Trumò: s.m. – Adattamento ital. del fr. trumeau, tipo di mobile soprattutto diffuso nel sec. 18°, costituito da un cassettone con una parte superiore alta, chiusa generalm. da due sportelli, spesso a vetri o a specchi, e un piano ribaltabile a metà, all’interno del quale si trovano nicchie e cassettini. (fonte: Dizionario Treccani)
Quanti e quali segreti, gelosi ricordi, custodisce una casa in cui per cinquant’anni ha vissuto sempre la stessa famiglia?
“Non lo sapremo mai”, pensò Luigi mentre metteva la chiave nella toppa dell’appartamento in cui avevano vissuto i suoi nonni per mezzo secolo. Era una fredda mattina invernale, la tramontana stendeva la luce su tutto il paese e, sul fondo, il mare era una lastra azzurra che luccicava sotto i raggi del sole. Le facciate delle case fronte mare rilucevano nei loro colori pastello e in qualche modo proteggevano i pochi passanti sulla via Aurelia. Tutta la Liguria si stendeva come un arco teso prima che si scocchi una freccia e nell’orizzonte di un Levante lontano si potevano intuire le sagome delle Alpi Apuane. Il carruggio in cui si affacciava l’unico balcone del trilocale con cucina abitabile era, però, ancora intriso dell’umidità notturna. Così stretto che solo a mezzogiorno avrebbe visto la luce calda del sole, si limitava a incanalare il gelido vento del nord e a farlo fischiare.
Luigi attraversò l’ingresso e aprì le persiane di tutte le finestre, lasciando che la luce entrasse nell’appartamento, ormai vuoto da poco più di un mese, da quando cioè suo nonno Luigi era stato ricoverato all’ospedale San Martino di Genova. Posò la focaccia che si era comprato al forno di fronte alla stazione del treno sul grande tavolo della cucina. Frugò nel frigo e vi trovò un pacchetto di caffè aperto: riempì la chicchera della moka e mise la caffettiera sul fuoco. Nell’attesa andò nella vecchia camera da letto dei nonni.
Si sedette sul letto e guardò fisso il mobile a cassettone con specchiera che aveva di fronte: il trumò. Il pianale ricoperto di fotografie: il matrimonio dei nonni Luigi e Rita, nel 1968; suo padre da bambino, sdentato, che stringe tra le mani un vecchio pallone scucito; le sue tre zie in posa un primo giorno di scuola degli anni ‘70; sua nonna il giorno in cui compì 50 anni e la prima foto a colori, quando le tinte non erano ancora perfette e le atmosfere avevano tutte tonalità pastello. Vide se stesso appena nato, in una istantanea della metà degli anni ‘90, con quei colori lucidi e squillanti. I ricordi si succedevano nelle fotografie fino a interrompersi bruscamente con l’ottantesimo compleanno del nonno, l’ultimo con la nonna ancora in vita. Da quell’istante il tempo su quel pianale sembrava essersi fermato, come a dire che non c’era più nulla da ricordare.
Si alzò in piedi e si specchiò in attesa di trovare il coraggio di aprire il primo cassetto di quel mobile quasi sacro, l’unico a detta di suo padre che non era mai stato cambiato nel corso degli anni. Era stato portato in casa tre giorni prima del matrimonio dei nonni, quando si stava preparando l’appartamento ad accogliere una nuova famiglia. Luigi sapeva che nei fondi del trumò della camera matrimoniale si nascondevano scontrini, appunti, quaderni, documenti, contratti di lavoro e fotografie, quelle che per pudore non si erano esibite sul pianale dello stesso mobile, come se quell’istante congelato nel tempo fosse qualcosa di talmente intimo da tenere nascosto all’occhio estraneo. Il trumò trasudava vita vissuta, per cinquant’anni aveva visto dormire proprio di fronte a lui la
stessa coppia: è stato, poi, testimone del concepimento di quattro figli, dei capricci di cinque nipoti e delle dormite di sei gatti. Nella stanza dove era sistemato da sempre, si era fatto l’amore e si aveva furiosamente litigato; c’era stato il tempo della gioia e quello del pianto per un lutto, o per la disperazione di un lavoro andato in fumo. Ci si era sentiti sicuri, in quella stanza: un rifugio dalle paure del divenire, dall’incertezza del futuro; non solo proprio di chi la abitava, ma anche dei suoi figli e dei suoi nipoti.
E adesso, quella stanza, quella casa e quel trumò erano vuoti. Non di cose, ma di chi li aveva vissuti.
A Luigi era toccato il compito forse più duro in quella vicenda. Un compito assegnatogli dal nonno che aveva portato il suo stesso nome per ottantatré anni.
Tutto era successo una settimana prima, due giorni prima che lasciasse il mondo terreno. Erano soli, in ospedale. Il nonno steso sul letto, dimagrito e quasi impercettibile sotto la montagna di coperte che lo tenevano al caldo. Luigi, ventidue anni, era seduto al suo capezzale; alle sue spalle una grande finestra dalla quale entrava la luce del giorno, scalfita dai fiocchi di neve che cadevano senza fretta.
-Spostati un po’ più a destra, figliolo.-, disse il nonno con un filo di voce -. Voglio veder nevicare sul mare, il porto che si imbianca e la città che si addormenta nel silenzio d’ovatta della neve.
-D’accordo.-, e si spostò quel tanto da lasciar libera la visuale.
-Apri la finestra, Luigi.
-Ma nonno, io….
-Fai come t’ho detto, belin!-, disse brusco l’uomo con un residuo d’energia. -Va bene, non ti agitare.
Luigi si alzò e aprì la finestra; il nonno lo richiamò a sé. -Dimmi.
-Guarda, Genova. Vedi il campanile di San Lorenzo? -Sì, lo vedo.
-Ecco, lì a destra c’è via di Scurreria, che se la scendi arrivi a Campetto. Proprio lì, un giorno mentre passeggiavo senza meta, vidi per la prima volta tua nonna, Rita. Era seduta sul gradino del barchile, le gambe fasciate da una bella gonna lunga e una camicetta che scopriva il giusto da lasciare molto spazio all’immaginazione. Ma non fu quello che mi colpì, sai? Furono i suoi occhi grandi, azzurri, e l’espressione curiosa del suo viso mentre leggeva.
-Cosa stava leggendo?
Il nonno fece segno al nipote di aprire il cassetto del comodino. Dentro c’era una vecchia copia di Penelope alla guerra, di Oriana Fallaci.
-La Fallaci?
-Sì, proprio lei. Non deve sorprenderti, erano gli anni ‘60 e lei era un simbolo per tutte le donne che giustamente aspiravano alla definitiva emancipazione. E la mia Rita, tua nonna, era una donna davvero forte e indipendente…-, sospirò malinconico, per poi riprendersi di colpo -. Devi promettermi una cosa, nipote.
-Certo, nonno?
-Sarai tu a svuotare la casa, questo lo sai. Fallo come e quando vuoi. Ma devo chiederti una cosa, un favore. Quando sarai lì, fai in modo d’avere il tempo di svuotare i primi due cassetti del trumò: sono pieni di scartoffie e fotografie, alla rinfusa. Leggi tutto, osserva e
studia le foto. Poi riordinale, raccoglile in modo che abbiano un senso. Ti stai laureando in lettere, sei un filologo, come me. So che puoi farlo bene. Quello sarà il grande romanzo della nostra famiglia.
-Certo, nonno, lo farò con piacere.
-Figliolo, non sarà facile. Lo sai, vero?
-Lo so bene, nonno.
-Bene, ora chiudi, prendi il libro e leggi un po’ per me.
Luigi si alzò, serrò bene la finestra e si sedette di nuovo vicino al letto dove risposava il
nonno. Prese la copia di Penelope alla guerra che giaceva sul comodino e iniziò a leggere, la voce scalfita dalla commozione.
Luigi guardò una foto del nonno alla sua stessa età, in bianco e nero, sul pianale del trumò. Non si somigliavano affatto fuori, ma erano fatti della stessa pasta dentro. Forse per questo dei quattro figli e cinque nipoti lui era l’unico che aveva deciso di studiare lettere e di seguire le sue orme.
Aprì il primo cassetto, lentamente lo estrasse dal mobile e lo portò in cucina. Lo riversò sul tavolo, si sedette sulla vecchia cassapanca dove suo nonno era solito leggere il giornale. Si versò il caffè che nel frattempo era uscito e si era bruciato. Con le mani unte di focaccia, nel silenzio più totale del piccolo appartamento, iniziò a scartabellare tra foto, documenti, lettere, biglietti aerei. Dopo pochi minuti, cominciò a prendere appunti su un quaderno, poi finì il quaderno e andò a cercare la vecchia macchina da scrivere del nonno. Confrontava i documenti e batteva a macchina. Finì l’inchiostro e la carta, allora andò a prendere il suo computer portatile e proseguì l’opera. Andò avanti giorni, mesi, anni, nei ritagli di tempo, da laureato, durante il dottorato, quando ormai era diventato professore di italiano al Liceo Classico. A chi gli chiedeva cosa facesse tutte le notti e i fine settimana in quel piccolo appartamento in un vicolo buio della Riviera di Ponente, lui rispondeva che era impegnato nell’opera più importante nella vita di un uomo: scrivere il grande romanzo della sua famiglia.