“Il velo” di Cynthia Collu


 

Maria si guardò velocemente in giro; i due uomini le erano arrivati ormai alle spalle. Non aveva dubbi: ce l’avevano con lei. Li aveva visti uscire dal bar pochi minuti prima, osservarla e poi affrettare il passo. Per strada c’erano poche persone ma almeno, se avesse urlato, qualcuno avrebbe potuto aiutarla.
Si spostò verso il marciapiedi, pronta a scattare e ad attraversarlo di corsa. Allo stesso tempo cercò di rallentare i movimenti, non voleva sembrare spaventata, dare ai due l’impressione di considerarsi già una preda. Era buio, e i pochi lampioni illuminavano a tratti la via di una luce gialla, malata. Maria respirò a fondo.
Tranquilla, devo stare tranquilla!
Pochi mesi prima una donna era stata violentata appena due strade più avanti. Un uomo l’aveva presa e trascinata in un vicolo cieco vicino al parco, e lì l’aveva picchiata a sangue. Poi aveva abusato di lei. Era scappato portandosi via la borsetta della donna, che era rimasta per più di un’ora in stato confusionale prima che qualcuno la trovasse.
“Era un nordafricano”, avrebbe detto successivamente la donna alla polizia.
Maria rabbrividì al pensiero che quello potesse capitare anche a lei. Guardò la strada. Dall’altro lato c’era un negozio di alimentari con la saracinesca semi abbassata. Ancora qualche metro e avrebbe attraversato di corsa, cercando di raggiungerlo.
Il rumore dei passi dietro di lei si fece più forte. Toc toc, battevano le suole sull’asfalto, toc toc, un frastuono che le si ripercuoteva nel cervello, toc toc, stanno per raggiungermi, toc toc, mi sono addosso, corri, corri! Ora!
Non fece in tempo a scattare. Un’ombra le passò di fianco, veloce, e la sorpassò. L’altra figura la sorpassò dall’altro lato. Maria fu invasa da un’ondata scura di terrore che le tolse il respiro. Rimase immobile, aspettando di sentire quelle mani su di lei.
“Ciao Maria”. La voce dell’uomo era dolce, quasi intimidita.
Maria alzò a fatica gli occhi. Davanti a sé vide Mohamed; le stava mostrando dei libri e le sorrideva. “Mi era sembrato che fossi tu. Ho dovuto quasi correre per raggiungerti. Nawal mi ha dato questi da consegnarti.”
Allungò di nuovo la mano verso di lei, in attesa che li prendesse.
Il cuore di Maria fece una capriola, poi riprese a batterle dolorosamente, sempre più adagio.
“Che libri?”, disse. Ancora non capiva. Si vergognava terribilmente per non averlo riconosciuto subito, ma da lontano i nordafricani le sembravano tutti uguali. Diede un’occhiata ai volumi: era la Trilogia del Cairo, di Mahfuz.
“Ah, sì, me li doveva prestare Nawal, è vero!… grazie. Grazie!”
Prese i volumi dalle mani del ragazzo e lo ringraziò di nuovo, tenendo gli occhi bassi.
Adesso ricordava: quella mattina Nawal le aveva detto che glieli avrebbe fatti avere tramite il fratello.
Maria lo guardò, poi fissò l’altro fratello di Nawal, un bel ragazzo alto e longilineo, di cui non ricordava il nome.
Questi l’osservava dritto negli occhi, serio.
“Grazie”, disse Maria anche a lui. Chissà perché si sentiva in dovere di ringraziare in continuazione.
Forse avrebbe dovuto scusarsi con loro per quello che aveva pensato potessero farle. Invece no, desiderava solo ringraziarli, e poi ancora ringraziarli per non averle fatto del male.
Perché la strada era buia, loro due erano marocchini, e lei solo una povera ragazza spaventata di diciassette anni.

“Questo palazzo si sta riempiendo di negri. Negri e cinesi!”, le aveva detto sua madre il giorno che si era saputo della donna violentata. Era appena rientrata dalla spesa e aveva appoggiato rumorosamente le borse per terra.
“Di questo passo diventeremo l’unica famiglia bianca che vive qui dentro”, aveva aggiunto con stizza. “Ci mancava pure che s’installassero dei negri sotto di noi!”
“Che cos’hai contro i neri? E poi gli arabi non sono negri”, le aveva risposto Maria. Non voleva che la madre offendesse nessuno, nero o bianco che fosse.
La madre aveva tirato un calcio a un barattolo di pelati che faceva capolino dalla sporta della spesa. Il barattolo era rotolato sotto il divano, e la madre aveva imprecato.
“Gli arabi sono peggio dei negri! Gentaglia pronta a tagliarti la gola non appena ne ha l’occasione. Spacciano droga e violentano le bianche, perché per loro le bianche, carina, sono tutte puttane! Sarà una coincidenza, ma arrivano questi qui nel nostro quartiere e una settimana dopo un arabo violenta quella poveretta.”
Maria non aveva ribattuto. Aveva pensato agli occhi umidi della ragazza col velo azzurro che incontrava ogni mattina sulle scale, e che le sorrideva senza rivolgerle la parola. Chissà se anche lei la considerava una puttana.
Non ci credeva. Non potevano esserci pensieri sporchi in quel viso dolce e rassegnato.

Nawal era venuta qualche mese prima ad abitare con la famiglia nell’appartamento sotto di lei. La prima volta che si erano incontrate era stato sulle scale.
Maria aveva notato subito il velo, d’un azzurro intenso. Il viso, piccolo e gentile, era incorniciato dal foulard; le era sembrato d’una bellezza incredibile, un piccolo cammeo impresso su un turchese. Gli occhi scuri, palpitanti nella penombra come quelli di una bestiola in fuga, la guardavano intimidita.
Si erano sorrise, poi Nawal aveva distolto gli occhi.
Da quel mattino, ogni giorno alla stessa ora, si erano incrociate sulle scale. Un cenno del capo, e si sorridevano.
A Maria sarebbe piaciuto fermarsi e chiacchierare lungo. Le sarebbe piaciuto chiederle del velo. Era la prima musulmana alla quale desiderava chiedere qualcosa. Li aveva sempre considerati, i musulmani, come un mondo a sé stante. Non la infastidivano ma non avevano niente da spartire con lei. Scivolavano semplicemente via dalla sua vita, silenziosi, nel momento stesso in cui ne entravano a far parte.
Un mattino fu Nawal a decidersi. “Ciao, io sono Nawal”, le disse.
Cominciarono a parlare, Maria in fretta e l’altra con lunghe pause, come se entrambe avessero tenuto in serbo quel momento prezioso. Nawal era diplomata e faceva i turni di notte in una fabbrica di scatoloni per imballaggio; amava moltissimo leggere, come lei. E leggeva in italiano. “L’ho studiato prima di venire a vivere qui”, le disse.
“Lo parli benissimo. Se ti fa piacere ti presto dei romanzi”, le propose Maria.
Gli occhi di Nawal ebbero un guizzo di gioia.
“Grazie”, rispose. “Se vuoi anch’io ti presto i miei.”
Maria ebbe un’espressione strana perché Nawal scoppiò a ridere: “Tranquilla. Sono in italiano.”
Rise anche Maria.
Davvero aveva potuto pensare che i musulmani erano un mondo a parte?
Quel mattino arrivò a scuola con più di un’ora di ritardo e fu rimandata indietro perché non aveva la giustificazione. Alla madre disse che le era venuto un improvviso mal di pancia, e ch’era dovuta tornare a casa per quello. Per fortuna la madre le credette e la cosa finì lì.

Adesso che conosceva Nawal, Maria si trovava con lei ogni volta che poteva. Camminavano a lungo per le strade del quartiere chiacchierando, e la gente si voltava a guardarle. Qualcuno faceva commenti pesanti, i più gentili dicevano che non era ancora carnevale.
E’ per via del velo, si risentiva Maria, come se stessero offendendo lei. Nawal invece fingeva indifferenza.
Maria avrebbe voluto chiederle perché lo portava. Quel velo la disturbava, come fosse lei a indossarlo. Solo l’idea di dover tenere la testa coperta, sempre e ovunque, senza far respirare i capelli, le metteva un prurito terribile. A volte lo paragonava a una bardatura studiata per castigare la bellezza di Nawal. Come poteva accettarlo, quella ragazza? Era aperta, colta, intelligente. Probabilmente erano i fratelli e il padre ad obbligarla!
Allo stesso tempo, e con una certa stizza, Maria doveva ammettere che quel velo l’affascinava. Ci leggeva un mondo e pensieri sconosciuti, storie diverse, cieli immensi pieni di stelle fredde e deserti sconfinati, dove poter camminare in solitudine, in mezzo a cattedrali di sabbia che svanivano al primo infuriare di tempesta.
Allora concludeva che per le musulmane è normale portare il velo e per le occidentali no. Punto. Che altro c’era da sapere?

Invece un giorno glielo chiese. Stavano passeggiando e Nawal si era appena sistemata una ciocca di capelli sfuggita alla morsa del suo hijab. Maria si fece coraggio: “Perché lo porti?”, le chiese.
“Che cosa?” domandò Nawal.
“Quello”, disse Maria indicando il copricapo. “Il velo. Perché porti il velo.”
Nawal la guardò stupita.
“Pensavo che per te non facesse differenza.”
“Non fa differenza, solo vorrei sapere perché lo porti. Non mi sembri così antiquata.”
Nawal corrugò le sopraciglia. “Antiquata? Perché antiquata?”
Maria si chiese se fosse il caso di continuare quella conversazione. Le sembrava un terreno alquanto scivoloso. Ma voleva capire. Se Nawal era veramente una persona aperta come pensava, avrebbe accettato di confrontarsi con lei.
“Da noi si portava una volta, quando le donne venivano considerate inferiori, e dovevano coprirsi per dimostrare la loro modestia e la loro sottomissione agli uomini. Ti rendi conto, il maschio ci ha fatto sempre sentire in colpa di essere femmine! Colpevoli del suo desiderio morboso e della sua violenza. Ci ha sempre usate a suo piacimento, violentate, relegate in casa, private della possibilità di studiare. Ci sono voluti anni di lotte perché finalmente venissimo considerate esseri umani come loro, con gli stessi diritti e gli stessi riconoscimenti!”
Fece una pausa e guardò Nawal. La ragazza teneva gli occhi bassi e ascoltava, assorta. Adesso o mai più, si decise Maria.
“Dimmi, c’è qualcuno chi ti costringe a indossare il velo? Se non lo fai ti picchiano? Io voglio aiutarti. Qui in Italia devi sentirti libera.”
Nawal alzò di scatto la testa e la fissò. I suoi occhi bruciavano.
“Nessuno mi picchia! Mio padre è l’uomo più buono del mondo!” Abbassò la voce, improvvisamente ostile. “Tu credi di essere libera perché non porti il velo, e credi di voler liberare anche me, povera beduina selvaggia. Ma chi ti dice che io non sia felice di portarlo? Chi ti dice che la tua libertà sia valida anche per me? Voi occidentali siete sempre arroganti. Credete che quello che pensate sia l’unica cosa giusta, e lo volete imporre ai poveri sottosviluppati come noi musulmani. Ebbene, il vostro è solo colonialismo. Lo siete sempre stati, dei colonialisti, sempre a voler dire agli altri cos’è meglio per loro. Io ho scelto di portare il velo. Nessuno me lo ha imposto. Nessuno me lo impone. E l’ho scelto semplicemente perché mi ci riconosco, e sono fiera della mia identità di araba e di musulmana.”
La guardò di nuovo. “Il tuo femminismo non vi ha portato molto lontano, se ancora ti consideri superiore alle altre donne.”
“Va bene”, commentò Maria, “fai come credi. Non parliamone più.”
Ma sapeva che qualcosa di definitivo era successo tra di loro, una frattura che non sarebbe stato più possibile risanare.

Ci fu un altro fattaccio. Questa volta toccò a una ragazzina di soli quattordici anni. Fu presa nel buio, picchiata e stuprata. La ragazzina stava tornando a casa dopo esser stata con delle amiche. Nel buio qualcuno le tirò un pugno e la pestò, poi con un coltello alla gola l’obbligò a fare sesso orale.
Anche la ragazzina disse che lo stupratore parlava male l’italiano. No, nel buio non ne aveva distinto i lineamenti. Sì, poteva essere un arabo.
Quando la madre di Maria seppe la notizia le proibì di continuare a frequentare Nawal.
“Non devi vederti più con lei, non entrare mai in casa sua, soprattutto se ci sono i suoi fratelli, non sappiamo che gente sono, hai visto che sta succedendo nel quartiere? Quel violentatore è una belva, mica un essere umano, stai attenta, figlia mia, non fidarti mai!”
Quelle parole – non fidarti – riecheggiarono a lungo nella testa di Maria mentre tornava a casa, dopo il litigio con Nawal.
Si chiedeva se la madre avesse ragione. Forse i fratelli di Nawal, con tutti i loro sorrisini mielosi, erano tra quelli che consideravano Maria una puttana, buona solo a essere violentata. Forse addirittura uno di loro …
Si guardò in giro. La sua cameretta era in ordine, come sempre. Dalle tende delle finestre entrava una luce rosea e soffusa. I mobili erano nuovi, in legno chiaro. Ai muri erano appesi dei poster di Eminen e dei Gun’s and Roses. Sua madre non sapeva chi fossero e glielo aveva lasciato fare.
Quello che le mancava era un computer. Sospirò.
Tutti i suoi compagni ne avevano uno, si mandavano mail e chattavano a tutto spiano. Solo lei ne era priva. La madre era stata irremovibile. Diceva che poi Maria chissà quali porcherie avrebbe visto in Internet, e poi magari qualcuno l’avrebbe attirata in una trappola e violentata, e poi magari… Invece lei desiderava un computer, era la cosa che desiderava di più al mondo.
“Al diavolo!”, si disse, “che vadano a farsi fottere tutti quanti!”
Scalciò i piedi con rabbia e fece volare le scarpe contro il muro.
Con un salto si distese sul letto e chiuse gli occhi. Poi di colpo si alzò, si prese la testa tra le mani e scoppiò a piangere.

Per una settimana lei e Nawal si salutarono appena. Poi un mattino, senza alcun preavviso, Nawal la fermò.
“Domani pomeriggio sei invitata a prendere un tè a casa mia,” le disse. “Non ti permettere di offendermi con un rifiuto, noi integralisti possiamo vendicarci in maniera terribile!”. Le sorrise.
Maria era troppo sorpresa per rifiutare. Disse “un va bene” veloce, poi osservò in silenzio l’amica entrare nel suo appartamento.
Avrebbe voluto chiederle una cosa, ma si vergognava troppo: se in casa, l’indomani pomeriggio, ci sarebbero stati anche i suoi fratelli.

Quella notte ebbe un incubo spaventoso: sognò che nell’appartamento di Nawal non c’erano finestre, solo un susseguirsi di stanze tetre e buie senza sfoghi né aperture che rivelassero la presenza di un palazzo, di luci rassicuranti nella notte. Maria s’inoltrava in quel labirinto col cuore in gola, attenta a ogni minimo segnale di pericolo.
Nawal era da qualche parte, lei non poteva far altro che proseguire nel dedalo di corridoi, sperando d’incontrarla. D’un tratto si accorse che qualcuno la stava seguendo. Ansimava piano nel buio. Maria si fermò. Anche l’altro si fermò e per qualche secondo ci fu solo silenzio. Con uno sforzo Maria proseguì di qualche passo. L’ansimare riprese, sempre più vicino, sempre più forte, finché lei non sentì l’alito sul collo. Due mani l’afferrarono e la gettarono a terra. Maria urlò. Le mani di Mohamed la frugarono dappertutto, in ogni sua parte intima, lei piangeva, implorava, ma intorno a lei rispondeva solo il silenzio, e quel buio, più denso e vischioso della notte stessa.
D’un tratto qualcuno scoppiò a ridere. Era sua madre. La guardava e rideva dicendole “te l’avevo detto io di non fidarti, te l’avevo detto!”

La porta si schiuse silenziosamente. Maria entrò.
Per tutta la mattina a scuola non aveva fatto altro che pensare al sogno. Si era ripetuta più volte che non c’era nulla di cui aver paura, che sua madre l’aveva condizionata, che se anche i fratelli di Nawal fossero stati in casa, non le avrebbero fatto niente. Erano di sicuro dei bravi ragazzi. E comunque Nawal non lo avrebbe permesso. O forse sì? Forse si era offesa a tal punto da volerle dare una lezione?
Maria aveva letto di quello scrittore condannato a morte per aver scritto un libro non gradito ai musulmani, inoltre c’erano le due ragazze violentate subito dopo l’arrivo della famiglia di Nawal. Ma soprattutto c’era l’incubo. Immenso. Terribile.
Ma ormai era troppo tardi. Era entrata.
“Benvenuta”, disse Nawal.
Alle spalle della ragazza la stanza s’inondava di luce. Pochi mobili, puliti e decorosi. Niente tappeti per terra né oggetti di rame alle pareti. Niente odore di couscous, né tantomeno di hashish, come Maria aveva temuto. Guardò in faccia l’amica e per un attimo rimase a bocca aperta.
Nawal era senza velo. I capelli, sciolti sulle spalle, erano neri e lucidi. Dei capelli così luminosi Maria non li aveva mai visti.
“In tuo onore”, le disse Nawal con un sorriso. Poi scoppiò a ridere. “No, è che a casa sto sempre senza velo.”
“Sei bellissima… “, sussurrò Maria. Poi si ricordò dei fratelli. “Sei sola?”, chiese.
“I miei genitori lavorano, lo sai. Anche i miei fratelli adesso lavorano. Consegnano pizze a domicilio il pomeriggio, non appena escono da scuola. A volte non hanno neanche il tempo di mangiare. Ma loro sono felici di portare qualche soldo ai miei.”
Maria accennò di sì adagio con la testa, senza sapere bene il perché.
“Hai saputo di quel tizio che hanno catturato?”, continuò Nawal, “quello che ha violentato le due donne? L’hanno preso stamattina. Era ora. Mio padre e i miei fratelli avevano una paura terribile per me, mi dicevano sempre di stare attenta quando ero sola per strada, al buio… “
Maria arrossì. Per fortuna Nawal non la stava guardando.
“Non lo sapevo… Non ho ancora ascoltato il TG. Hanno detto chi è?” chiese.
“Un certo Antonio Bergamaschi. Uno di qui.”
Nawal la guardò in un modo curioso prima di continuare. “Dai lineamenti poteva essere scambiato tranquillamente per un magrebino, così lui faceva apposta a parlare male l’italiano.”
Maria tacque, vergognosa.
“Beh”, disse Nawal, “che facciamo qui impalate?” La prese sottobraccio e la guidò nell’appartamento.
“I miei fratelli dormono lì”, le disse indicando la stanza. “Là, invece, c’è la camera dei miei genitori.” Maria accennò ancora di sì con la testa.
Sì a che cosa, non lo sapeva neanche lei. Sì, siete delle brave persone, io invece sono una stupida, scusami. Ecco, quelle sarebbero state le parole giuste.
Entrò in camera di Nawal e subito si fermò. Contro il muro, proprio di fronte a lei, c‘era uno scrittoio. Sopra troneggiava un computer, un meraviglioso Toshiba portatile da ventun pollici. Maria avrebbe fatto follie per averne uno così.
Si avvicinò, affascinata. Dallo schermo un ragazzo dagli occhi neri come il carbone la stava fissando. “Benvenuta, Maria” le disse, “felice di conoscerti. Nawal mi ha parlato molto di te. Io sono Jamal.”
Maria guardò Nawal senza capire.
“E’ il mio fidanzato”, le spiegò l’amica, “volevo farti una sorpresa. Sto facendo i documenti per farlo venire qui. Nel frattempo studia l’italiano, così non farà fatica a trovare un lavoro. Ci parliamo sempre attraverso skype. Tu hai skype?”
Skype? Maria ne aveva sentito vagamente parlare. Si domandò chi tra lei e Nawal fosse l’antiquata.
In quel momento lo sguardo le cadde sulla sedia. C’era qualcosa appoggiato sullo schienale, qualcosa di morbido e delicato come una piuma. Sembrava aspettare lei.
Istintivamente Maria lo prese e se lo mise in testa. Lo girò bene attorno al collo, tenendolo fermo con una mano. Strizzò l’occhio a Nawal.
“In tuo onore”, le sussurrò.
Poi col velo ben stretto si mise davanti allo schermo e guardò il ragazzo.
“Ciao, Jamal, felice di conoscerti”, disse.


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