decidi tu.”

“Io ho deciso. Non voglio.“

Elisa non disse niente e lui puntò il mento in direzione della sua pancia.

“Quando è che… ?”

“L’intervento è tra quindici giorni.”

“Dove?”

“Al Buzzi.”

“Bene. Se ti fa piacere ti accompagnerò.”

“Mi fa piacere.”

Sembrò voler aggiungere qualcosa, poi chinò il capo e uscì dalla stanza. Lei notò il passo che sbandava, il collo rigido, la nuca di pulcino bagnato ormai completamente grigia.

Allungò la mano per richiamarlo, ma poi la lasciò cadere lungo il fianco e guardò altrove.

 

 

Nei giorni che precedettero l’intervento, Elisa perdeva spesso le cose, diventava matta a cercarle e poi le ritrovava nei posti più impensabili, magari nel ripiano più alto dello sgabuzzino, dove era impossibile metterle senza l’aiuto di una sedia. Un mattino, mentre guidava la macchina, aveva rischiato di investire un vecchietto che attraversava le strisce pedonali. L’uomo aveva reagito insultandola ferocemente, e lei era scoppiata a piangere come una bambina.

Tre giorni prima del ricovero in ospedale, Neri le propose un’escursione in montagna.

Negli ultimi anni si era rifiutata spesso di accompagnarlo. Un tempo era stata amante della montagna, ma da quando aveva capito che era l’unico svago certo della sua vita – l’unico che Neri le avrebbe mai proposto –  aveva incominciato a detestarla. Quel giorno invece accettò.

Partirono presto, parcheggiarono la macchina nello spiazzo davanti al piccolo chalet di loro proprietà e iniziarono a salire. Dopo due ore si lasciarono alle spalle la fitta vegetazione della boscaglia e le vaste zone d’ombra. Il sentiero divenne ripido e in alcuni tratti dovettero arrampicarsi.

Neri la precedeva, instancabile. Lei fissava la sua nuca grigia e non si lasciava distanziare.

Ogni tanto Neri si girava a guardarla, e le tendeva la borraccia d’acqua.

“Stanca?”

“No. Tutto bene.”

“Se sei stanca torniamo indietro.”

“No. Posso salire sino al rifugio senza fermarmi.”

“Sei sempre stata la compagna ideale”, le disse ad un tratto.

“Perché sono una camminatrice?”

“No. Per tutto.”

Elisa gli regalò una smorfia.

Il sentiero scomparve di colpo in mezzo alle rocce, per poi ripresentarsi, a brevi tratti, qualche metro più in alto. Il dislivello era notevole. Per procedere avrebbero dovuto aggrapparsi alle sporgenze dei massi.

Neri la guardò.

“Ce la fai?”

“Di che ti preoccupi, non è la prima volta che imito gli stambecchi!”

“Al minimo problema torniamo”, ribatté lui.

I primi due metri Elisa li superò agevolmente, poi cominciò a sentire l’affanno.

D’improvviso un grosso masso le bloccò la visuale. Vide che Neri era già passato e si sporgeva tendendole il braccio.

Scosse la testa.

“Faccio da sola, è meglio.” Afferrò lo spuntone della roccia, ma la presa si rivelò inaspettatamente scivolosa. Sentì che le sfuggiva dalle mani, poi vide il cielo ribaltarsi nei propri occhi.  Cadde all’indietro, senza un grido.

“Tutto bene?”, le gridò Neri spaventato.

“Tutto bene, solo una piccola botta al sedere!”

Si rialzò a fatica e si accorse di tenere entrambe le mani sul ventre. Guardò Neri e arrossì.

Lui le tese le braccia e lei si lasciò sollevare adagio, senza strattoni. Si ritrovò aggrappata al suo petto senza neanche accorgersene, e piangeva come non le capitava da anni.

 

 

Quella notte Elisa sognò il bambino. Era morbido, una pagnottella da addentare. Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri di Neri.

Lei lo teneva saldamente in braccio ma il piccolo cercava di liberarsi. Urlava sbattendo avanti e indietro la testa contro il suo petto e intanto la tempestava di piccoli pugni. Lei notò il lampo incattivito dei suoi grandi occhi azzurri.

Si svegliò. Abbassò il capo e guardò in giù, cercando d’individuare la posizione dell’utero. Lui era lì dentro. Silenzioso. Aspettava una sua decisione.

Perdonami, gli disse Elisa.

Si prese il viso tra le mani.

Pianse e pianse.

 

 

Il mattino dopo si alzò presto. Sin dalle sette e mezzo cominciò a comporre il numero dell’ospedale, ma dovette provare più di un’ora prima che qualcuno le rispondesse. Neri nel frattempo si era preparato ed era uscito per andare a scuola. Le aveva dato un bacio sulla nuca e le aveva sorriso. Si erano lasciati così, con quel piccolo sorriso felice.

Quando la voce dall’altro capo del filo disse “pronto”, a Elisa il cuore batté più forte.

“Volevo disdire un appuntamento per domani”, comunicò all’impiegata.

Mise giù la cornetta, ancora incredula della decisione che aveva preso. Si eccitò al pensiero di come avrebbe reagito Neri alla notizia, e alle mille parole diverse con cui avrebbe potuto dargliela.

Guardò l’orologio a muro. Erano quasi le undici. Decise di preparare qualcosa di speciale. Aprì il frigorifero e ne osservò il contenuto. C’erano poche cose, avrebbe dovuto uscire per fare la spesa. Spalancò il reparto dei surgelati e con sollievo vide dei tranci di persico. Aprì la confezione e mise il pesce a scongelare sul davanzale della finestra. In quel mentre gettò un’occhiata in cortile.

C’era una gatta distesa ai piedi del grande salice. Aveva con sé la sua cucciolata, e stava lavando i figli con i colpi decisi della piccola lingua.

D’un tratto, da dietro l’angolo di una palazzina, apparve un cagnetto. Come vide la gatta le si lanciò contro abbaiando; lei rizzò il pelo gonfiandosi come una palla. Con un guizzo inaspettato il cane deviò sui cuccioli. La gatta spiccò il balzo e gli si aggrappò sul dorso, ma lui riuscì ugualmente ad afferrare un gattino. Elisa gli vide un batuffolo bianco tra i denti, poi lo vide scrollare più volte la testa e sballottare il cucciolo con violenza. La gatta era sempre aggrappata alla sua schiena, ma lui non mollava. Alla fine con un guaito tremendo lasciò cadere a terra il piccolo e fuggì. La gatta lo inseguì come un fulmine. Il cane corse fino al cancello che dava sulla strada e con un salto cercò di passare attraverso le sbarre, ma vi rimase incastrato. Le zampe posteriori si agitarono frenetiche nello sforzo di liberarsi. La gatta gli fu addosso. Ci fu un altro guaito, poi una serie di uggiolii disperati.

Un passante accorse. Assestò un potente calcio alla gatta, scaraventandola qualche metro lontano, poi si chinò per liberare il cane.

La gatta rimase a guardare per qualche istante la scena. Infine ritornò dai suoi cuccioli. Prese in bocca il micio morto e lo depose vicino agli altri. Poi si mise a leccarlo.

Elisa rientrò in cucina e si occupò nuovamente del pranzo. Pelò le patate e sciacquò a lungo un cespo d’insalata.

Prese in mano il persico: era ancora rigido come un pezzo di ghiaccio. Lo ripose sul davanzale e andò in bagno. Si guardò allo specchio. La sua faccia era più slavata del solito. Si accorse di stare tremando e cercò di scacciare l’immagine del gattino morto.

Sollevò l’asse del water. Il giorno prima l’aveva pulito di fino, ed ora la ceramica bianca risplendeva nella luce tersa che entrava dalla finestra. Tutta quella pulizia la tranquillizzò. Si sedette.

Avvertì subito la massa uscire insieme alla pipì. Morbida, più consistente dell’urina. Si alzò a fatica e guardò nel water. La pozza del sanitario era piena di sangue.

Si appoggiò al muro per qualche istante. D’un tratto corse in cucina, infilò un guanto di gomma e tornò in bagno. Allungò la mano nel water, chiudendo gli occhi.

Lo sentì subito. Un ammasso molliccio tra le dita. Lo tirò su con cautela, aprì il rubinetto e lo mise sotto l’acqua.

Per prima cosa gli vide gli occhi, due protuberanze sottili come antenne che puntavano verso di lei.

Poi la testa, piccola e rotonda. Attaccato c’era quello che doveva essere il corpo. Era più cicciotello del suo indice, e alla base si sfilacciava in tante frange di carne chiara. Il tutto raggiungeva a malapena i dieci centimetri.

Elisa lo mise sul palmo della mano e lo mosse appena. L’embrione rimase immobile. Allora lo accarezzò con cautela.

Continuò per un po’, poi andò in cucina e prese un sacchetto di cellophane. Lo mise dentro e chiuse il sacchetto con un elastico.

Cominciò a camminare avanti e indietro per la casa, senza pensare a niente di preciso. Quando le veniva in mente suo figlio si metteva a spostare oggetti, a raddrizzare un quadro o a sollevare uno straccio dimenticato per terra.

Ogni tanto si diceva che avrebbe dovuto andare in ospedale per una visita di  controllo, e portarlo con sé. I dottori avrebbero voluto vederlo. L’avrebbero esaminato e poi buttato via. Lei non si sentiva male. Avvertiva solo uno strano vuoto in fondo alla pancia, come se qualcuno ci fosse entrato con tutto il braccio e ne avesse asportato un pezzo. Per un attimo pensò di aspettare Neri e di farsi accompagnare in ospedale, ma poi vide il sacchetto rigonfio e cambiò idea.

Alla fine lo sollevò con delicatezza, prese la borsa, lo mise dentro, poi uscì. La sua macchina era parcheggiata appena fuori dalla portineria. Salì sull’auto, estrasse l’embrione dalla borsa e lo adagiò sul sedile accanto a sé. Girò la chiave del motorino d’avviamento. La cinquecento, dopo qualche rumore andato a vuoto, si decise a partire.

Per strada non c’era molto traffico. Milano stava ancora sonnecchiando nel caldo estivo.

Ogni tanto Elisa gettava un’occhiata al figlio. Non ne vedeva la testa. Probabilmente era sotto, schiacciata contro il sedile.

“Spero che tu non abbia sofferto”, gli disse a voce alta. “Perdonami”, aggiunse poi.

Sollevò il piede dall’acceleratore e rallentò. L’ospedale era ancora lontano.

Si mise a guidare con estrema lentezza, per prolungare il più possibile il momento del distacco.

 

 

 

 

 

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